SAN FILI BY PIETRO PERRI BLOG: settembre 2022

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* * *
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venerdì 30 settembre 2022

A Peppinu, ara fortuna are carte ed a nu bieddru stoppinu (versi e non solo).



Foto a sinistra: una partita a carte tra amici nel bar/caffè di Salvatore Tuture Blasi nel 1971.

La foto è ripresa dall’archivio di Francesco Ciccio Cirillo.

Il bar/caffè di Salvatore Tuture Blasi era composto da un’ampia sala all’entrata (il vero e proprio angolo bar con doppio bancone), una piccola sala successiva dove si giocava a carte con posta la classica “consumazione” ed una ulteriore saletta dove, si dice, la gente giocasse a soldi.

Il bagno era piccolo ed alla turca.

Personalmente c’ho lavorato, da fanciullo (è stato nelle vacanze estive tra la seconda e la terza media), un paio di mesi poco tempo dopo che la gestione dello stesso fu acquisita dalla famiglia Gioffre’.

Un brevissimo periodo cui ricordo comunque sempre con piacere.

Un brevissimo periodo in cui imparai a fare persino il caffè con le micidiali macchine a bracci manuali.

Altri tempi ed altra storia.

*     *     *

Tra il materiale cartaceo che mi ritrovo in archivio trovo anche questi versi dedicati a Peppinu.

Sono riportati su un foglio fotocopiato (dattiloscritto con qualche correzione a penna) e l’originale dovrebbe risultare alquanto rovinato.

Purtroppo da questa fotocopia che mi ritrovo in mano non è possibile risalire né all’autore di questi versi né a chi fossero dedicati tali versi (di Peppinu, per fortuna, a San Fili non ne sono mai mancati) né tantomeno la data in cui gli stessi hanno preso vita.

Qualcuno vuole dire che anche tali versi siano opera del poeta dialettale sanfilese don Giovanni Gentile alias Chiacchiara... personalmente ho qualche dubbio (ma non eccessivamente grande). Dopotutto a San Fili negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso sembra si dilettassero in tanti - tra i nostri cari compaesani - a scrivere versi del genere (non solo in dialetto ma anche in italiano).

Facendolo tra l’altro anche in modo decisamente apprezzabile.

Mitici ed invidiabili i collaboratori del giornale satirico murale “Il Cantastorie”. Un giornale, questo, scritto su carta di fortuna (tipo quella in cui si incartava all’epoca il pane) ed affisso su un muro all’altezza di piazza Municipio (credo comunque che nel frattempo il nome di tale piazza è cambiato)... mmienz’u puontu.

Serve salvare questo scritto nel mio blog?

Sì! ... e per tutta una serie di motivazioni, prima fra tutte perché si salva la memoria storica di un modo come un altro del come passavano i nostri avi una “quasi bella” serata in compagnia. Dico una “quasi bella” perché di fatto questi versi sono una tiratina d’orecchie al nostro compaesano Peppinu che prendeva troppo seriamente sia la fortuna che una semplice partita a carte.

E l’autore invita al caro Peppinu a prendere tale partita, che può essere la stessa vita, per quello che è: solo una stupida partita a carte.

E l’autore, sicuramente con tanti anni sulle spalle, sembra - tra le righe - chiedersi: e se fosse anche la vita da prendere come una semplice partita a carte?

Un modo come un altro per passare una serata in piacevole compagnia?

*     *     *

A PEPPINU

(I)

Peppinu de jocare u’ si rifiuta

è fissa ca si perde na sirata

quannu vicinu tene chi l’aiuta,

la furtuneddra fimmina e cecata.

 

Si conza e d’iddra a latu sta seduta,

a ra cumpagna sente e mancu jata;

certu la carta - ‘zacchiti - l’è juta,

lu jollu ci l’avia: n’atra stoppata.

 

Tu riesti cu li punti ‘ntra la manu,

tu signi menu e d’iddru scrive chjuni,

iddru a re stelle e tu ‘ntra lu pantanu.

 

Ti frica sempre: vide a ru bancune:

si piglia ri biscotti e tu dijunu;

già: tu si schjettu e Peppe ha lu guagliune.

(II)

E mo ch’era cangiata la furtuna

- lu vientu nu’ va sempre a ra marina -

iddru, ch’è marinaru, si n’adduna

si la jurnata è bona da matina.

 

Quannu la vide povera e dijuna

e nu d’è  cuntu de l’avì vicina,

la chjanta e cunfidenza nu le duna

nu joca e la sacchetta li sta chjina.

 

Pensava: ci a dugnu na mazzata,

lu lassa la furtuna e signa a menu

io stuoppu e d’iddru u’ cala: chi fricata.

 

Ti resta la speranza ch’ha crisciutu,

sira pe sira, a miennule e velenu:

ci ha dittu vieni joca... si ne jutu.

(III)

Peppì, tu l’avia ‘nsipidu u palatu

e nui ti l’àmu fattu cannarutu,

cu miennule, Peppì, t’àmu civatu,

ognunu cose duci t’ha porjiutu.

 

Tu dici ch’è lu jussu du nzuratu

Avire de lu schjettu ‘ncunu aiutu;

va bene: e dogne sira nu t’ha datu

- zuccaru e mele - chiru c’ha vulutu?

 

E mo ni lassi suli a ra partita,

orfani e spienturati na sirata,

e ti rifiuti quannu ti si mmita.

 

Peppì, cà simu quattru e quattru stamu,

si vinci o pierdi, allegru: è na jucata,

la gioia è sula l’ura chi passamu.

*     *     *

La partita è una “partita a stop” giocata quindi con le cosiddette “carte americane” (carte da poker). Tra i versi infatti compare la parola “jollu” (jolly). Forzatamente l’autore si prende anche una scorretta licenza poetica ma... ci ‘sta (almeno per la necessaria rima):

 

Ti frica sempre: vide a ru bancune:

si piglia ri biscotti e tu dijunu;

già: tu si schjettu e Peppe ha lu guagliune.

 

E’ bella la messa in evidenza della diaspora tra schjetti (celibi) e ‘nzurati (sposati) ed il fatto che, per fargli piacere il gioco, l’autore/protagonista (membro degli ‘nzurati) confida verso la fine a Peppinu che la sua non è stata solo fortuna nelle prime partite ma anche il fatto che gli altri del tavolo l’hanno di tanto in tanto aiutato a vincere per fargli assaporare il piacere del gioco stesso:

 

Peppì, tu l’avia ‘nsipidu u palatu

e nui ti l’àmu fattu cannarutu,

cu miennule, Peppì, t’àmu civatu,

ognunu cose duci t’ha porjiutu.

 

E poi... fa sempre bene rinfrescare un po’ di lingua madre dei nostri padri o dei nostri nonni: u dialettu santufilise.

Personalmente posso affermare, sicuro di essere smentito, di aver vissuto non in due o tre epoche diverse. I giorni d’oggi sono decisamente diversi da quando, agli inizi degli anni Settanta (sono del 1961), muovevo i primi passi in modo autonomo su corso XX Settembre a San Fili. E ciò mi ha dato la possibilità anche di entrare, giusto per dare una sbirciata, nel bar/caffè di Salvatore Tuture Blasi o nel bar Luigi Gigetto Sammarco. Parlo di semplice “sbirciata” perché in quegli anni era tassativamente vietato, a noi fanciulli, entrare in certe salette appartate riservate ai giocatori di carte.

Per quanto riguarda le mie giocate pubbliche, (con le carte napoletane o con le carte da poker in mano) invece, le stesse risalgono agli inizi degli anni Ottanta nel bar di Luigi Gigetto Sammarco (che dava sull’ex piazza Caserma attuale piazza Mario Nigro)... il bar/caffè di Salvatore Tuture Blasi era da qualche anno a quella parte passato come gestione al nostro compaesano Rocco Gioffré. Lasciai di giocarci agli inizi degli anni Novanta, dopo una rischiata stupida lite alla fine di una partita all’interno del Centro di Aggregazione Sociale nel locale all’uopo adibito in una sala a pianterreno dell’ex edificio che per secoli ospitò il Municipio (casa comunale) del nostro borgo... mmienz’u puontu.


mercoledì 28 settembre 2022

San Fili - Passavanti e Diograzia.



