Foto a sinistra: Pietro Perri (alias lo scrivente) intento a "spinnare" (con dubbi risultati) un maiale nei primi anni di questo secolo.
Gli odori (profumi), i veri sapori e per certi versi anche la paura ed il dolore che si provano nelle varie fasi del rito della lavorazione del maiale si possono descrivere solo se li si è vissuti dall'inizio alla fine.
Premessa d'obbligo dell'autore
Nella
seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso, pubblicai sul quindicinale “l’occhio”
(periodico magistralmente diretto dalla bravissima giornalista Marisa Fallico)
una serie di articoli aventi come filo conduttore l’allevamento del maiale e la
lavorazione delle sue carni nella tradizione locale.
Un
modo come un altro, questo, per salvare un po’ di memoria popolare della nostra
amata/odiata Comunità.
Tale
serie di articoli oltre ad essere stati poi raccolti in un solo file e pubblicati
sul mio sito base web (il “San Fili by Pietro Perri”) furono comunque oggetto (materiale)
di un apposito opuscoletto realizzato in occasione di una stupenda
manifestazione culinaria organizzata agli inizi di questo millennio dall’Amministrazione
guidata dal sindaco Luigi Bruno.
E’
un materiale a parer mio (e non solo mio) d’un certo valore culturale che
merita in ogni caso che non vada perduto ed è per questo che ripropongo il
tutto anche su questo mio blog... sperando di farti cosa gradita.
* * *
Na vota a Santu Fili scannavanu i puarci.
All’interno delle famiglie sanfilesi (cosa comunque condivisa con
gran parte del resto delle famiglie calabresi in particolare di quelle abitanti
nelle campagne o nei piccoli agglomerati urbani) per secoli si è svolto (in
alcuni casi anche se in maniera ridotta e leggermente diversificata) il tradizionale rito della lavorazione del maiale. La cosiddetta... spazzunatura
du puorcu.
Una tradizione secolare, in altri tempi una vera e propria
salvezza per la gente del luogo, che si ripete regolarmente tra i mesi di
dicembre (all’incirca con inizio nella settimana successiva all’Immacolata) e
febbraio. Oggi quest’operazione ha perso molta della sua originaria poesia e
della mistica sadicità di cui era intrisa qualche decennio addietro.
Una volta, infatti, fin dalla mattina ci si doveva organizzare per
l’arrivo degli scannaturi (o ammazzaturi che dir si voglia),
maestri nello sgozzare le malcapitate bestie (venute al mondo giusto per finire
sulle nostre tavole) e spaccarle in due parti perfettamente uguali.
La mattina erano già pronti il grosso pentolone (a quadara)
pieno d’acqua sul fuoco (l’acqua calda serviva a spinnare u puarcu,
ossia a rasarlo per tutto il corpo una volta ucciso), i vari recipienti (cati,
cistiaddri, cascette, bagnarole e bagnaroleddre), i canovacci e
quanto si sapeva necessario a quella magica giornata.
In uno dei cati vi si raccoglieva il sangue della povera
bestia che sarebbe stato poi utilizzato sia per fare u sanguinazzu (che,
per quanto può sembrare strano, è una preparazione diversa du sangièri),
una prelibata crema dolce da spalmare sul pane (composta oltre che dal sangue
del maiale anche da cioccolata, pinoli, uva passa, cannella ecc.). Il sangue
raccolto veniva utilizzato anche per fare a sazizza ‘e sangu, e, se ne
restava ancora un pochino, per bollirlo, affettarlo e poi passarlo ara
frissura con una cipolla affettata... una vera delizia.
Per i bambini era una festa partecipare all’uccisione del maiale,
una festa in tutti i sensi: si era giustificati, e non era poco, anche di
marinare la scuola in questa particolare giornata: erano altri tempi e forse i
nostri genitori pensavano che ci sarebbe servita nella vita più
quell’esperienza che imparare a memoria un intero libro di storia. Gli
insegnamenti di don Milani a San Fili sono giunti con enorme ritardo (ed in alcuni
casi, e per alcune famiglie, sono ancora in viaggio).
Gli scannaturi (ricercatissimi in quei giorni) entravano
nel porcile e prelevavano il maiale indicato dal proprietario di casa. Lo
portavano fuori e giunti nel luogo del sacrificio (spesso convincendolo, se un
po’ restio, con l’odore di qualcosa di buono da mangiare: miglio, grano o viverune),
lo gettavano per terra, gli immobilizzavano cu nu rumaniaddru le zampe e
cu n'atru rumaniaddru dittu "u tuarcimussu" le mascelle.
L’addetto alla sgozzatura con una mano teneva u tuarcimussu e con
l’altra mano infilava, sicuro, il lungo e fino coltello (u scannaturu)
nel collo dell’animale.
Faceva un po’ senso quella scena, eppure noi bambini non
riuscivamo a distogliere lo sguardo dal coltello infilato nella gola del
maiale, dal sangue che sgorgava copioso e a sbruffi dalla ferita e che piano
piano riempiva il contenitore che le donne tenevano a disposizione.
Era, quello della raccolta del sangue, un lavoro che veniva
lasciato fare alle donne (non ho mai capito il perché) le quali tra l’altro con
una canna dovevano girare costantemente il sangue ancora caldo nel recipiente
per evitare che lo stesso raggrumasse (quagliassi) e quindi si rendesse
inservibile per "u sanguinazzu".
Il maiale ucciso veniva riposto ‘nta na majiddra a gamm’e fore
(o supra na balla de paglia) e qui veniva "spinnatu"
(capitava a volte che il maiale non era ancora morto e quando vi gettavano
nell’orecchio l’acqua bollente, lo stesso, ormai slegato, finiva per alzarsi e
camminare per diversi metri). Per spinnare (o scurciare) il maiale si
utilizzavano dei coltelli non molto affilati o taglienti.
