SAN FILI BY PIETRO PERRI BLOG: A Peppinu, ara fortuna are carte ed a nu bieddru stoppinu (versi e non solo).

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venerdì 30 settembre 2022

A Peppinu, ara fortuna are carte ed a nu bieddru stoppinu (versi e non solo).



Foto a sinistra: una partita a carte tra amici nel bar/caffè di Salvatore Tuture Blasi nel 1971.

La foto è ripresa dall’archivio di Francesco Ciccio Cirillo.

Il bar/caffè di Salvatore Tuture Blasi era composto da un’ampia sala all’entrata (il vero e proprio angolo bar con doppio bancone), una piccola sala successiva dove si giocava a carte con posta la classica “consumazione” ed una ulteriore saletta dove, si dice, la gente giocasse a soldi.

Il bagno era piccolo ed alla turca.

Personalmente c’ho lavorato, da fanciullo (è stato nelle vacanze estive tra la seconda e la terza media), un paio di mesi poco tempo dopo che la gestione dello stesso fu acquisita dalla famiglia Gioffre’.

Un brevissimo periodo cui ricordo comunque sempre con piacere.

Un brevissimo periodo in cui imparai a fare persino il caffè con le micidiali macchine a bracci manuali.

Altri tempi ed altra storia.

*     *     *

Tra il materiale cartaceo che mi ritrovo in archivio trovo anche questi versi dedicati a Peppinu.

Sono riportati su un foglio fotocopiato (dattiloscritto con qualche correzione a penna) e l’originale dovrebbe risultare alquanto rovinato.

Purtroppo da questa fotocopia che mi ritrovo in mano non è possibile risalire né all’autore di questi versi né a chi fossero dedicati tali versi (di Peppinu, per fortuna, a San Fili non ne sono mai mancati) né tantomeno la data in cui gli stessi hanno preso vita.

Qualcuno vuole dire che anche tali versi siano opera del poeta dialettale sanfilese don Giovanni Gentile alias Chiacchiara... personalmente ho qualche dubbio (ma non eccessivamente grande). Dopotutto a San Fili negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso sembra si dilettassero in tanti - tra i nostri cari compaesani - a scrivere versi del genere (non solo in dialetto ma anche in italiano).

Facendolo tra l’altro anche in modo decisamente apprezzabile.

Mitici ed invidiabili i collaboratori del giornale satirico murale “Il Cantastorie”. Un giornale, questo, scritto su carta di fortuna (tipo quella in cui si incartava all’epoca il pane) ed affisso su un muro all’altezza di piazza Municipio (credo comunque che nel frattempo il nome di tale piazza è cambiato)... mmienz’u puontu.

Serve salvare questo scritto nel mio blog?

Sì! ... e per tutta una serie di motivazioni, prima fra tutte perché si salva la memoria storica di un modo come un altro del come passavano i nostri avi una “quasi bella” serata in compagnia. Dico una “quasi bella” perché di fatto questi versi sono una tiratina d’orecchie al nostro compaesano Peppinu che prendeva troppo seriamente sia la fortuna che una semplice partita a carte.

E l’autore invita al caro Peppinu a prendere tale partita, che può essere la stessa vita, per quello che è: solo una stupida partita a carte.

E l’autore, sicuramente con tanti anni sulle spalle, sembra - tra le righe - chiedersi: e se fosse anche la vita da prendere come una semplice partita a carte?

Un modo come un altro per passare una serata in piacevole compagnia?

*     *     *

A PEPPINU

(I)

Peppinu de jocare u’ si rifiuta

è fissa ca si perde na sirata

quannu vicinu tene chi l’aiuta,

la furtuneddra fimmina e cecata.

 

Si conza e d’iddra a latu sta seduta,

a ra cumpagna sente e mancu jata;

certu la carta - ‘zacchiti - l’è juta,

lu jollu ci l’avia: n’atra stoppata.

 

Tu riesti cu li punti ‘ntra la manu,

tu signi menu e d’iddru scrive chjuni,

iddru a re stelle e tu ‘ntra lu pantanu.

 

Ti frica sempre: vide a ru bancune:

si piglia ri biscotti e tu dijunu;

già: tu si schjettu e Peppe ha lu guagliune.