Foto a sinistra: particolare visto dall’alto della strada statale 107 nel tratto compreso tra il borgo di San Fili e la cittadina di Paola. Nel versante di quest’ultima. In questa zona ricadono i viadotti Passavanti e Diograzia.

Questo breve articolo è frutto d’una collaborazione tra Antonio Asta e Pietro Perri.

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Ancora oggi (martedì 17 luglio 2002), malgrado abbiamo da qualche tempo brindato alla salute del Terzo Millennio, a San Fili in piazza san Giovanni sono in tanti a ricordare le zone, con i relativi significati dei nomi cui sono stati loro dati, Passavanti, Martinieddru e Diograzia... il tutto, ovviamente, non senza un certo brivido addosso.

Alcuni cavalcavia che si oltrepassano, tra l'altro, scendendo verso Paola, oltrepassata la cosiddetta "galleria lunga" - stiamo parlando della superstrada Cosenza Paola -, prendono il nome di Diograzia. Nome non collegato ad un fatto puramente religioso ma ad un ringraziamento... ad un sospiro di sollievo che in altri tempi quanti si accingevano a passare la catena montuosa paolana, non certo per piacere, emettevano per... lo scampato pericolo passato.

Tempo di briganti dove spesso e volentieri l'unico mezzo di locomozione che si aveva a disposizione era il cosiddetto "cavaddr’e san Franciscu", ovvero le proprie gambe.

Siamo tra la fine del diciottesimo, inizio del diciannovesimo secolo.

Il punto più importante della costa tirrenica erano decisamente San Lucido e Paola. A San Lucido ed a San Lucido in particolare era facile trovare qualche imbarcazione che permettesse alla gente di raggiungere senza grossi problemi mete più ambite, Napoli e via dicendo, decisamente non facilmente raggiungibili via terra.

Paola, oltretutto, era ed è pur sempre la terra del “Santo Patrono” dei Calabresi: san Francesco.

Per raggiungere San Lucido, ma anche per Paola, per i Cosentini e la gente dei paesi limitrofi era quella che passava dentro San Fili, giungeva alla Macchia della Posta e, per un apposito sentiero conosciuto come la strada delle Monacheddre (la strada d'Annibale?), si giungeva nei pressi della località denominata Acquatina (all'incirca all'imbocco della già citata "galleria lunga", versante San Fili).

Giunti all’altezza dell’Acquatina e saliti qualche cinque o seicento metri oltre, il viandante poteva scegliere tra due strade-sentieri: quella che portava a San Lucido e quella che portava a Paola. Chi doveva andare a San Lucido, avrebbe proseguito per Terriforti, la Vuccaglia e quindi avrebbe preso la discesa verso il mare. Chi doveva andare a Paola avrebbe proseguito il suo tragitto in salita verso la Crocetta e giunto quivi avrebbe deviato per Martinieddru.

Martinieddru era una altura che serviva all'epoca d'avvistamento per i nostri caserecci briganti i quali, avvistato il malcapitato, avvisava i compagni i quali fermavano il poveruomo e presentavano allo stesso le loro richieste-lagnanze.

"Azzopp'u pede!", era l'ordine perentorio che veniva inflitto alla vittima... trombone puntato al cuore.

A questo punto bisognava vedere se si era in presenza di un normale furto che si concludeva con la semplice consegna della borsa o di quanto il poveruomo portasse addosso o se la truce vicenda si concludesse anche con la morte dello stesso (magari perché il poveruomo non aveva niente con sé o aveva mosso resistenza alla rapina).

Poteva anche accadere che il poveruomo quel giorno non era nella mira dei briganti i quali si limitavano semplicemente ad invitare la vittima dell'agguato a farsi riconoscere e riconosciutolo magari come uno vicino a loro o nullatenente, gli dicevano semplicemente "... passavanti!".

E Passavanti restò famoso per decenni, se non per secoli, quel punto, prima di giungere a Martinieddru, a memoria d'uomo.

Se passava il momento, per un certo tratto, quasi tutto il perimetro di Martinieddru, nei malcapitati non passava comunque la paura magari d'essere uccisi con un colpo traditore sparato alle spalle. Ecco perché, oltrepassata la zona del pericolo, ci troviamo direttamente in una zona ad esso collegata: Diograzia.

"Diograzia!", infatti, era l'affermazione, con un sospiro di sollievo che scaturiva veramente dal profondo del cuore, che veniva profferita dai viandanti all'inizio della zona che poteva significare di aver effettivamente scampato il brutto pericolo.

A Martinieddru ancora oggi si possono tra l'altro ammirare le "grotte dei briganti"... ma se dovete andarci... non andateci da soli e disarmati... potreste imbattervi in qualche brigante sopravvissuto.

Non era solo questo ovviamente punto di rischio d'incontro dei briganti così come, col passare dei decenni, e con il cambiare delle linee di comunicazione tra i diversi centri urbani della provincia, gli stessi finirono anche con cambiare le zone degli agguati.

Scendendo verso Paola, tramite la vecchia SS 107 (strada della Palummara), oltrepassato il valico Crocetta, a pochi metri della fontana di San Francesco troviamo il cosiddetto Ponte de Chjanche: in tale punto, si dice, i briganti si divertivano ad impiccare e squartare poveri cristiani.

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I briganti, comunque, non sono solo un fatto storicamente negativo per la nostra regione, per la nostra provincia e per il paese di San Fili. In un certo periodo storico, infatti, i briganti, da un certo punto di vista possiamo "rileggerli" non come luridi criminali ma come veri e propri patrioti (ovvero partigiani filo borbonici).

Siamo tra la fine del diciottesimo e l'inizio del diciannovesimo secolo. I Francesi, briganti nei confronti delle popolazioni del Sud Italia, imponevano alla Calabria i loro altri tributi per "l'avvenuta liberazione dalla Casa Borbonica".

Noi Meridionali, inutile nasconderci la verità, in effetti liberazioni non ne abbiamo avuto mai da nessuno... non siamo stati (e forse non lo siamo tuttora) liberi... abbiamo solo sostituito i padroni e spesso e volentieri il nuovo padrone e molto più esigente, e quindi opprimente, del precedente.

Fu anche per questo che un gruppo di sanfilesi, assieme ad altra gente dei Comuni vicini a San Fili datasi all'epoca alla macchia, dalle invalicabili e misteriose montagne della catena paolana armava di tanto in tanto le sue trappole contro i francesi invasori.

Ma... come fare a capire se un soggetto era o meno un francese: spesso nell'ombra dei nostri boschi ciò non sempre era facile. Fu proprio per questo che i briganti usavano gridare contro il malcapitato (che, ovviamente, in distanza intravedeva il luccichio dalla canna del trombone che mirava al proprio corpo): "Dice ciceru!".

Per i francesi pronunciare la "c" dura della parola "ciceru" era decisamente una impresa che andava aldilà delle proprie umane capacità. Quello che scaturiva dalla loro gola infatti era il dolce e musicale suono della parola senza senso "siseru".

Una parola, "siseru", certamente senza senso per noi comuni mortali... ma per i francesi dell'epoca equivaleva ad una sommaria condanna a morte senza alcuna possibilità di ricorrere in appello.

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Sono, queste, storielline ascoltate in piazza San Giovanni a San Fili... forse inventate di sana pianta... ma forse con più d'un filo di verità.


martedì 27 settembre 2022

I Sanfilesi ed il cardinale Fabrizio Ruffo.



Foto a sinistra: Il cardinale Fabrizio Ruffo in una immagine ripresa dal web.

L’episodio che ha coinvolto i Sanfilesi ed il cardinale Fabrizio Ruffo è documentato in più cronache dell’epoca.

E’ nel suo complesso – e nella sua tragicità - una storiellina simpatica (a mio modesto parere) da leggere.

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Quante volte ho sentito dire (e quante volte l'ho detto pure io): "'Ntu Meridione stavamu buani aru tiempu di Borboni". L'ho sentito dire e l'ho detto pure io... dimenticandomi d'essere un sanfilese, ossia il classico "Bastian contrario".