Finita questa operazione, sollevato da terra il corpo
dell’animale, appeso ad un palo (detto "u gammiaddru") per le
zampe posteriori, sfruttando i nervi delle stesse messi allo scoperto, si
procedeva a spaccarlo in due. Ari scannaturi per spaccare in due
la bestia, da esperti macellai, utilizzavano una affilatissima accetta: per
loro non era necessario battere due volte nello stesso punto, un solo colpo era
più che sufficiente.
All’animale ormai aperto nella parte inferiore venivano tolte le
interiora ("e stentina" che, debitamente pulite, sarebbero
servite poi per fare i vari insaccati) e tutti gli altri organi interni
(fegato, polmoni, cuore ecc.) e quindi "spicate e due menzine"
si portavano in una stanza debitamente attrezzata a riposare per un paio di
giorni.
Si toglievano de menzine i veli che avrebbero poi avvolto i
capiccuaddri, facili da togliere dalla "menzina" ancora
calda se vi si soffiava al di sotto con una cannuccia, difficili da ripulire
dal grasso che vi si appiccicava se non si provvedeva immediatamente
all’operazione. Altra cosa che si faceva era quella di svuotare e gonfiare
(soffiandoci dentro) la vescica dell’animale che sarebbe poi servita o per
sopperire ad un pezzo di velo per i capiccuaddri (se non bastavano i
veli normali) o per riempirla con il macinato della ‘nuglia.
Sempre in questa giornata venivano pulite e stentina che
sarebbero state poi utilizzate per i vari insaccati. Le "stentina"
in altri tempi chi aveva la fortuna di possedere una sorgente all’interno della
proprietà li lavava vicino casa, le altre (siamo in presenza di un lavoro
prettamente femminile) li portavano a lavare ai torrenti (jùmi) del
paese.
Il giorno dell’uccisione del maiale era tradizione fare u
suffrittu. Ed era tradizione pure assicurare ari scannaturi un buon
bicchiere di vino (tra l’altro all’ultimo maiale della giornata era regola
invitare gli scannaturi a pranzare o a cenare con i padroni di casa).
Tra "l’ammazzaturi" più importanti ricordiamo Carminuzzu
Arturi e Tuturieddru Lio (di San Fili), Franciscu e Luigi Perri
(di Bucita).
Prima di lasciare a riposare "e due menzine" si
raccoglieva in un piatto "a meduddra" rimasta attaccata alla
testa anch’essa spaccata in due (cu ra meduddra si ce facianu sapurite
purpette, na vera delizia du palatu).
Passati questi due giorni si passava quindi alla vera e propria
"spazzunatura" (ma di questo ne parleremo in un apposito
capitolo).
Che tempi quei tempi: in quest’articolo, frugando nei miei ricordi
e facendomi aiutare da alcuni amici, ho mischiato un po’ la vita delle campagne
circostanti l’abitato di San Fili e quello che accadeva all’interno del paese
stesso... ma era comunque la vita dei nostri avi, dei nostri nonni e dei nostri
genitori. Fino agli inizi degli anni settanta molti sanfilesi avevano catuoji
all’interno del paese, e in questi catuoji crescevano annualmente i loro
bei passaturiaddri.
Nel periodo in cui "s’ammazzavanu i puarci"
camminando per le vie interne del paese, tra le scalinate realizzate in petre
de jùme si notavano per giorni degli strani rivoli rossi: segno d’una
ennesima tragedia consumata. La morte dell’animale, però, equivaleva alla vita
d’una intera famiglia.
E poi, non si dice ancora oggi al figlio ingrato: "era miagliu crisce puarci c'a crisce a tie"?
Ajiu cumpratu nu puarcu a spaccu e pisu.
Ai giorni nostri è difficile poter assistere all’uccisione di un
maiale, cosa che qualche decennio addietro, nei mesi della stagione invernale,
era una scena di vita quotidiana. Oggi pur restando inalterato il desiderio,
nell’intimo dei sanfilesi, di farsi nu paru de sazizza e nu pocu de
supersate, ci si limita ad acquistare un po’ di carne dai locali
macellai... fermo restando che, presi gli attrezzi del mestiere, quella carne
ce la si lavora con le proprie mani dentro casa.
Poche famiglie, più che comprare qualche chilo di carne, finiscono
per comprare una menzina o un intero maiale già spaccatu
("Compa’ Robe’, cumu la cumpratu u puarcu?", "Compa’ Pi’, no
vivu, c’ammie nun mi fricanu: ... a spaccu e pisu!"). Tutto ciò, però,
ha fatto in modo che nessuno o quasi possa più assaporare "sanguinazzu,
sazizz’e sangu de maiale e sangu frittu cu cipuddre": progresso e
civiltà hanno il loro prezzo.
Il piacere di poter "spazzunare nu puarcu",
comunque, fa parte del nostro sangue ed ogni tanto, seppur acquistando ‘e menzina,
capita a molti sanfilesi (reminiscenza del proprio passato) di rinverdire
questo magico rito. Certo limitarsi ad acquistare qualche chilo di carne è meno
rischioso e dispendioso d’accollarsi il costo d’un intero maiale: bisogna
saperlo lavorare e sperare anche che il tempo e il luogo dove lo mettiamo a
maturare (a siccare e ‘ntostare) ci siano propizi. Alcuni più furbi, tra
l’altro, preferiscono comprare direttamente alla macelleria a sazizza già
fatta: meno lavoro, meno rischio e senza ‘nzivatine dintra a casa.
Furbi certamente sì, ma dubito che sapranno mai cumu sannu bone
e frittule, cumu è bellu sta’ ‘ntuarnu ara quadara, cumu sa bona a salimora e u
suzu, cumu sa bona a ‘nuglia e chi più ne ha più ne metta. E poi chi si
limita a comprare qualche chilo di carne di maiale da lavorare in casa
(certamente più fortunato di chi compra la salsiccia già fatta, in quanto non è
facile trovare sul mercato supersate crude), difficilmente si metterà
anche a farsi capiccuaddri, pancette (quelle tese e non le arrotolate
che tutto hanno in se, tranne storia e tradizione sanfilese) e vuhji (quest’ultima
parola, di fatto la guancia salata ed essiccata dell’animale, con la stessa
procedura della pancetta, ha una pronuncia particolare e difficile da scrivere
in modo perfetto... fa parte della nostra tradizione orale ed è giusto che non
venga cancellata dalla memoria dei sanfilesi).