(II)

E mo ch’era cangiata la furtuna

- lu vientu nu’ va sempre a ra marina -

iddru, ch’è marinaru, si n’adduna

si la jurnata è bona da matina.

 

Quannu la vide povera e dijuna

e nu d’è  cuntu de l’avì vicina,

la chjanta e cunfidenza nu le duna

nu joca e la sacchetta li sta chjina.

 

Pensava: ci a dugnu na mazzata,

lu lassa la furtuna e signa a menu

io stuoppu e d’iddru u’ cala: chi fricata.

 

Ti resta la speranza ch’ha crisciutu,

sira pe sira, a miennule e velenu:

ci ha dittu vieni joca... si ne jutu.

(III)

Peppì, tu l’avia ‘nsipidu u palatu

e nui ti l’àmu fattu cannarutu,

cu miennule, Peppì, t’àmu civatu,

ognunu cose duci t’ha porjiutu.

 

Tu dici ch’è lu jussu du nzuratu

Avire de lu schjettu ‘ncunu aiutu;

va bene: e dogne sira nu t’ha datu

- zuccaru e mele - chiru c’ha vulutu?

 

E mo ni lassi suli a ra partita,

orfani e spienturati na sirata,

e ti rifiuti quannu ti si mmita.

 

Peppì, cà simu quattru e quattru stamu,

si vinci o pierdi, allegru: è na jucata,

la gioia è sula l’ura chi passamu.

*     *     *

La partita è una “partita a stop” giocata quindi con le cosiddette “carte americane” (carte da poker). Tra i versi infatti compare la parola “jollu” (jolly). Forzatamente l’autore si prende anche una scorretta licenza poetica ma... ci ‘sta (almeno per la necessaria rima):

 

Ti frica sempre: vide a ru bancune:

si piglia ri biscotti e tu dijunu;

già: tu si schjettu e Peppe ha lu guagliune.

 

E’ bella la messa in evidenza della diaspora tra schjetti (celibi) e ‘nzurati (sposati) ed il fatto che, per fargli piacere il gioco, l’autore/protagonista (membro degli ‘nzurati) confida verso la fine a Peppinu che la sua non è stata solo fortuna nelle prime partite ma anche il fatto che gli altri del tavolo l’hanno di tanto in tanto aiutato a vincere per fargli assaporare il piacere del gioco stesso:

 

Peppì, tu l’avia ‘nsipidu u palatu

e nui ti l’àmu fattu cannarutu,

cu miennule, Peppì, t’àmu civatu,

ognunu cose duci t’ha porjiutu.

 

E poi... fa sempre bene rinfrescare un po’ di lingua madre dei nostri padri o dei nostri nonni: u dialettu santufilise.

Personalmente posso affermare, sicuro di essere smentito, di aver vissuto non in due o tre epoche diverse. I giorni d’oggi sono decisamente diversi da quando, agli inizi degli anni Settanta (sono del 1961), muovevo i primi passi in modo autonomo su corso XX Settembre a San Fili. E ciò mi ha dato la possibilità anche di entrare, giusto per dare una sbirciata, nel bar/caffè di Salvatore Tuture Blasi o nel bar Luigi Gigetto Sammarco. Parlo di semplice “sbirciata” perché in quegli anni era tassativamente vietato, a noi fanciulli, entrare in certe salette appartate riservate ai giocatori di carte.

Per quanto riguarda le mie giocate pubbliche, (con le carte napoletane o con le carte da poker in mano) invece, le stesse risalgono agli inizi degli anni Ottanta nel bar di Luigi Gigetto Sammarco (che dava sull’ex piazza Caserma attuale piazza Mario Nigro)... il bar/caffè di Salvatore Tuture Blasi era da qualche anno a quella parte passato come gestione al nostro compaesano Rocco Gioffré. Lasciai di giocarci agli inizi degli anni Novanta, dopo una rischiata stupida lite alla fine di una partita all’interno del Centro di Aggregazione Sociale nel locale all’uopo adibito in una sala a pianterreno dell’ex edificio che per secoli ospitò il Municipio (casa comunale) del nostro borgo... mmienz’u puontu.


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