Foto a sinistra: Il cardinale Fabrizio Ruffo in una immagine
ripresa dal web.
L’episodio che ha coinvolto i Sanfilesi ed il
cardinale Fabrizio Ruffo è documentato in più cronache dell’epoca.
E’ nel suo complesso – e nella sua tragicità - una
storiellina simpatica (a mio modesto parere) da leggere.
* * *
Quante
volte ho sentito dire (e quante volte l'ho detto pure io): "'Ntu
Meridione stavamu buani aru tiempu di Borboni". L'ho sentito dire e
l'ho detto pure io... dimenticandomi d'essere un sanfilese, ossia il classico
"Bastian contrario".
E'
da tutti risaputo, infatti, che all'appuntamento referendario del 2 giugno
1946, dove si doveva scegliere tra il sistema monarchico e quello repubblicano,
a San Fili vinsero i monarchici con 1149 voti contro i repubblicani che ne
ottennero solamente 742 (le bianche e nulle furono ben 88). Fu una vera e
propria disfatta, quella che scaturì dalle urne del nostro comune, per la nascente
Repubblica Italiana.
Tutto
ciò spiega, o quantomeno dovrebbe spiegare e giustificare, il rimpianto dei
sanfilesi per l'annullamento del Regno delle due Sicilie e la nostra nostalgia
per i discendenti di Franceschiello e dell'intera Casa Reale Borbonica.
Tutto
ciò (i risultati del referendum del 1946 che videro in San Fili una convinta
cittadina monarchica) spiega, o quantomeno dovrebbe spiegare e giustificare,
una tale predilezione e fede monarchica del popolo sanfilese... se non ci si
mettesse di mezzo la storia della nostra comunità e quanto accadde tra i
Sanfilesi e le milizie del Cardinale Fabrizio Ruffo verso la fine del
diciottesimo secolo (1700).
Innanzitutto
è opportuno, per meglio capirci, tracciare un breve profilo storico del
Cardinale Fabrizio Ruffo: ecclesiastico (in un periodo in cui il clero non
disdegnava il potere temporale della Chiesa, e quindi non ci pensasse due volte
ad imbracciare le armi per "le sante guerre") e uomo politico di
tutto rispetto.
La
situazione della penisola all'epoca del Ruffo non era delle migliori, tutto
cambiava in rapida successione. Persino il Regno di Napoli (successivamente
delle due Sicilie): nel diciottesimo secolo passò dapprima sotto il dominio
austriaco, e poi sotto il governo di Carlo III di Borbone, il quale adottò un
piano di vaste riforme per l'abbellimento e il progresso del Regno, anche se la
maggioranza della popolazione era lasciata nella miseria e nell'ignoranza.
Il
Cardinale Fabrizio Ruffo emette i suoi primi vagiti il 1744 nel castello di San
Lucido (morirà a Napoli nel 1827). Tesoriere generale della Camera apostolica,
si guadagnò l'odio dei feudatari per la sua amministrazione riformista; fu
quindi rimosso dall'incarico da Pio VI e creato, secondo il motto
"promuovere per rimuovere", cardinale nel 1791.
Tornato
a Napoli nel 1798, dopo la creazione della Repubblica Partenopea, seguì la
corte borbonica a Palermo. Nominato vicario generale del Regno, l'anno
successivo passò in Calabria dove raccolse bande di volontari e formò
l'esercito della "Santa Fede". Con tale "esercito", in soli
quattro mesi, riuscì a travolgere le fragili difese repubblicane e a
riconquistare Napoli.
Inutile
dire che a favorire l'impresa del porporato venne anche in aiuto, oltre alla
fede cristiana delle masse dei contadini, la sua favella e i vari provvedimenti
"popolari" emessi dallo stesso quali l'abolizione e la riduzione di
pesanti tasse e gabelle allora in vigore (una ritoccatina al prelievo fiscale,
ieri come oggi, non guasta mai).
L'avanzata
del Cardinale Fabrizio Ruffo verso la città di Napoli non trovò ostacoli sul
suo camino... finché non s'imbatté (pensate un po') nei Sanfilesi, o più
precisamente in un gruppo di loro... e non rischiò di rimetterci le penne.
Scrive
Luigi Maria Greco negli Annali di Citeriore Calabria (1806/1811):
"Per
insidie tese nella valle del Crati, da pochi repubblicani di San Fili a Ruffo
Cardinale, un colpo di archibugio, insolito a fallire troncò il fiocco della
Croce del porporato".