Tra l’altro a quadara oltre c’are frittule ci dà
anche il grasso (quello che i polentoni chiamano "strutto",
forse sperando di non avere niente a spartire non noi gente del sud) e a
salimora (chiamata in altre zone del cosentino più o meno giustamente scarrafuagli).
Il grasso del maiale una volta era una manna per le nostre famiglie: serviva
per conservare a sazizza ‘ntostata (evitando che andasse a male e
facendo risparmiare in tal modo qualche litro di costosissimo olio d’oliva),
serviva ppe fare a chjina, ed era ottimo per friggere o come sostituto
dell’olio nel sugo di pomodoro (... che sapore! ... sapore d’altri tempi).
A salimora (o
scarrafuagli), invece, oltre che per spalmarla sul pane abbrustolito (atru
ch'e bruschette al pomodoro o al prosciutto ca ni vinnenu oji ‘nti
ristoranti calavrisi: se la gente per bene non si fosse dimenticata delle
proprie origini, sicuramente mangerebbe meglio e con più gusto), a salimora,
dicevo, serve anche per fare una variante da ‘mpigliolata santufilise (una
deliziosa torta salata a base di farina de migliu, chira gialla ppe ni
capire miagliu)
E poi, quannu si spazzuna u puarcu a Santu Fili è la festa d’un’intera famiglia (ara spazzunata c’è sempre ‘ncunu mmitatu, propriu cumu ara quadara... e de buanu auguriu): ci si alza di buon mattino anche in questa magica giornata perché a mezzogiorno, al massimo alle tredici, dobbiamo essere tutti intorno alla tavola a ringraziare Dio (vantandoci di come e quanto ha reso il maiale lavorato) e bevendo un bel bicchiere di vino (fatto in casa anche questo) alla salute di quanti ci vogliono male.
Quannu a Santu Fili spazzunamu u puarcu.
Anche le operazioni preparatorie "ara spazzunatura du
puarcu" iniziano la mattina presto. I primi a trovarsi nella stanza
dove sono state riposte un paio di giorni prima le "menzine" a
raffreddare sono i maschi della famiglia, ossia coloro che materialmente devono
"spazzunare" il maiale (a volte s’invitavano altri parenti e a
volte, per quelle famiglie che non sono pratiche e che hanno paura di sbagliare
qualcosa - i soliti nobili - vengono chiamati a fare il lavoro "spazzunaturi"
locali di provata esperienza).
La "spazzunatura" consiste nel dividere il maiale
in tanti pezzi ben definiti e raccogliere gli stessi, a seconda del tipo di
carne, grasso o ossa ricavatene, in vari recipienti per poter poi realizzare
(opportunamente conditi) i vari prodotti (per lo più insaccati) della
lavorazione stessa.
Messi da parte momentaneamente le due mezze teste (da cui in un
secondo tempo si ricaveranno i "vuhji"), i capiccuaddri ancora
‘mpinti all’uassu, i costariaddri, u filiattu e le zampe
del maiale, in più "bagnarole" e "majiddre"
si dividono i vari tipi di carne: quella dei prosciutti (la coscia) e parte del
filetto in un recipiente adibito alla carne per la supersata;
quella che si trova al di sotto delle pancette e sulle spalle dell’animale (più
rossa) in un recipiente adibito alla carne per la salsiccia; quella macchiata
di sangue (carne sangulente) in un altro recipiente utilizzato per la
carne della cerveddrata.
La carne così divisa, viene poi singolarmente tritata (una volta
veniva tagliuzzata a pezzettini piccolissimi direttamente dagli spazzunaturi
con affilatissimi coltelli, cosa che ancora viene fatta in alcune zone della
Calabria) con le "macchine pe’ macinar’a carne".
Abbinate le varie miscele dei pezzi di maiale macinati (il grasso
per allungare la carne dei vari insaccati; il sangue tritato con un po’ di
carne di salsiccia per ottenere la salsiccia di sangue; la carne toccata dal
sangue con un po’ di polmone ed il cuore tritato, nonché il fegato finemente
tagliuzzato per la cerveddrata e via dicendo) all’interno della majiddra
si procede a dividere in pani il tutto ed in base ai pani a condire l’impasto
con il sale.
Ancora oggi alcune persone più che pesare la carne e mettere in
sale in base al peso della carne stessa, usano, senza sbagliare, salare in
questo modo il tutto. Il sale, s’intende, viene misurato dalle esperte mani
delle donne di casa.
Fatto ciò si passa a condire con appropriati aromi l’impasto a
seconda dell’insaccato che si sta realizzando: la cerveddrata (di cui
sono ghiottissimo) con aglio triturato, semi di finuocchiu ‘e timpa e
peperoncino piccante rosso, la salsiccia con semi di finuocchiu ‘e timpa
(alcuni anche con peperoncino piccante rosso), la supersata con grani
interi di pepe nero (ovvero pipe buanu, come se il rosso fosse male), la
‘nuglia con peperoncino piccante rosso e aglio triturato, la salsiccia
di sangue (difficilissima oggi a trovarsi) con peperoncino piccante rosso.
Condito e amalgamato il tutto a furia di lavoro di polsi, quanto
ottenuto viene messo nelle budella del maiale stesso dove resterà a maturare
per un tempo appropriato. Ci sono le stentina per la salsiccia e quelle
per la supersata (queste seconde molto più grandi delle prime). Finita
anche quest’operazione per una buona nottata i vari insaccati vengono lasciati
a riposare sotto peso, coperti da un canovaccio, in capienti ceste.
La mattina successiva si passa a ‘mpicare a na canna ‘e sazizze
er ‘e supersate in un luogo fresco, asciutto e possibilmente ventilato,
meglio se all’aria di ceramili, avendo però l’accortezza, passati
i primi tre giorni, d’accendervi nel locale un focherello, più che per il
calore, per il fumo che è un vero toccasana per la conservazione del maiale.