E' da tutti risaputo, infatti, che all'appuntamento referendario del 2 giugno 1946, dove si doveva scegliere tra il sistema monarchico e quello repubblicano, a San Fili vinsero i monarchici con 1149 voti contro i repubblicani che ne ottennero solamente 742 (le bianche e nulle furono ben 88). Fu una vera e propria disfatta, quella che scaturì dalle urne del nostro comune, per la nascente Repubblica Italiana.

Tutto ciò spiega, o quantomeno dovrebbe spiegare e giustificare, il rimpianto dei sanfilesi per l'annullamento del Regno delle due Sicilie e la nostra nostalgia per i discendenti di Franceschiello e dell'intera Casa Reale Borbonica.

Tutto ciò (i risultati del referendum del 1946 che videro in San Fili una convinta cittadina monarchica) spiega, o quantomeno dovrebbe spiegare e giustificare, una tale predilezione e fede monarchica del popolo sanfilese... se non ci si mettesse di mezzo la storia della nostra comunità e quanto accadde tra i Sanfilesi e le milizie del Cardinale Fabrizio Ruffo verso la fine del diciottesimo secolo (1700).

Innanzitutto è opportuno, per meglio capirci, tracciare un breve profilo storico del Cardinale Fabrizio Ruffo: ecclesiastico (in un periodo in cui il clero non disdegnava il potere temporale della Chiesa, e quindi non ci pensasse due volte ad imbracciare le armi per "le sante guerre") e uomo politico di tutto rispetto.

La situazione della penisola all'epoca del Ruffo non era delle migliori, tutto cambiava in rapida successione. Persino il Regno di Napoli (successivamente delle due Sicilie): nel diciottesimo secolo passò dapprima sotto il dominio austriaco, e poi sotto il governo di Carlo III di Borbone, il quale adottò un piano di vaste riforme per l'abbellimento e il progresso del Regno, anche se la maggioranza della popolazione era lasciata nella miseria e nell'ignoranza.

Il Cardinale Fabrizio Ruffo emette i suoi primi vagiti il 1744 nel castello di San Lucido (morirà a Napoli nel 1827). Tesoriere generale della Camera apostolica, si guadagnò l'odio dei feudatari per la sua amministrazione riformista; fu quindi rimosso dall'incarico da Pio VI e creato, secondo il motto "promuovere per rimuovere", cardinale nel 1791.

Tornato a Napoli nel 1798, dopo la creazione della Repubblica Partenopea, seguì la corte borbonica a Palermo. Nominato vicario generale del Regno, l'anno successivo passò in Calabria dove raccolse bande di volontari e formò l'esercito della "Santa Fede". Con tale "esercito", in soli quattro mesi, riuscì a travolgere le fragili difese repubblicane e a riconquistare Napoli.

Inutile dire che a favorire l'impresa del porporato venne anche in aiuto, oltre alla fede cristiana delle masse dei contadini, la sua favella e i vari provvedimenti "popolari" emessi dallo stesso quali l'abolizione e la riduzione di pesanti tasse e gabelle allora in vigore (una ritoccatina al prelievo fiscale, ieri come oggi, non guasta mai).

L'avanzata del Cardinale Fabrizio Ruffo verso la città di Napoli non trovò ostacoli sul suo camino... finché non s'imbatté (pensate un po') nei Sanfilesi, o più precisamente in un gruppo di loro... e non rischiò di rimetterci le penne.

 

Scrive Luigi Maria Greco negli Annali di Citeriore Calabria (1806/1811):

 

"Per insidie tese nella valle del Crati, da pochi repubblicani di San Fili a Ruffo Cardinale, un colpo di archibugio, insolito a fallire troncò il fiocco della Croce del porporato".

"Per insidie tese nella valle del Crati, da pochi repubblicani di San Fili" il cardinale Fabrizio Ruffo (che si vantava, il 6 marzo 1799, di aver raccolto attorno a se, già a Pizzo, ben quattromila uomini e di prevederne nelle sue fila oltre diecimila appena giunto a Catanzaro) e per colpa di "un corpo di archibugio insolito a fallire" per poco non passò alla storia in tutt'altro modo... ed in quest'anno (1999) Napoli non avrebbe potuto celebrare l'anniversario della storica vittoriosa insurrezione.

 

Proprio così: San Fili, la repubblicana, per un soffio non mandò prematuramente all'altro mondo non solo il Cardinale Fabrizio Ruffo ma anche lo stesso ritorno sul trono di Napoli da parte della Casa Borbonica... e oggi, noi sanfilesi, abbiamo anche la sfrontatezza di definirci filo-borbonici!

Vi ho raccontato questa parte della storia e quanto prima vi racconterò anche il seguito (cosa ancora più bella) ma vi prego: CHE NESSUNO DI VOI SI SOGNI DI ANDARE A FARE LA SPIA CON LA BELLA MELBA!

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San Fili fu, nel 1800, un centro di indiscutibile valore patriottico... punti di vista permettendo. Il nostro alto spirito repubblicano e il nostro desiderio di vedere un'Italia unica ed indivisibile non potevano certamente piacere né ai Borboni né tantomeno ai monarchici.

Persino il nostro eroe risorgimentale Sante Cesario, "riveduto e corrotto", in tale logica finisce per passare da indiscutibile punto di riferimento storico e quindi vanto della nostra comunità, a semplice criminale di bassa lega.

Ed è in questa strana logica della storia umana, dove i vincenti ce li ritroviamo sempre e comunque dalla parte della ragione, che l'eroica azione dei sanfilesi che stava culminando nella morte del Cardinale Fabrizio Ruffo (a capo dell'esercito della "Santa Fede" che doveva rimettere sul trono del Regno di Napoli i reali della casa borbonica), finisce per essere riportato da alcuni commentatori storici dell'epoca come uno tra i tanti casi di volgare criminalità comune (anche se in una veste simpatica e folcloristica).

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Riporto di seguito un simpatico passo scritto da L. Grimaldi nel suo articolo "Bernardo de' Marchesi de Riso ed i suoi tempi", opera postuma, apparsa su "Il giurista calabrese", anno III, 1869, numeri. 2 e 3:

 

"... Fra le bizzarrie del tempo, fu anche quella di vedere sorgere in Sanfili (sic.!), paese non molto distante da Cosenza, un tale Dell'Aquila, che, raccolta una banda di trenta assassini, si pose a fare il rapinatore, sotto protesto politico, che variava a suo piacere, poiché, percorrendo i piccioli paesi, se vi trovava la bandiera regia l'abbatteva e v'innalzava la repubblicana, ordinando il saccheggio; se invece trovava la bandiera repubblicana l'abbattea per innalzare la regia, così facendo sempre grosso bottino.

Nel bosco Ritorta, imbattutosi colle truppe cardinalizie, il Dell'Aquila non vide altra risorsa che di annunziarsi al Cardinale come raccoglitore di gente per metterla a sua disposizione. Il Cardinale lodollo e l'accettò, ma un nemico del dell'Aquila, che seguiva il cardinale, lo avvertì di tenerlo per sospetto, comecché avea piantato l'albero in più luoghi.

La comitiva allora, caduta in diffidenza, diede di mano alle armi ed ebbe luogo un conflitto, nel quale un colpo di fucile portò via il pomo della sella del Cardinale. Ma vinti dal numero, alcuni restarono morti, altri fatti prigioni, fra i quali il Dell'Aquila, che fu giustiziato".

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Brutta fine quella del Dell'Aquila, così come brutta fine fece l'eroe sanfilese Sante Cesario, ma ancor più brutta fine stavano per fare i sanfilesi tutti, dopo l'episodio del Cardinale Fabrizio Ruffo, se non fossero giunti gli amici di Bucita a darci man forte.

Ma vediamo assieme come si svolsero i fatti.

 

All'indomani dell'attentato, fallito per un soffio, al Cardinale Ruffo, i Falconaresi (fedeli al Cardinale), decisi a dare una sonora lezione ai rei Sanfilesi (presumibilmente una scusa, in quando per ben altre cose e ragioni, i Sanfilesi non erano ben visti dalla gente della costa tirrenica), con a capo un certo Donnu Titta mossero armati fino ai denti contro il nostro abitato.