"Per
insidie tese nella valle del Crati, da pochi repubblicani di San Fili"
il cardinale Fabrizio Ruffo (che si vantava, il 6 marzo 1799, di aver raccolto
attorno a se, già a Pizzo, ben quattromila uomini e di prevederne nelle sue
fila oltre diecimila appena giunto a Catanzaro) e per colpa di "un
corpo di archibugio insolito a fallire" per poco non passò alla storia
in tutt'altro modo... ed in quest'anno (1999) Napoli non avrebbe potuto
celebrare l'anniversario della storica vittoriosa insurrezione.
Proprio
così: San Fili, la repubblicana, per un soffio non mandò prematuramente
all'altro mondo non solo il cardinale Fabrizio Ruffo ma anche lo stesso ritorno
sul trono di Napoli da parte della Casa Borbonica... e oggi, noi sanfilesi,
abbiamo anche la sfrontatezza di definirci filo-borbonici!
Vi
ho raccontato questa parte della storia e quanto prima vi racconterò anche il
seguito (cosa ancora più bella) ma vi prego: CHE NESSUNO DI VOI SI SOGNI DI
ANDARE A FARE LA SPIA CON LA BELLA MELBA!
San
Fili fu, nel 1800, un centro di indiscutibile valore patriottico... punti di
vista permettendo. Il nostro alto spirito repubblicano e il nostro desiderio di
vedere un'Italia unica ed indivisibile non potevano certamente piacere né ai
Borboni né tantomeno ai monarchici.
Persino
il nostro eroe risorgimentale Sante Cesario, "riveduto e corrotto",
in tale logica finisce per passare da indiscutibile punto di riferimento
storico e quindi vanto della nostra comunità, a semplice criminale di bassa
lega.
Ed
è in questa strana logica della storia umana, dove i vincenti ce li ritroviamo
sempre e comunque dalla parte della ragione, che l'eroica azione dei sanfilesi
che stava culminando nella morte del Cardinale Fabrizio Ruffo (a capo
dell'esercito della "Santa Fede" che doveva rimettere sul trono del
Regno di Napoli i reali della casa borbonica), finisce per essere riportato da
alcuni commentatori storici dell'epoca come uno tra i tanti casi di volgare
criminalità comune (anche se in una veste simpatica e folcloristica).
* * *
Riporto
di seguito un simpatico passo scritto da L. Grimaldi nel suo articolo
"Bernardo de' Marchesi de Riso ed i suoi tempi", opera postuma, apparsa
su "Il giurista calabrese", anno III, 1869, numeri. 2 e 3:
"...
Fra le bizzarrie del tempo, fu anche quella di vedere sorgere in Sanfili (sic.!), paese non molto distante da Cosenza, un
tale Dell'Aquila, che, raccolta una banda di trenta assassini, si pose a fare
il rapinatore, sotto protesto politico, che variava a suo piacere, poiché,
percorrendo i piccioli paesi, se vi trovava la bandiera regia l'abbatteva e
v'innalzava la repubblicana, ordinando il saccheggio; se invece trovava la
bandiera repubblicana l'abbattea per innalzare la regia, così facendo sempre
grosso bottino.
Nel
bosco Ritorta, imbattutosi colle truppe cardinalizie, il Dell'Aquila non vide
altra risorsa che di annunziarsi al Cardinale come raccoglitore di gente per
metterla a sua disposizione. Il Cardinale lodollo e l'accettò, ma un nemico del
dell'Aquila, che seguiva il cardinale, lo avvertì di tenerlo per sospetto,
comecché avea piantato l'albero in più luoghi.
La
comitiva allora, caduta in diffidenza, diede di mano alle armi ed ebbe luogo un
conflitto, nel quale un colpo di fucile portò via il pomo della sella del
Cardinale. Ma vinti dal numero, alcuni restarono morti, altri fatti prigioni, fra
i quali il Dell'Aquila, che fu giustiziato".
* * *
Brutta
fine quella del Dell'Aquila, così come brutta fine fece l'eroe sanfilese Sante
Cesario, ma ancor più brutta fine stavano per fare i sanfilesi tutti, dopo
l'episodio del Cardinale Fabrizio Ruffo, se non fossero giunti gli amici di
Bucita a darci man forte.
Ma
vediamo assieme come si svolsero i fatti.
All'indomani
dell'attentato, fallito per un soffio, al Cardinale Ruffo, i Falconaresi
(fedeli al Cardinale), decisi a dare una sonora lezione ai rei Sanfilesi
(presumibilmente una scusa, in quando per ben altre cose e ragioni, i Sanfilesi
non erano ben visti dalla gente della costa tirrenica), con a capo un certo
Donnu Titta mossero armati fino ai denti contro il nostro abitato.