A questo punto, se m’assicuri che non t’ho ancora annoiato troppo,
ti svelerò, prodotto per prodotto, gli ingredienti dei vari insaccati che da
secoli vengono fatti a San Fili.
Quannu a Santu Fili spazzunamu u puarcu: gli insaccati.
Del maiale una volta si utilizzava veramente tutto: era un vero
investimento per la gente del luogo che, se si escludono le spese d’acquisto
iniziali (du purceddruzzu picciriddru o du passaturiaddru), per
il resto finiva per costare ben poco. Il maiale veniva cresciuto o con avanzi
del cucinato (la vrodata) o con quello che comunque offriva ai sanfilesi
la natura circostante.
Qualche nostro anziano ancora ricorda il detto "de nu
ruvazzu ti ‘nne dugnu nu piazzu, de nu majiale unnu sacciu chi te dare",
ossia "d’un pettirosso", insignificante per la sua carne, "te ne
do volentieri un pezzo" (per quello che serve), "ma del maiale"
di cui tutto viene utilizzato e nulla sprecato, "non so proprio cosa ti
posso dare", tenuto conto che ciò che sarebbe stato dato, sarebbe stato
tolto al proprietario.
Tra gli insaccati del maiale che regolarmente vengono, in alcuni
casi venivano, fatti a San Fili nei mesi infernali ricordiamo: la supersata,
la salsiccia vera e propria (dolce o piccante che sia), la salsiccia di sangue
(ottima, ma caduta in disuso), la cerveddrata e la ‘nuglia.
La salsiccia (sazizza) propriamente detta: si
usano per farla la carne collegata alle pancette e quella delle spalle (che di
fatto sono più rosse delle altre). Alla carne della salsiccia macinata,
opportunamente allungata con un po’ lardo dell’animale, si aggiungono quali
aromatizzanti dei semi di finuocchiu de timpa (spezia facilmente
rintracciabile nel circondario) e (a chi piace piccante) del peperoncino rosso
essiccato e macinato con la stessa macchina utilizzata per la carne (al
pettine, o dischetto con i fori più piccoli). Completano il tutto trenta grammi
di sale per ogni chilo di prodotto ottenuto.
La supersata: conservata nelle stentina più
larghe, si utilizza la carne dei prosciutti dell’animale, il filetto e una
giusta razione di lardo. Aromatizza il tutto qualche seme (intero) di pepe nero
o pipe buonu (qualcuno non disdegna di metterci anche un po’ di pepe
rosso piccante) e trentatré grammi di sale per ogni chilo di prodotto ottenuto.
La salsiccia di sangue: si utilizza il sangue
bollito e macinato dell’animale a cui si aggiunge del lardo ed un po’ di carne
del tipo usato per la salsiccia propriamente detta. Si aromatizza il tutto con
peperoncino piccante rosso, semi di finuocchiu ‘e timpa e aglio finemente
tritato. Completano il tutto trenta grammi di sale per ogni chilo di prodotto
ottenuto.
La cerveddrata: è un prodotto, così come ci dice
Francesco Cesario nel suo libro "San Fili nei tempi", tipicamente
sanfilese (in altre zone della provincia di Cosenza utilizzano fare la
cosiddetta "salsiccia di fegato", ma è cosa ben diversa da questa
"leccornia" paesana). Si usa, per realizzarla, la carne macchiata di
sangue, lardo, na praca de purmune e na praca de ficatu (alcuni
vi aggiungono anche il cuore dell’animale). Da tener presente che il fegato, a
differenza degli altri pezzi dell’animale citati, non si deve per nessun motivo
macinare ma deve essere tagliuzzato a piccoli pezzettini con un affilatissimo
coltello (pe’ unnu fa diventare na ‘nzivatina). Gli aromi? ... finuacchiu
‘e timpa, na ‘mburverata de pipariaddru piccante e nu bellu pocu
d’agliu minuzzatu. Trenta grammi di sale per ogni chilo ottenuto completa
il tutto.
Ultima, ma non certo per il gusto, tra gli insaccati della
tradizione sanfilese troviamo la ‘nuglia: è un prodotto, questo,
alquanto caduto in disuso. È ottenuta amalgamando il macinato di cuajiri e
trippa vuddruti, un po’ di carne magra e del lardo. L’intruglio viene
aromatizzato con aglio minuzzato e finuocchiu ‘e timpa, nonché condito
con circa trentatré grammi di sale per ogni chilo di prodotto ottenuto. Con la ‘nuglia
si ci riempie la vescica del maiale opportunamente cucita.
Con tutto questo ben di dio a disposizione, un buon bicchiere di
vino (quello di San Fili era in gran parte ricavato dall’uva fragola) e na
bella frissurata de patate arrussicate aru fuacu, i nostri genitori erano
certi di poter passare senza grossi stenti la stagione invernale incombente
all’uscio di casa.
A proposito: u finuocchiu ‘e timpa in italiano si chiama
"aneto"... chi bruttu nume, arrisimiglia giustu aru nume ‘e nu
finuocchiu... ‘e timpa!
Quannu a San Fili spazzunamu u puarcu: la conservazione.
Se per i popoli collegati al concetto religioso dell’Antico Testamento, quali ebrei e mussulmani, la carne del maiale (ma non solo di quest’animale) in quanto appartenente ad un essere immondo viene considerato l’anticamera dell’inferno, per il calabrese (per non dire il sanfilese) è di fatto l’anticamera del paradiso.
Fare, in quest’occasione, un discorso storico geografico collegato al consumo della carne del maiale (sia per giustificare ebrei e mussulmani, che per giustificare calabresi e sanfilesi) creerebbe grossi problemi di spazio. E’ giusto comunque dire che lo scenario in cui si svolge la vita dei popoli dell’Antico Testamento è prettamente desertico e nel deserto cibarsi di carni grasse o bere alcolici può essere, di fatto, letale.