I Sanfilesi, opportunamente messi sull'avviso, aspettarono gli "ospiti" arroccati sul sagrato della Chiesa Madre. Vi fu una cruenta battaglia che, malgrado persino le nostre donne si facessero in quattro per dar man forte ai nostri avi, dopo breve tempo si volse contro i poveri accerchiati.

Fortuna volle che un certo Pasquale Gentile (ricco possidente del paese nonché maestro nell'arte della produzione e della commercializzazione della seta) recatosi di corsa a Bucita ottenne dai concittadini della nostra futura frazione un insperato, pronto e fortuito aiuto.

Giunti a San Fili i confratelli di Bucita assieme al Gentile presero di spalle i Falconaresi cui in breve resto ben poco scampo e ben poche possibilità di vittoria.

In men che non si dica, ottenuta una proverbiale batosta, i Falconaresi furono costretti a scappare e quindi San Fili per l'ennesima volta poté emettere un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo.

Il tutto, per la cronaca, si svolse nel 1799.

 

*     *     *

I fatti che hanno interessato i Sanfilesi ed il Cardinale Ruffo hanno ispirato anche il nostro simpatico ed impareggiabile "poeta e cantastorie Luigi Gigino Aloe.

I versi di seguito riportati sono ripresi dalla sua poesia/canzone in vernacolo "San Fili da Terra di Sancti Felicis"... cambia qualche nome, ma la storia è sempre quella:

 

(...) Su populu ha lottatu pe a paci e a libertà

na storia forsi vera vi vuagliu raccunta'.

 

Prima nu cardinali, formò na banda armata

partitu da Sicilia, saccheggia sa vallata.

 

Ruffu i cugnume, a Santu Lucidu natu,

anchi si Cardinali, era nu depravatu.

 

Chiamanu ad Ermellinu ca spara ‘i precisioni

pe fa fini ccu a forza chissa maledizioni.

 

Postìa ru Cardinali d'arriati nu Frascuni

u spara ma ull'ammazza! U coglia a ru curduni.

 

Chissu è nu malidittu! U pruteggia Belzebù

Ermellinu sa squaglia e nun si trova cchiù.

 

Intantu n'atru barbaru arriva i Falconara

Don Chiccu cu mill'uamini si vole vendicare.

 

A genti di San Fili, ardita e curaggiusa

supa a ra Cchiesa Matri pripara ra difesa.

 

U scontru è assai violentu, para tuttu perdutu

arrivanu i rinforzi: Vucita è tutta armata.

 

Vucitari, è Pasqualinu Gentile a ri guidari,

a ra banda i Don Chiccu un li resta ca scappari

(...).

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Poeticamente parlando, comunque, non fu solo l'amico Gigino Aloe ad interessarsi della vicenda intercorsa tra i Sanfilesi ed il cardinale Fabrizio Ruffo... né fu certamente il primo.

Su tale argomento, infatti, si c'era già sbizzarrito con la penna il poeta e letterato locale Raffaele Pellegrini (S. Fili 29 settembre 1857 - ivi 13 dicembre 1934).

Nella sua composizione dedicata all'allora costruendo tunnel del tratto ferroviario Cosenza Paola (intitolata appunto "Pel Tunnel della Cosenza - Paola), stiamo parlando degli inizi del Novecento, troviamo la seguente strofa:

 

E lì, ritto in arcioni,

il tristo Cardinal crocesegnato,

Fabrizio Ruffo, ancora ammantellato

nella porpora, tinta di sanguigno

da le stragi novissime, maligno

il guardo, anch'Ei s'erge, e guata quella

balza fatal del monte, ove Armellino,

spiandone il cammino,

l'arciöne gli forava de la sella.

 

Con le seguenti note curate dall'indimenticabile Goffredo Iusi:

 

"E' tradizione, confermata, del resto, dal racconto attendibile dei nostri vecchi, che nel 1799, Pasquale Blasi, soprannominato Armellino della Carboneria - alla quale in quei tempi davano contributo larghissimo le famiglie Pellegrini, Granata, Gentile, ecc. - si appostasse al passaggio del Cardinal Ruffo, capo dei Sanfedisti e reduce dai massacri delle Puglie e del Cosentino. Sul così detto "passo delle Crocelle" il colpo del suo fucile falliva colpendo semplicemente l'arcione della sella; ed il porporato poté raggiungere le rive di Paola, ove l'aspettava un legno. che doveva condurlo in Napoli, a dare l'ultimo colpo a quella agonizzante e gloriosa Repubblica Partenopea".

 

Resta ovviamente l'invito a leggere, e non solo questa, l'intera poesia "Pel Tunnel della Cosenza-Paola di Raffaele Pellegrini.


domenica 25 settembre 2022

Un contratto di mezzadria.



Foto a sinistra: mia madre Teresina Letizia Rende e mio padre Salvatore nella cucina al primo piano della loro abitazione in via Rinacchio a San Fili nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso.

Via Rinacchio si chiama così perché per tanti anni – nei secoli passati – ospitava una cava della rena (sabbia rossa ricavata da roccia friabile).

Foto ed archivio by Pietro Perri.

*     *     *

Tra i pochi, ma significativi, documenti che interessano la mia famiglia ho trovato un “contratto di mezzadria” redatto su carta legale e stipulato tra la signora Lio Luisa e mio padre Perri Salvatore. Il documento è datato 27 settembre 1955.

Ho ritenuto far cosa piacevole a te, caro lettore, riportarlo integralmente e, ti prego, se trovi qualcosa di simile nel cassetto dei nonni, o degli anziani genitori, fammela avere... potrebbe essere interessante e meritevole di pubblicazione (a volte la storia della nostra comunità si nasconde sotto qualche centimetro di polvere).

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"Con la presente scrittura privata, che ha valore di atto pubblico a tutti gli effetti di legge, redatta in duplice copia, la signora Lio Luisa fu Carmine e Perri Salvatore fu Francesco, entrambi domiciliati a S. Fili, stabiliscono quanto segue: la signora Lio Luisa dà a mezzadria al sig. Perri Salvatore il suo fondo, sito in agro di S. Fili in contrada Profico alle seguenti condizioni:

  • Tutto il prodotto del fondo va diviso a metà; altrettanto vale per ciò che occorre comprare, cioè erbaggi, concimi ecc.
  • La padrona compra al Perri due ripassi all’anno che dovranno dividersi il 12 ottobre, mentre se si devono comprare altri animali la somma occorrente viene divisa in parti uguali; l’utile della vendita sarà ripartita a metà.
  • La padrona dovrà dare al Perri kg. 75 di crusca (settantacinque) entro il mese di maggio.
  • Il Perri dovrà lavorare il terreno coscienziosamente, mantenendolo nella massima pulizia, specie per quanto riguarda i fossi di scolo, scaricandoli quando occorre.
  • Il Perri è obbligato a pulire i fichi e piantare tutte le piantine che la padrona acquista, senza nulla pretendere.
  • Il Perri si obbliga di allevare il seme del baco nella misura della foglia che gli darà la signora Lio.
  • Il Perri può tenere nel fondo, per proprio conto, solo 4 (quattro) galline.
  • La presente scrittura impegna le parti dal primo (n.d’a.: nell’originaledal 1”) gennaio 1956 ed ha durata di 3 (tre) anni. Se le parti allo scadere di detto termine, saranno soddisfatte del contratto, ne potranno, di comune accordo, prorogare la durata.
  • Contravvenendo a quanto stabilito, la parte lesa si avvalerà a via di legge.

N.B.: I contributi Unificati Agricoli vengono ripartiti in parti uguali tra colono e padrona”.

 

Sotto la data si notano ulteriori aggiunte:

 

“N.B.: Il Perri potrà allevare nel fondo, per suo utile, una capra, senza dover nulla alla signora Lio.

Il Perri dovrà dare 10 (dieci) uova di gallina, ogni mese, alla signora Lio.

Al Perri resta in consegna lo strettoio, per la compressione dell’uva, che appartiene alla signora Lio. Lo strettoio è in buone condizioni. Il Perri sarà responsabile di ogni eventuale guasto.

Tutte le condizioni sopra stabilite valgono anche per il fondo sito in contrada Monaci, che la signora Lio Luisa dà a mezzadria al sig. Perri Salvatore”.

*     *     *

Segue il segno di croce di Lio Luisa e la regolare controfirma dei testi, chiude il tutto la data di stesura.