I
Sanfilesi, opportunamente messi sull'avviso, aspettarono gli "ospiti"
arroccati sul sagrato della Chiesa Madre. Vi fu una cruenta battaglia che,
malgrado persino le nostre donne si facessero in quattro per dar man forte ai
nostri avi, dopo breve tempo si volse contro i poveri accerchiati.
Fortuna
volle che un certo Pasquale Gentile (ricco possidente del paese nonché maestro
nell'arte della produzione e della commercializzazione della seta) recatosi di
corsa a Bucita ottenne dai concittadini della nostra futura frazione un
insperato, pronto e fortuito aiuto.
Giunti
a San Fili i confratelli di Bucita assieme al Gentile presero di spalle i
Falconaresi cui in breve resto ben poco scampo e ben poche possibilità di
vittoria.
In
men che non si dica, ottenuta una proverbiale batosta, i Falconaresi furono
costretti a scappare e quindi San Fili per l'ennesima volta poté emettere un
sospiro di sollievo per lo scampato pericolo.
Il
tutto, per la cronaca, si svolse nel 1799.
* * *
I
fatti che hanno interessato i Sanfilesi ed il Cardinale Ruffo hanno ispirato
anche il nostro simpatico ed impareggiabile "poeta e cantastorie Luigi Gigino
Aloe.
I
versi di seguito riportati sono ripresi dalla sua poesia/canzone in vernacolo
"San Fili da Terra di Sancti Felicis"... cambia qualche nome,
ma la storia è sempre quella:
(...)
Su populu ha lottatu pe a paci e a libertà
na
storia forsi vera vi vuagliu raccunta'.
Prima
nu cardinali, formò na banda armata
partitu
da Sicilia, saccheggia sa vallata.
Ruffu
i cugnume, a Santu Lucidu natu,
anchi
si Cardinali, era nu depravatu.
Chiamanu
ad Ermellinu ca spara ‘i precisioni
pe
fa fini ccu a forza chissa maledizioni.
Postìa
ru Cardinali d'arriati nu Frascuni
u
spara ma ull'ammazza! U coglia a ru curduni.
Chissu
è nu malidittu! U pruteggia Belzebù
Ermellinu
sa squaglia e nun si trova cchiù.
Intantu
n'atru barbaru arriva i Falconara
Don
Chiccu cu mill'uamini si vole vendicare.
A
genti di San Fili, ardita e curaggiusa
supa
a ra Cchiesa Matri pripara ra difesa.
U
scontru è assai violentu, para tuttu perdutu
arrivanu
i rinforzi: Vucita è tutta armata.
Vucitari,
è Pasqualinu Gentile a ri guidari,
a
ra banda i Don Chiccu un li resta ca scappari
(...).
* * *
Poeticamente
parlando, comunque, non fu solo l'amico Gigino Aloe ad interessarsi della
vicenda intercorsa tra i Sanfilesi ed il cardinale Fabrizio Ruffo... né fu
certamente il primo.
Su
tale argomento, infatti, si c'era già sbizzarrito con la penna il poeta e
letterato locale Raffaele Pellegrini (S. Fili 29 settembre 1857 - ivi 13
dicembre 1934).
Nella
sua composizione dedicata all'allora costruendo tunnel del tratto ferroviario
Cosenza Paola (intitolata appunto "Pel Tunnel della Cosenza - Paola),
stiamo parlando degli inizi del Novecento, troviamo la seguente strofa:
E
lì, ritto in arcioni,
il
tristo Cardinal crocesegnato,
Fabrizio
Ruffo, ancora ammantellato
nella
porpora, tinta di sanguigno
da
le stragi novissime, maligno
il
guardo, anch'Ei s'erge, e guata quella
balza
fatal del monte, ove Armellino,
spiandone
il cammino,
l'arciöne
gli forava de la sella.
Con
le seguenti note curate dall'indimenticabile Goffredo Iusi:
"E'
tradizione, confermata, del resto, dal racconto attendibile dei nostri vecchi,
che nel 1799, Pasquale Blasi, soprannominato Armellino della Carboneria - alla
quale in quei tempi davano contributo larghissimo le famiglie Pellegrini,
Granata, Gentile, ecc. - si appostasse al passaggio del Cardinal Ruffo, capo
dei Sanfedisti e reduce dai massacri delle Puglie e del Cosentino. Sul così detto
"passo delle Crocelle" il colpo del suo fucile falliva colpendo
semplicemente l'arcione della sella; ed il porporato poté raggiungere le rive
di Paola, ove l'aspettava un legno. che doveva condurlo in Napoli, a dare
l'ultimo colpo a quella agonizzante e gloriosa Repubblica Partenopea".
Resta
ovviamente l'invito a leggere, e non solo questa, l'intera poesia "Pel
Tunnel della Cosenza-Paola di Raffaele Pellegrini.
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