Dal punto di vista della disciplina religiosa, comunque, a noi calabresi ci salva il Nuovo Testamento (Atti degli Apostoli in particolare) dove viene riscritto l’ordine degli "animali immondi": con la nuova nomenclatura tanti animali, incluso il maiale, viene tolto dall’elenco degli animali immondi e posto tra gli animali di cui l’uomo può cibarsi senza rischio di finire all’inferno. Ebrei e musulmani continuano a non riconoscere tali passi delle Sacre Scritture... e non sanno quello che si perdono!
Salsicce (sia quelle propriamente dette che quelle di sangue), supersate e cerveddrate appena fatte vengono lasciate a riposare in un cesto, avvolte in un canovaccio alquanto spesso e poste sotto peso, per circa ventiquattro ore.
Il giorno successivo vengono appese ad una canna opportunamente fissata al soffitto. Come luogo si prediligono le stanze all’aria di ceramili. Non solo salsicce, supersate, cerveddrata, ma anche ‘nuglia, vuhji, panzareddre e capiccuaddri infatti, per asciugare (e quindi maturare) necessitano di luoghi freschi, ventilati e possibilmente asciutti.
Nel luogo dove sono messi a maturare i prodotti del maiale, se questo in particolare presenta tracce di umidità, normalmente dopo i primi tre giorni vi si accende un fuocherello (più per il fumo che per il calore del fuoco stesso... un eccessivo calore, infatti, può danneggiare irrimediabilmente l’intero prodotto).
Passato un numero appropriato di giorni, di quanto rimasto ara ‘mpicata degli insaccati (una buona parte infatti è stata già consumata dalla famiglia golosa) e prima che il tutto vada a male (può irrancidire all’interno se la temperatura e l’umidità nel locale non si sono mantenute ad un livello ottimale), salsicce, supersate e cerveddrate vengono conservate sotto grasso o sottolio. In questi ultimi anni ha fatto la sua comparsa anche nel nostro paesino il sottovuoto... ma personalmente preferisco il tradizionale.
credo che pochi, ormai, ricordano il sapore, decisamente stupendo, della salsiccia o della cerveddrata conservata sotto grasso: più morbida e per questo più gustosa di quella conservata sottolio.
Questi ultimi due prodotti (salsiccia e cerveddrata), c’è anche da dire, facevano (e spero facciano ancora) parte di quanto riservato alle maschere che a carnevale, nel mese di febbraio, fanno ancora il giro di tutte le case del paese.
Ai miei tempi (ma, vi assicuro, non sono così vecchio come mi dipingo), è comunque d’uopo dirlo, a carnevale si utilizzava dare in alcune abitazioni alle incaute mascherine anche un bel pezzo di chjina (tipico dolce locale), qualche caramella, qualche soldino e purtroppo un buon bicchiere di vino o un dannoso liquore... erano quelli i favolosi anni settanta.
La sera, quando si rincasava, malgrado la nostra tenera età, si era ubriachi fradici: che tempi quei tempi! ... eppure, pur sapendo che ne avremmo amaramente pagato le conseguenze, per un intero anno non si faceva altro che aspettare la settimana di carnevale "ppe ni mascarare".
Il maiale rappresenta per i sanfilesi d.o.c. una festa che dura tutta un anno, tanto da restare scolpito nella mente dei nostri anziani il detto: "s’un’t’ammazzi u puarcu, va tuttu l’annu cu ru mussu stuartu".
Vuhji panzareddre e capiccuaddri.
Il giorno della "spazzunatura" del maiale è un giorno veramente pieno per la tipica famiglia sanfilese: ventiquattro lunghe ore in cui nessun minuto viene lasciato alla gestione del caso. Ognuno, nella famiglia ha un compito ben determinato e tutti, meglio d’una catena di montaggio, sanno sempre e comunque cosa fare e quando farla.
Chiuso in ogni modo il capitolo relativo agli insaccati, è giusto che diamo un’occhiata, seppur fugace, agli altri prodotti che le mani esperte degli "spazzunaturi" sanfilesi sanno magistralmente ricavare da questo eccezionale animale. Parleremo questa volta dei vuhji (bargiglione o giogaia del maiale salata), delle panzareddre (pancetta) e dei capiccuaddri.
La stanza (spesso una cucina rustica) dove avviene la "spazzunatura" del maiale è tutto un muovere di mani: pochi momenti di riposo vengono concessi ai lavoranti per bere un buon bicchiere di vino assaporando i vari miscugli, opportunamente passati alla padella, degli insaccati per vedere se gli stessi sono stati ben amalgamati con il sale e gli altri aromi.
Alcuni spazzunaturi (spesso i bambini che più volte, per questo motivo, venivano richiamati dai genitori) tale assaggio lo facevano direttamente con la carne cruda.
Già quando alcuni di questi si dedicano a riempire le stentina, altri si dedicano a togliere dalle mezze teste del maiale quegli stupendi triangoli di cuojiri, grassu, carne e armuliddri che complessivamente prenderanno il nome di vuhji. Le pancette da parte loro erano state tagliate, pulite e squadrate nel corso della prima divisione della carne usata per la salsiccia.
Gli altri lavori interessati in questo aspetto è la suddivisione tra "u filiattu" e "u capiccuaddru" (di fatto l’un pezzo collegato all’altro), e successivamente la pulitura del capicollo dal proprio osso.
I vuhji e le pancette verranno tenuti in un capiente recipiente (na bagnaroleddra) sotto sale per circa otto giorni (in tale periodo saranno quotidianamente girati). Il sale dovrà ben coprirle a mo’ di "pede de gattu" (passandoci le dita sopra, dovranno restare sul sale delle forme simili all’impronta che vi lascerebbe un gatto).