*     *     *

"Cum’eni u veru ch’eranu miegli i tiempi de na vota, ppe ri patruni e ri baruni, ca ppe ti fa crisce na capra ‘n’santa pace, ci avia d’assicurare puru dece ova u mise"... ma almeno i miei genitori avevano un regolare contratto di mezzadria che, confrontato con altri dello stesso periodo, era più che onesto. Tra l’altro ancora si sentivano gli strascichi della grande guerra ed il prezzo che, ieri come oggi, devono pagare le classi meno abbienti era ed è come sempre altissimo.

venerdì 23 settembre 2022

L'animali a comiziu - Versi di Chiacchiara alias don Giovanni Gentile da San Fili.



Foto a sinistra: particolare della copertina del “Don Severo” del 18 ottobre 1913.

Il “Don Severo” era un giornale satiro-politico pubblicato a Cosenza nei primi anni del secolo scorso. Direttore ne era Chiacchiara alias don Giovanni Gentile da San Fili.

Foto archivio by Pietro Perri.

*     *     *

Il 18 ottobre 1913 viene pubblicato nella città dei Bruzi (Cosenza) l’ultimo numero del giornale satirico “Don Severo”. Direttore di questo giornale, scritto quasi interamente in rima ed in dialetto cosentino, era Chiacchiare alias don Giovanni Gentile da San Fili.

Don Giovanni Gentile, spirito libero e ribelle, fu un prete che tutto avrebbe voluto fare nella vita... tranne il prete.

Le sue “rime” sono sempre una frecciata contro quel sistema che non ha mai digerito, Frecciata anche e soprattutto nei confronti dei poteri costituiti (incluso quello ecclesiastico e monarchico). Cosa, questa, che gli creerà non pochi problemi (non ultimo una specie di “confino in lobba” nella cittadina Nicastro nel Lametino).

In questo ultimo numero del “Don Severo” compare la poesia (lezione di politica del tempo ma decisamente attuale come dopotutto sono sempre attuali gli altri versi – i pochi salvatisi – del Chiacchiara) “L’animali a cumiziu”.

La sfida elettorale era incentrata tra due storiche figure di spicco nella Cosenza dei primi anni del secolo scorso: don Bernardo Alimena e don Nicola Serra. Oggi personalmente credo che l’unica cosa ad essere cambiata presumibilmente è il cognome dei contendenti... e la caratura morale e culturale degli stessi.

Prego solo a chi legge questa paginetta di prenderla per quella che è: una semplice burla del tempo. E non, come potrebbe stupidamente apparire all’orecchio ed all’occhio di uno sprovveduto lettore, una dichiarazione di campo nei confronti delle elezioni politiche, regionali o amministrative dei nostri tempi.

*     *     *

 

L'ANIMALI A CUMIZIU

Di Chiacchiara

(Don Giovanni Gentile da San Fili)


Nu ciucciu viecchiu, zuoppu e scuntricatu,

pe le vie de Cusenza jia gridannu:

'Stasira âmu 'e furma' lu comitatu

pe fa lu deputatu de chist’annu...

Ciucci, puorci, veniti a la riunione

ca discurrlmu de la votazione.

 

La sira, all'Arcu 'e Ciacciu oh!

                         chi ciurmaglia:

gatti, cani, cunigli d'ogne razza,

chi l'Arca de Noe' paria na paglia

‘n paragune de tutta sta famazza.

Lu ciucciu saglie supra nu muragliu

e li saluta ccu nu forte ragliu.

 

Pue dice: "Vui sapete la ragione

che mi ha spintu a riunire il comitato:

fra giorni vi sara' la votazione

e noi dobbiamo fare il deputato:

voi gia' sapete dell'aperta guerra

tra don Bernardo e don Nicola Serra.

 

Io propongo votar per don Nicola,

uomo che sa le nostre condizioni;

l'Alimena che insegna nella scuola

non favorisce quelle mie opinioni. E poiché

fra di noi c'e' l'uguaglianza

ognun di voi puoi far l'interpellanza."

 

Lu puorcu allura disse: "Io, per mio conto

mi associo con il nostro Presidente,

ne' credo alcun me ne fara' un affronto,

perche' don Nicola e' uomo assai prudente."

Cussi' diciennu si 'mbruscina 'n terra,

gridannu a perde jatu: "Viva Serra."

 

Ma a l'assemblea nu’ piace la risposta:

unu la vulia cruda e n'atru cotta.

S'aza nu gattu e fice proposta

chi de lu mastru fu la vera botta:

"Dichiaratela sciolta la riunione;

questa volta vogliamo l'astensione."

 

E cussi' ciucci, puorci, muli e cani,

cavaddri scuontricati e cumpagnia,

allu gattu ce vattenu la mani,

e tutti quanti ‘nfilanu la via

d'avanti a Prefettura, e vau gridannu:

"L'animali nu' votanu chist'annu."

*     *     *

Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.

*/pace ma... “si vis pacem para bellum”!


sabato 17 settembre 2022

Storia di Squali.



Foto a sinistra: La formazione musicale de “Gli Squali” (San Fili 1965/1966).

Nella foto (sinistra): Rodolfo Perri, Alfredo Ruffolo, Giambattista Iusi, Eugenio Rende e Pietro Cavaliere.

L’occasione? ... un Festival “Voci Nuove”.... ovviamente a San Fili.

*     *     *

Una volta tanto, non i soliti Squali…
Di Alfredo Ruffolo

Erano gli anni ‘60 (1965-66).

La mia vita a San Fili trascorreva serena con i miei amici ed i nostri giochi che spesso, in tutto o in parte, ci costruivamo da soli e non sempre erano proprio dei giocattoli innocui, parlo di fionde, archi e frecce, spade “de lignu”, lance ecc. oppure veri e propri strumenti di gioco “strummuli”, mazza e “squiddraru” e tanti altri, forse semplici, ma indispensabili strumenti.

Poi arriva l’età in cui non puoi più giocare perché ti senti grande, cominci a guardare le ragazze (solo guardare) e hai voglia di distinguerti di “fare il grande” e ai tempi non c’erano grosse alternative perciò cominciavi a frequentare i Bar, a giocare a carte in mezzo agli anziani in ambienti fumosi e malsani certo inadatti a dei ragazzi.

Poi la svolta!

È l’epoca dei complessi musicali che fanno sognare i ragazzi e che ispirano la nascita di svariati gruppi musicali. Mi capitò per caso una vecchia chitarra, scollata da un lato e non proprio bella da vedere, ma l’attrazione era forte, cumpa’ Michele Leo, il mio parrucchiere dell’epoca già suonava la chitarra e mi insegnava qualcosa.

Suonare mi piaceva e mi impegnavo, cercavo di riprodurre la musica del momento e di rubacchiare un po’ di mestiere a chi suonava da tempo, imparavo gli accordi e mi allenavo ogni giorno a dispetto dei miei polpastrelli che gridavano vendetta e diventavano rossi, poi cominciai a suonare insieme a “mastru Michele” lui solista e io accompagnamento e qualche volta il contrario.

Più avanti nacque l’idea di cercare altri suonatori e altri strumenti, si unì a noi Aldo Fiorillo, la sua batteria era composta da fustini di detersivo vuoti, pentole e tamburelli.

Poi arrivò una vera batteria e anch’io riuscii a comprare a rate, di seconda terza o quarta mano, una vera chitarra elettrica, chitarra che ho tutt’ora.

Dopo qualche tempo si uniscono Giambattista Iusi, che suona anche lui la chitarra, Eugenio Rende che suona il basso, e Pietro Cavaliere dapprima con la fisarmonica, poi con la  pianola e dopo qualche tempo con l’organo elettronico.

Il gruppo prende definitivamente forma e debutta col nome GLI SQUALI che abbiamo cambiato un paio d’anni dopo in seguito ad una serie di eventi e su suggerimento di Frank Parise, un ragazzo Canadese (cugino del mio amico Ciccio Parise padre di Attilio) che ci suggerì il nome THE NIGHTINGALES.

In seguito qualche componente cambia, arriva Rodolfo Perri che è batterista e cantante. Rodolfo subentra ad Aldo e otteniamo, miracolosamente, l’uso di una stanza (ara Cruce) che il comune ci mette a disposizione per le prove e la custodia degli strumenti.