Vuhji e panzareddre, trascorsi gli otto giorni, verranno ripuliti dal sale (lavati con acqua e aceto), ‘mpipati con peperoncino rosso piccante (nelle zone non coperte dal cuojiru) e quindi ‘mpicati ara canna a fianco alle salsicce e alle supersate. Le pancette in particolare, nei bei tempi che furono (ma che comunque speriamo non ritornino mai più… non essendo stati sempre così belli come ci sforziamo di descriverli) erano una delle basi principali delle colazioni primaverili dei contadini sanfilesi.
I capiccuaddri sotto sale vi si terranno invece quarantotto ore, quindi verranno lavati con acqua e aceto, asciugati con un canovaccio, ‘mpipati con peperoncino rosso piccante, avvolti in un velo ricavato dal maiale stesso (oggi abbiamo anche quelli sintetici), legati a spirale con dello spago per tutta la loro lunghezza e quindi ‘mpicati (dopo averli opportunamente segnati in più parti con la punta d’una apposito punteruolo detto "suglia") a maturare. Questo lavoro si faceva (e si fa) normalmente "supra nu piassulu", dalla parte inferiore (la parte superiore, infatti, serve nel corso dell’anno per lavorare la pasta fatta in casa).
C’è da dire in ogni caso che non fanno parte della tradizione sanfilese i prosciutti e la pancetta arrotolata, malgrado negli ultimi anni qualche compaesano cerca di sperimentare anche questi prodotti innovativi... per la nostra zona.
Un anno e mezzo… con il maiale.
I maiali, allevati dai sanfilesi dei bei tempi che furono nei catuoji (parola di origine greca che significa "stanza sottostante") all’interno del centro abitato, si compravano alla fiera di Santa Maria o a quella immediatamente successiva (ultime settimane di agosto) di Arcavacata: due fiere che sono rimaste nel ricordo indelebile dei nostri cuori, anche se oggi ci dicono poco o niente avendo perso la loro importantissima originaria funzione.
A questo punto della loro crescita (mese di agosto) i maiali venivano chiamati "passaturiaddri", e venivano tenuti nei catuaji per circa un anno e mezzo. Vi entravano che pesavano all’incirca una decina di chili e ne uscivano, per essere uccisi, quando arrivavano a pesare tra i 150 e i 160 chilogrammi.
Che strano: oggi si cerca la carne magra del maiale, a quei tempi si era felicissimi se oltre alla carne magra ci davano anche un bel po’ di grasso. Erano tutte calorie, e di quei tempi chi ci ha preceduto su questa terra sa quanto ce ne fosse bisogno.
A primavera chi aveva maiali maschi (verre) chiamava il veterinario per farli... "grastare", ossia per fargli togliere i testicoli: ciò ne avrebbe favorito l’ingrasso portato avanti a furia di viveruni (acqua ‘mmiscata ccu caniglia), vrodate e quanto di meglio, per loro, ci dava la natura circostante. Oltre a "grastarli" era necessario (ma questo anche per le femmine... ‘e scrufe) vaccinarli.
Nel porcile propriamente detto (o nel catuojiu) si trovava una zona destinata al riposo degli animali ed una zona destinata a sgranchirsi le gambe e a mangiare. Il piatto dell’animale (realizzato creando un incavo in un grosso tronco) era detto scifu. Quest’ultima parola l’abbiamo ereditata dai latini. I latini infatti indicavano con la parola "sciphus" il vaso da bere.
Che buffo: ci facciamo in quattro a scuola per cercare d’imparare qualche parola di greco (catuojiu) e di latino (scifu), e non ci rendiamo conto che se parlassimo di più, e senza false remore, con i nostri anziani impareremmo queste lingue molto più facilmente.
Il letto dell’animale veniva realizzato con paglia (uno dei residui del grano) e, in parte più apprezzabili e spesso di minor costo, con filici secchi (particolari felci di cui sono strapieni i nostri castagneti... mi correggo, quello che furono i nostri castagneti).
Tra gli alimenti utilizzati per l’alimentazione dei maiali ricordiamo anche verdure varie, castagne e glianni (ghiande)... oggi, spesso e volentieri, ci si limita ad ingrassarli con mangimi spesso ricavati con residui della spazzunatura dell’animale stesso (ricordate il caso della mucca pazza? ... con i maiali siamo sulla buona strada!) (1). Un’alimentazione come quella d’una volta dava tra l’altro alla carne di maiale un sapore di cui difficilmente godiamo oggi e sicuramente non godremo in futuro.
Il giorno dell’uccisione del maiale, un pezzo di fegato ed un pezzo di polmone venivano portati dal veterinario che avrebbe dovuto dire ai padroni dell’animale ucciso se l’animale era buono o meno da mangiare (ossia se presentava qualche malattia particolare). Inutile dire che i pezzi di fegato e polmone restavano al veterinario (che si lamentava pure se glieli portavano troppo piccoli).
Chissà se al veterinario piaceva di più la cerveddrata o lo spezzatino di fegato e polmone di maiale: in entrambi i casi, comunque, devo dire che sicuramente era un buongustaio.
Un’altra incombenza di chi uccideva il maiale tanto amorevolmente cresciuto, era quella di dover pagare una tassa al comune dove doveva denunciare l’avvenuta uccisione dell’animale. Questa tassa si chiamava "cabeddra".
Una bella pagina di storia popolare sanfilese, legata all’allevamento del maiale, l’ha scritta il nostro compianto compaesano Francesco Cesario nella sua pubblicazione "San Fili nel tempo". Il brano in questione prende titolo "villeggiatura dei maiali" e parla di come, anche per ragioni igieniche, i maiali allevati nel paese nel periodo estivo venissero portati quotidianamente "a pasce" nelle zone del Fiego e della Cannilina.
(1) Dovere di cronaca: questo pezzo è stato scritto nel mese di marzo 1999, quando ancora non si parlava né si sapeva del problema Belgio e della carne di maiale alla diossina.
I pignatiaddri de sant’Antonu.
Collegato alla lavorazione del maiale (aru jiuarnu de frittule, più precisamente), a San Fili erano i cosiddetti "pignatiaddri de Sant’Antonu". Questi, da persone che si erano date quest’incarico (donne più che altro), venivano lasciati a quelle famiglie che si sapeva dovessero "fare il maiale" (spazzunare).
Ogni "pignatiaddru" poteva contenere all’incirca mezzo chilo di grasso, questo, di fatti, era quello che dovevano metterci dentro, per devozione, le famiglie summenzionate. I pignatiaddri venivano raccolti dopo essere stati riempiti. Il grasso accumulato, sciolto e quindi rilavorato, veniva poi venduto e con il ricavato si aiutava la gestione della chiesa di sant’Antonio.
La gente, da parte sua, faceva in modo che "u primu grassu da quadara" (ossia quello più pulito, il vero e proprio fiore) venisse a riempire "u pignatiaddru" che gli era stato consegnato.
Abituata a ciò, in ogni caso, chi doveva uccidere il maiale e non si era ancora vista recapitare "u pignatiaddru", andava direttamente lei dalla depositaria dei "pignatiaddri" a chiedere il proprio.
Tra i depositari dei "pignatiaddri" a San Fili ricordiamo "Rafeluzza ‘e Gaglia" e, nell’ultimo periodo, "Adelina ‘e Betta".
L’incetta del grasso del maiale, comunque, nei tempi addietro (stiamo parlando dei "secoli" antecedenti il 1970) era alquanto sviluppata.
Nella prima metà degli anni settanta la prima giunta presieduta dal sindaco Alfonso Rinaldi (costretta anche dalle vigenti leggi in materia sanitaria) emanerà le relative ordinanze per allontanare gli animali destinati all’alimentazione umana dall’abitato di San Fili. Tali ordinanze metteranno parola fine ad un’intera epoca.
Oggi chiunque darebbe per scontato un "provvedimento" del genere (vivere con i maiali, i conigli o le galline allevati al pianterreno della propria abitazione, nei catuoji, è un gesto di "stupida ordinaria inciviltà"), in quegli anni fu, invece, una mossa veramente avventata ed antipopolare. Molti sanfilesi criticarono aspramente per quella presa di posizione l’amministrazione in carica.
Il grasso del maiale, ottimo per conservare gli insaccati "siccati ara canna", erano ricercatissimi anche, oltre che dalle locali chiese per aiutare l’economia delle stesse, anche dai monaci dei conventi più o meno vicini all’abitato di San Fili. Tra questi non possiamo non ricordare i monaci che venivano regolarmente dal convento della Madonna della Catena. Per giungere a San Fili i monaci della Catena, nei bei anni che furono, attraversavano in groppa ad un asinello Mendicino, scendevano per Marano e si ritrovavano al ponte delle Jumiceddre (punto in cui s’incontrano i torrenti Manganaro, che nasce a Pantana Cupa, ed Emoli, che nasce are Cannile).
E poi, persino il compianto compaesano Francesco Cesario autore di "San Fili nel Tempo" parlando dei frati ospiti della Chiesa del Ritiro o di santa Maria degli angeli in una pagina della sua pubblicazione non può fare a meno di specificare: "al Convento non mancavano mai uova, grano, vino, granturco, pignatieddri di strutto, ecc. ecc.".
Oggi, abituati all’olio extravergine di oliva (guai se fosse solo vergine) e ai vari oli di semi (mais, soia, girasole e quanto prima, se ancora non c’è arrivato sulle tavole dei sanfilesi, quello di cocco), stiamo quasi per dimenticare persino il colore del grasso di maiale o... dello strutto.
E pensare che una volta, quando ne superava un pochino dagli usi alimentari dei nostri nonni, quel prelibato alimento finiva per diventare uno dei principali componenti di quella mistura che ci avrebbe garantito l’igiene personale e degli indumenti per quasi un anno: u sapune ‘e casa, molto simile ma certamente meno dannoso dei famosi saponi ‘mpetra che avremmo poi trovato sul mercato.
Du filiettu e du suzu du majiale.
Nella storia popolare della lavorazione del maiale a San Fili, un discorso a parte va fatto per il "filetto", ossia quella parte di gustosa carne collegata al capicollo. Il filetto del maiale, affettato, in altri casi lo chiamano anche braciola o bistecca di maiale ed è di fatto una delle parti più gustose dell’animale.
Proprio per il fatto che è una delle parti più gustose dell’animale, ed è tra l’altro preferibile mangiarla fresca... è difficile che ne resti poi tanto al proprietario del maiale ucciso. U filiettu, infatti, tagliato in più pezzi serve ad onorare normalmente i legami con amici, compari e parenti.
Un pezzo del filetto, tra l’altro, non guasta mandarlo a qualcuno che nel corso dell’anno ci ha fatto qualche grosso piacere, a dimostrargli quanto gli siamo grati.
Solo in poche famiglie questa parte del maiale veniva, e viene, aggiunta alla carne per le supersate, e ancor meno utilizzato per ricavarci un capicollo di seconda qualità da mangiare nei mesi di aprile e maggio (in quanto questo tipo di carne matura prima di quella del capicollo normale).
Mi raccontano inoltre alcuni anziani compaesani che ai loro tempi quando si stava al di sotto dei padroni (fino agli anni sessanta inoltrati) con contratto di piccola colonia o di mezzadria (un contratto fatto spesso e volentieri ad immagine e somiglianza dei padroni medesimi) era spesso pretesa di questi ultimi, alla divisione del maiale, che il colono mezzadro desse loro anche il filetto della propria menzina.
Erano questi comunque altri tempi... non differenti da quelli odierni: non è difficile sentir parlare anche dalle nostre parti, alle soglie del terzo millennio, di ditte private che pur facendo firmare ai propri dipendenti buste paga con un certo importo, danno ai dipendenti salari adeguatamente ritoccati.
Oggi come ieri, di fatto, chi tra di noi ha più bisogno finisce per pagare un prezzo esistenziale decisamente alto per permettere a dei lestofanti (spesso garantiti dalle istituzioni pubbliche) di arricchirsi spregiudicatamente ai danni di soggetti indifesi.