Molti ragazzi di San Fili si appassionano, ci seguono e ci incoraggiano, assistono alle prove, provano a cantare ed insieme ci inventiamo un nuovo modo di occupare il tempo, lontano dai Bar in un’atmosfera creativa e gioiosa.

Dopo un po’ di tempo, diventati abbastanza bravi, cominciamo ad esibirci in piazza, suoniamo al festival della canzone (che a San Fili erano una consolidata tradizione), al festival delle voci in erba (per i bambini) e sia fra i giovanissimi che tra gli adulti scopriamo persone con notevoli abilità vocali ed il coraggio di mettersi in gioco; purtroppo “AMICI” (n.d.r.: la trasmissione della De Filippi) non c’era ancora.

Nelle occasioni più importanti cantava con noi l’indimenticabile Manola Calomeni, una cantante vera! Una meravigliosa amica, una ragazza brillante e piena di personalità una voce fantastica! Un altro cantante che spesso si esibiva con noi era Pietro Cribari, se ricordo bene anche suo fratello Ferruccio ed il bravissimo Vittorio Fragnelli, poi emigrato in Canada.

Abbiamo anche partecipato e vinto una gara fra complessi a Montalto Uffugo e almeno per un’estate ci siamo esibiti in un night club “THE RANCH” che avevano aperto in un giardino sopra la scuola elementare nuova a San Fili; in ogni caso ci siamo divertiti molto sia noi che i nostri amici. Praticamente quasi tutti i ragazzi del paese, coi quali di sera ci si ritrovava e si trascorrevano le serate cantando le canzoni di quegli anni, che sono poi le stesse che sento cantare ancora oggi quando un gruppo di ragazzi si ritrova intorno ad una chitarra in una tranquilla sera d’estate.

Naturalmente questi sono i miei ricordi a distanza di quarant’anni, di sicuro ho dimenticato fatti eventi e personaggi e anche la cronologia probabilmente non è del tutto precisa.

venerdì 16 settembre 2022

La staffila... maestra di vita.



Foto a sinistra: San Fili 1909 davanti al "palazzo Ciancio alla Croce" (?)... la quarta elementare del maestro De Franco... col maestro De Franco ovviamente sulla sinistra.

Inutile chiedere se si riconosce qualcuno tra i fanciulli presenti nella foto... sicuramente tutti passati a... divini superiori insegnamenti.

La foto è ripresa dalla raccolta Francesco Ciccio Cirillo.

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Dal "Notiziario Sanfilese" del mese di dicembre 2010, by Pietro Perri.

Se cerchiamo su internet (ma anche sui dizionari cartacei classici) il significato della parola “staffila” abbiamo grosse difficoltà ad imbatterci nel significato che davamo noi studenti delle Scuole Elementari Sanfilesi e coloro che insegnavano in tali Scuole fino alla metà degli anni Settanta, ossia fino a circa il 1975.

Oggi “staffilata” (un derivato della "staffila") può essere persino un tiro di pallone molto forte verso la porta o una critica pungente o persino una censura senza possibilità di contestazione… ovvero, in senso figurato, un colpo di staffile (sostantivo maschile).

Lo staffile (sostantivo maschile) non è altro che una “frusta formata da una lunga e robusta striscia di cuoio assicurata ad un manico” mentre la staffila (sostantivo femminile) pur facendo comunque un male terribile e pur ottenendo all’incirca il medesimo risultato (punire un sottoposto)… era tutt’altra cosa.

La staffila era uno degli strumenti di “correzione” (guida?) utilizzato da quanti insegnavano nelle Scuole Elementari di San Fili appunto fino a circa il 1975, ovvero fino al momento in cui la rivoluzione culturale del 1968 non ha rivoluzionato il modo d’intendere la Scuola ed il sistema pedagogico (pedagogia = guidare il bambino) in essa applicato.

La staffila non era uno staffile (ossia un manico cui era assicurata una striscia di cuoio, una… frusta) e non essendo uno staffile poteva essere formato da materiali di diversa natura ma pur sempre di materiali unici. La staffila aveva una misura variabile come variabile era il materiale con cui poteva essere realizzata: era lunga dai sessanta centimetri ad un metro. Poteva essere ricavata da una canna comune (arundo donax, ovviamente ripulita dalle foglie), da una lista di legno o da una verga (na virga) di castagno.

In tutti i casi l’uso (il fine) era unico: realizzare un collegamento tutt’altro che amichevole tra la mano dell’insegnante (del “signor maestro”) con la mano dell’alunno. Un collegamento, appunto, semplicemente correttivo. Ovviamente in tale collegamento chi ci rimetteva (in quando doveva dare un cambio di percorso alla propria vita senza senso e senza via d’uscita) era sempre e comunque la mano dell’alunno.

L’alunno era obbligato a tenere il braccio dritto con la mano a pugno aperto e ad attendere, tutt’altro che in modo piacevole, che la staffila debitamente tenuta dall’insegnante, librandosi nell’aria finisse a colpire violentemente il palmo della mano del malcapitato.

Di staffilate, quando frequentavo le Scuole Elementari di San Fili (1968/1972), ne ho assaggiato tantissime anch’io ma ciò che oggi ricordo e rimpiango non sono certo le carezzevoli (?) staffilate elargitemi (a volte anche in modo del tutto gratuito) dalla mia insegnante “signora maestra” Maria Ruffolo ma ciò che lei mi ha insegnato con esempi teorici e col proprio esempio di vita: mi ha insegnato l’italiano, mi ha insegnato a leggere ed a scrivere e considerando come s’incavolano spesso e volentieri alcuni miei lettori… credo l’abbia fatto decisamente bene.
Di questo all’insegnante “signora maestra” Maria Ruffolo gliene sarò sempre grato.

La staffila veniva usata per “correggere” un atto di maleducazione o ineducazione, veniva utilizzata per punire un errore di grammatica o di ortografia (a seconda se gli errori erano segnalati in rosso o in blu ovviamente cambiava il numero di staffilate da ricevere… in premio per il proprio impegno di attenzione e di studio) nonché il fatto che magari non si erano fatti i compiti per casa o semplicemente si era dimenticato un libro o un quaderno.
Tutti, nessuno escluso (o quasi) noi alunni eravamo soggetti alla tortura, a volte più psicologica che dolorosa, della staffila.

Ciò che ancora ricordo con terrore, infatti, non era il dolore del… dopo staffilata (ossia del momento in cui la staffila aveva ormai colpito il palmo della mia mano), bensì l’attesa che intercorreva tra l’alzata della staffila ed il suo scontrarsi violento con la tenera carne della mia mano.

Nell’atto dello staffilare a volte, penso… e penso pure male, c’era un non so che di volontà da parte dell'insegnante "signor maestro" di umiliare l'alunno, specie se l'alunno usciva da famiglie meno abbienti o da cui si sapeva si sarebbe avuta l'approvazione dei familiari.
La staffila, infatti, non era per tutti.

Dal "Notiziario Sanfilese" del mese di Gennaio 2011, by Pietro Perri.

La staffilata alle Scuole Elementari? … quasi, se non certo, una fustigazione.
C’erano mille buone scuse, per un insegnante “signor maestro” per utilizzare la staffila. Parliamo ovviamente, mi auguro, di periodi precedenti il 1975.
Era, dopotutto, anche quella una forma di pedagogia tra l’altro approvata dal novanta e più per cento dei nostri genitori di allora.

Non potevano fare altro: mettersi contro un insegnante "signor maestro" (una vera casta) significava far giocare ai propri figli anche il semplice diritto di concludere il primo ciclo di studi, quello delle Scuole Elementari.

All’epoca senza quel pezzo di carta non si poteva fare niente, non si poteva accedere neanche ad un posto semplice di bidello… occupazione oggi ambitissima anche da soggetti plurilaureati.
La licenza elementare era, in quei fantastici (?) anni, un vero e proprio, ambitissimo, “titolo di studio”.

A nulla, infatti, serviva lamentarci, rientrati a casa, d’aver preso qualche staffilata nel corso della mattina. A qualcuno di noi poteva capitare anche di buscare il resto (ovviamente con schiaffi e similari) dai nostri genitori… altri tempi.