Tralasciando questa breve digressione e ritornando al discorso del filetto del maiale, devo inoltre dire che un altro modo di conservare il filetto del maiale, ai bei tempi che furono, era quello di friggerlo (utilizzando del grasso) e quindi riporlo... sotto grasso, in un vasetto. Oggi abbiamo a disposizione frigoriferi e congelatori: fino agli anni sessanta ci si doveva "industrializzare" come si poteva. Il filetto così conservato, ripulito dal grasso in cui era conservato, si mangiava senza problemi anche nei mesi di giugno e luglio.
Un’altra leccornia frutto della spazzunatura del maiale è certamente u suzu (personalmente sono un amante di suzu e cerveddrata).
La carne del maiale messa da parte per fare u suzu (la testa senza i vuhji e le zampe dell’animale, la coda e ‘ncunu cuajiru) viene lasciata un’intera nottata nell’acqua per ripulirla da qualche residuo di sangue. Il giorno successivo si fa bollire il tutto (cupiartu d’acqua e condita ‘e sale, ‘nta nu quadaruattu) per un paio d’ore.
A cottura finita si disossa il tutto e si mette il ricavato, tagliato a piccoli pezzi, in buccacci e buccacciaddri. Al brodo rimasto ‘ntu quadaruattu si ci aggiunge dell’aceto bianco (per ogni parte di brodo, mezza parte di aceto) e si fa bollire l’intruglio per una decina di minuti. Con la mistura ottenuta si riempiono fino ad un dito dall’orlo i buccacci e i buccacciaddri.
Aromatizza questo divino alimento una foglia di alloro (lauru).
Si lascia raffreddare un paio di giorni (finchè non indurisce) e quindi... pancia mia fatti capanna!
Aju sentutu nu chianchieri de parti nostre dire a nu cliente ca tenia chiru juarnu...
"La carne per la gelatina di maiale ve l’ho già preparata". Chi bruttu modu de parlare tenenu oji i chianchieri ‘e stu paise: nannuzzu nun l’avissi capiti, nannuzzu stu donu du Patreternu u chiamava semplicemente "suzu"... e mi sa c’avia puru n’atru sapure.
De frittule e da carne ‘ncantarata.
Un’altra importantissima giornata legata a San Fili (ma non solo a San Fili) è certamente quella dedicata "are frittule e ara quadara": un vero e proprio giorno di festa che ripaga abbondantemente gli "spazzunaturi" del lavoro svolto nei giorni precedenti.
E frittule e a quadara, di fatti, chiudono il capitolo relativo alla spazzunatura del maiale.
Era, ed è tutt’oggi, un giorno di festa da passare con tutta la famiglia riunita, con i compari e con qualche amico di cuore e di vino. Gli stessi vicini di casa, tra l’altro, che si sapeva che in quell’anno non avevano ucciso il maiale, erano invitati a gioire in quel fantastico giorno in quanto "nu piattu chjinu de frittule e minestra" non si poteva di certo negare a nessuno.
Erano quelli i tempi in cui a San Fili l’ospite era ancora sacro, proprio come ai tempi dell’antica Grecia. Anche se, a parere di chi scrive, presumibilmente si rispettava il vicino di casa (rimasto per chissà quale motivo a bocca asciutta) più per evitare qualche malocchio "supra a ‘mpicata" che per doveri di buon vicinato.
Era una giornata particolare quella delle "frittule" che ha lasciato un ricordo indelebile di sè nei nostri cuori e nella nostra memoria: ancora oggi ci si vanta d’essere stati invitati "are frittule" o "a na quadara", un piacere, questo, concesso a pochi eletti.
Le frittule altro non sono se non parte "delle briciole della spazzunatura": le ossa ripulite dalla carne, i cuojiri (quelli non utilizzati per a carne ‘ncantarata o per a ‘nuglia), il grasso rimasto. Il tutto viene messo a bollire, coperto d’acqua, in un grosso pentolone (‘nta na quadara) e a fine cottura avremo realizzato: frittule, grassu e scarrafuagli (salimora, ciccioli).
Quante volte i miei vecchi il giorno della spazzunatura richiamavano i presenti se ripulivano eccessivamente dalla carne le ossa del maiale. Quante volte li ho sentiti dire: "Lassaccela na pocu de carne ‘mpinta, ca sinno pue are frittule ‘unni mangiamu nente!".
Nella quadara i cuojiri venivano, e vengono, legati assieme... de na parte ppe nu re fa ‘mmisc-ka troppu cu ru riastu, de n’atra ppecchi si cocenu prima. A proposito di cuajiri, sapete come si chiamano in italiano? ... "cotenna": chi bruttu nume!
Tolti dalla quadara i cuojiri, e re frittule (portati ancora caldi sulla tavola assieme ad un’abbondante razione di minestra), resta poi da suddividere il grasso dai scarrafuagli (ottimi ppe ra ‘mpigliolata... chira pizza de farina miglinu, ppe chine s’arricorda ancora ‘ncuna cosa de buanu). Per ottenere questi ultimi due prodotti, si cola il tutto.
Terminiamo questo capitolo parlando della carne ‘ncantarata, un’altra delizia del palato che una volta ci offriva la "spazzunatura" del maiale, oggi una tradizione che rischia di perdersi con la memoria dei nostri anziani. La carne ‘ncantarata altro non è se non i "costariaddri" del maiale conservati sotto sale, a strati alternati con strati cuojiri, in un vasetto.
Nel vasetto troviamo un primo strato di sale (gruassu), uno strato di cuojiri, uno strato di sale, uno strato di cuosti (‘nfarinati ‘ntu sale), uno strato di sale, uno strato di cuojiri e via dicendo fino a riempire l’intero vasetto. A coprire il tutto, opportunamente aromatizzato con finuocchiu ‘e timpa, si mette nu ruotu de lignu e quindi na bella petra de jume.
La carne ‘ncantarata si mangiava tra i mesi di aprile e maggio cucinata dopo una nottata lasciata a bagno in acqua per fargli perdere un po’ del sapore del sale. Si accompagnava benissimo con la verdura bollita.
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