E com’era brutto buscare una staffilata senza capire il motivo della stessa e magari con il signor maestro che si accorgeva troppo tardi d’averti dato una staffilata in più e si scusava dicendo: “Non preoccuparti, alla prossima occasione te ne darò una in meno”.

La staffila aveva anche un nome e persino, a detta di qualcuno, un cognome, si chiamava “Margherita”.
Proprio così: si chiamava Margherita”, di nome, “Gonfia Le Dita”, di cognome.

Io appartengo a quella massa (?) di studenti che di staffilate ne ha prese tantissime... almeno negli anni in cui frequentavamo le Scuole Elementari... di San Fili (nel mio caso dal 1967 al 1972... anno più anno meno... purtroppo la mia memoria non è più quella d'una volta).
La staffila, all'epoca, era utilizzata generosamente dai nostri insegnanti, dai nostri "signor maestro" e/o dalla "signora maestra".

Dal "Notiziario Sanfilese" del mese di Febbraio 2011, by Pietro Perri.

All'epoca (l'epoca in cui gli insegnanti delle scuole elementari appunto erano maestri e non professori) i nostri "signor maestro" e "signora maestra" ancor prima d'essere insegnanti di storia, di italiano, geografia, di educazione civica (ma si insegna ancora l’educazione civica nelle scuole elementari?) e di geografia erano anche e soprattutto... maestri di vita.

Erano quelli i tempi (quelli vissuti dallo scrivente) del "signor Direttore" Goffredo Iusi e dei "signor maestro" Raffaele Perri (tra l’altro cugino di mio padre), Eugenio Aiello (vicino di casa della mia famiglia), Eugenio Chiappetta (Socialista con la S maiuscola), Francesco Stillo, Isidoro Apuzzo, Benito Zuccarelli e delle "signora maestra" quale Carolina Salerno, Maria Ruffolo e Ada Trotta.

Ovviamente questi sono i nomi che rientrano nei miei ricordi e sicuramente tantissimi, “signor maestro” e “signora maestra”, involontariamente ed innocentemente sono stati cancellati da tali ricordi.

Tra i succitati insegnanti in tanti mi hanno riferito che il meno terribile era proprio il “signor maestro” Raffaele Perri. Questi, forse convinto assertore della scuola alla don Milani o alla Montessori, più che costringere i “suoi” alunni allo studio ed al rispetto della propria missione (perché insegnare all’epoca era una missione e non un lavoro) con la staffila… li costringeva con allettanti iniziative quali quelle che si svolgevano, nel doposcuola, allo storico ed indimenticabile “Centro di lettura”.

La Scuola per i “signor maestro” e le “signora maestra” degli anni Sessanta e Settanta (1960/1980) non era una professione … era una missione e come tale andava oltre il proprio compito “infra mura” (dentro le mura dell’edificio scolastico).

In quegli anni la domenica e le feste comandate il lavoro della nostra élite intellettuale (perché di questo si trattava) proseguiva con una serie d’incontri quali quelli, decisamente indimenticabili, che si svolgevano all’interno del Circolo di Cultura Enrico Granata.
In quei tempi anche la staffila era... maestra di vita: ... e cumu avvrinchiava supra 'e manu!

Dal "Notiziario Sanfilese" del mese di Marzo 2011, by Pietro Perri.

Anche se in questo caso non siamo difronte ad una staffila, non me la sento di tacere su un piccolo fatto che mi è accaduto, non so se alla seconda o alla terza elementare, presso, appunto, le Scuole Elementari di San Fili.

Personaggi: la signora maestra Maria Ruffolo, il signor maestro Francesco Stillo e… io (quel tipo di scuola mi ha insegnato tra l’altro che è cattiva educazione, in una elencazione, quando si scrive, mettersi prima degli altri).
L’anno? … il 1968 o il 1969.

La signora maestra Maria Ruffolo ed il signor maestro Francesco Stillo stavano parlando fra di loro non so se del più o del meno o di fatti inerenti il proprio lavoro. Non so per quale motivo (ovviamente parlo di un ragazzino che poteva avere al massimo nove o dieci anni), ma qualcosa mi costrinse ad avvicinarmi alla coppia e a chiamare più volte, inutilmente, la signora maestra Maria Ruffolo.

Visto la mia inutile insistenza al fine di attirare la sua attenzione mi lasciai sfuggire un fischio e nel men che non si dica il signor maestro Francesco Stillo si lasciò sfuggire uno schiaffo che colpì, non senza lasciarmi di stucco, il mio, all’epoca, delicato visino.

Percepii, comunque, a sommi capi il dialogo che susseguì tra la signora maestra Maria Ruffolo ed il signor maestro Francesco Stillo.
Dialogo che riporto di seguito.

Maria Ruffolo: “France’, perché gli hai dato questo schiaffo?
Francesco Stillo: “Mari’, ha fischiato… per giunta a Scuola!
Maria Ruffolo: “Ma l’ha fatto per attirare la mia attenzione, e poi se qualcuno doveva punirlo questo era compito mio… dopotutto è un mio alunno”.
Francesco Stillo: “Mari’, fischiare anche se per attirare l’attenzione di qualcuno è comunque segno di cattiva educazione e nel suo caso è cattiva educazione nei confronti del corpo docente, dell’Istituzione… quindi la punizione poteva essere inflitta da ognuno di noi”.
Maria Ruffolo: “Allora, Pietro, cos’è che devi dirmi?”.

Non so, non ricordo, cosa ho risposto alla signora maestra Maria Ruffolo (una bravissima insegnante che è riuscita d’uno come il sottoscritto a farne uno dei suoi migliori interlocutori… diversamente non trovo giustificazione al fatto che tu, affezionato mio unico lettore, ancora legga le mie assurde divagazioni).

Non so perché, o forse lo so benissimo, ma quello schiaffo mi ha fatto decisamente meno male di tantissime staffilate. Forse perché tante staffilate non avevano motivo d’essere ed invece quello schiaffo lo ricordo ancora oggi, piacevolmente (non per il dolore cagionatomi), come una lezione di vita e per la vita.

Oggi, infatti, quando mi sento chiamare da qualcuno con un fischio o quanto mi rendo conto che qualcuno vuole attirare la mia attenzione con un fischio… faccio finta di non sentirlo e proseguo per la mia strada fintanto che lo stesso non pronuncia il mio nome o non mi da’ del signore.

Mi chiamano con un fischio? … non mi sembra né di essere una pecora né di essere un cane.
Che gente maleducata incrocia a volte i miei passi… meriterebbe un bello schiaffo in faccia… magari dall’erudita mano dell’indimenticabile carissimo signor maestro Francesco Stillo.

Dal "Notiziario Sanfilese" del mese di Aprile 2011, by Pietro Perri.

Oggi se un insegnante o un professore si permette minimamente a sfiorare la guancia o il palmo della mano di un proprio alunno... i rischi di pagare la propria leggerezza amministrativamente e penalmente sono decisamente alti.

Quando al malcapitato (ma sarà poi veramente malcapitato?)  succitato insegnante o professore gli è andata bene, comunque s’è beccato una bella strigliata, almeno ufficialmente, dal proprio Dirigente (ex Direttori didattici di Scuole Elementari e Presidi di Scuole Medie) o una sospensione dal lavoro. Tutto ciò quando, se il fanciullo non è particolarmente sveglio, non si becca, per fredda e calcolata vendetta di quest’ultimo, una bella denuncia per pedofilia.

Oggi gli alunni, ma anche i genitori degli alunni e gli stessi insegnanti, non sono più quelli d’una volta. Oggi... la Scuola, ammettiamolo e prendiamocene responsabilmente anche la colpa, non è più quella di una volta... e ce ne stiamo rendendo tristemente conto quasi tutti.
La cosa è decisamente positiva per tantissimi versi e decisamente negativa per tantissimi altri.
Si è passato, purtroppo e come al solito, da un eccesso ad un altro.

Si è passato, anche in Italia ed anche nel Sud d’Italia, da un punto in cui gli unici ad avere diritti erano gli insegnanti ad un punto in cui gli unici ad avere diritti sono gli alunni (se preparati e consapevoli della loro forza), i furbi ed i disonesti.
A farne le maggiori spese è sicuramente la formazione delle nuove leve di questa stupenda Società sempre più sul limite del baratro.

La preparazione degli alunni? … basta guardare come scrivono e cosa scrivono sulla nuova strada da loro quotidianamente frequentata: i social network quale Facebook. Non solo lascia a desiderare il loro modo d’esprimersi nella propria lingua madre (ammesso e non concesso che l’Italiano sia la loro lingua madre), lasciano purtroppo a desiderare anche la loro preparazione culturale e persino le loro scelte di link (n.d.r.: collegamenti internet).

Si è passati ad un punto in cui fare gli insegnanti (essere cioè un magister, un maestro), tranne in piccoli paesi e per alcuni versi in paesi come quello di San Fili, è tutt’altro che una condizione elitaria.

Oggi, appunto, l’insegnante e il professore sono sempre più... un pubblico impiegato. Spesso con le stesse capacità della media dei pubblici impiegati.

Ovviamente non è detto che la colpa di tale ridimensionamento del proprio status sia colpa sua. Forse il tutto fa parte di un perverso disegno chi tira le fila del nostro destino di noi italiani dell’inizio del Terzo Millennio… dei nostri amati/odiati parlamentari.

Un popolo ignorante e senza sale nel cervello, non dimentichiamocelo, è sempre più facile gestirlo e dirigerlo.
Ma una volta? ... una volta era tutta un’altra cosa.
Le punizioni corporali, e che punizioni, a Scuola erano all’ordine del giorno, erano... pedagogia.

Schiaffi, vergate, staffilate, libri e quaderni sbattuti in faccia, alunni sbattuti con la testa alla lavagna o sul banco, alunni costretti ad inginocchiarsi per terra su un pavimento opportunamente cosparso di ceci, altri obbligati a mettersi dietro la lavagna stando in silenzio per quasi l’intera lezione, altri ancora posti, sempre faccia al muro, con un cappello in testa a forma di cono da cui, lateralmente, facevano capolino due per niente simpatiche orecchie d’asino.

Altro che il libro Cuore di Edmondo De Amicis: a San Fili la Scuola ante 1960 (ma anche qualche anno dopo) era anche questo.
Dopotutto alcune di queste punizioni corporali, l’ho abbondantemente detto precedentemente, le ho subite anch’io (eppure ho frequentato le Scuole Elementari tra il 1968 ed il 1973).

Stranamente non ho subito quelle psicologiche né posso dire, e non per vergogna, che nel periodo in cui ho frequentato io la Scuola si sia mai parlato (o si sia semplicemente ipotizzato) all’interno della stessa di casi di pedofilia.

Del mio periodo ne ho parlato abbondantemente negli scritti precedenti, questa volta voglio riportare, facendo un volo qualche decennio più indietro... negli anni Venti (1927/1930)... con qualche ricordo rubato all’ancora fresca, per la sua età, memoria di mia madre: Teresina Letizia Rende.

Premetto che mia madre, residente all’epoca in contrada Cucchiano di Rende frequentava le Scuole Elementari in un edificio all’uopo adibito a Villa Miceli.
L’edificio scolastico (se così si poteva chiamare) era sito di fronte all’abitazione del fattore di questa nobile famiglia sanfilese.

Nelle Scuole Elementari di Villa Miceli c’erano solo le classi dalla prima alla terza e siccome non c’era l’obbligo tassativo di andare oltre negli studi, buona parte dei nostri genitori e nonni difficilmente oltrepassavano la soglia tale classe.

E dopotutto, diciamo la verità, per alcuni versi (non se la prendano a male certi insegnanti dei nostri giorni) quella terza classe delle Scuole Elementari degli anni Venti val più di un ciclo di scuola dell’obbligo del primo decennio del Terzo Millennio.

Alla fine di tale “ciclo dell’obbligo”, mi racconta sempre mia madre, era previsto anche un piccolo esamino... che permetteva appunto di accedere alla quarta classe.
Per frequentare la quarta classe chi abitava nelle campagne doveva raggiungere il paese... a piedi. Altri tempi, oggi, anche su questo fronte.

Per leggere il seguito e tant’altro comunque… si dovrà aspettare la prossima puntata.
Chiedo nel frattempo ai maestri ed agli insegnanti di San Fili di non prendere tale scritto come una guerra nei loro confronti: è solo un innocente (?) saggio.
Ovviamente gli stessi o semplicemente qualcuno di loro può rispondere a tale scritto. La risposta sarà pubblicata in modo integrale.

Dal "Notiziario Sanfilese" del mese di Maggio 2011, by Pietro Perri.

Erano gli Anni Venti (1920/1930), a San Fili, non solo lungo corso XX Settembre o a Piazza San Giovanni ma anche nelle campagne circostanti e nella scuola.

Erano gli anni del cambiamento in particolare nella nostra comunità, la... Comunità Sanfilese. Dopotutto da qualche anno si era da poco aperta la possibilità per tantissimi dei nostri fanciulli studenti di poter frequentare le scuole della provincia (licei ecc.) grazie al fatto che la ferrovia non solo passava per San Fili ma a San Fili aveva la sua stazione centrale nella cosiddetta linea ferroviaria Cosenza Paola.

Forse ancora non c’era l’indimenticabile littorina, quella con gli arredamenti stile western, a coprire tale storico percorso ma sicuramente c’era l’ancor più indimenticabile locomotiva a vapore.
E a scuola? ... le punizioni pedagogiche?
Anche all’epoca a San Fili, all’interno dell’edificio scolastico, ad aver la meglio erano la staffila e la verga (possibilmente di castagno).

Non so chi insegnava a San Fili in quel periodo e quale erano i metodi, coercitivi, d’insegnamento utilizzati da tali signor maestro e signora maestra.
Mia madre, cui devo parte di questo paragrafo, ricorda ancora i professori Domenico Scola e Alfredo Rose (suocero del caro amico prof. Cesare Gentile).
Li ricorda in quanto insegnavano (hanno insegnato per un certo periodo) nell’edificio all’uopo adibito in località Villa Miceli.

Ricorda di come, in qualche caso, alcuni alunni finivano per essere sbattuti persino con la testa alla lavagna... perché in un modo o in un altro il sapere in quella testa di zucconi doveva pur entrare. Ricorda di come una volta la lavagna all’impatto con la testa di uno di questi alunni... si ruppe: “Quannu propriu ‘unn’e voni”, ci sembra di sentir dire ancora a questo scalognato insegnante, “cce pocu cchi fare”, dopotutto avevano a che fare, questi insegnanti, con i figli non solo di contadini ma anche e soprattutto di contadini calabresi.

Sempre mia madre ricorda di quando un insegnante si “divertiva” a far tirare le orecchie dalle alunne agli alunni più “turdi di comprendonio” facendo loro nel contempo dire alle vittime di questo umiliante gioco: “Ciucciu chi si buonu sulu a mangiare ara mangiatura”.

Nella tragedia quasi simpatica diventava la tecnica usata da uno dei due succitati insegnanti di toccare, non sempre leggermente a dire il vero, la testa dell’alunno con una vecchia grande chiave. Il cervello, almeno simbolicamente, si poteva in tal modo aprire.

A frequentare le scuole elementari di Villa Miceli erano i ragazzi delle campagne circostanti (contrada Profico, contrada Cucchiano, Jizzi e via dicendo): mia madre abitava in contrada Cucchiano.

Erano altri tempi? ... sicuramente: erano i tempi del calamaio e dell’abbecedario, erano i tempi delle olive o dei fichi appassiti in tasca (altro che le merendine di oggi), erano i tempi in cui persino i bisogni bisognava andarli a fare fuori dell’aula dietro un cespuglio o dietro un albero.

Erano altri tempi? ... sicuramente, ma altrettanto sicuramente erano tempi a scuola s’imparava magari l’indispensabile... ma era un indispensabile che ci sarebbe rimasto per l’intera vita. E di questo, diciamo la verità, in parte bisognava ringraziare anche la staffila (simbolo di quegli insegnanti che odiavano farsi chiamare professore ma pretendevano che ci si rivolgesse a loro con il più accattivante binomio... “signor maestro”).
La staffila... maestra di vita.