SAN FILI BY PIETRO PERRI BLOG: maggio 2022

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venerdì 27 maggio 2022

Con i denari degli americani.



Nella foto a sinistra Francesco Perri con il figlio Salvatore (a destra) più o meno nel 1923.

"Con i denari degli americani" è uno scritto di Francesco Perri (nonno) con note di Pietro Perri (nipote).

Quella che riporto di seguito è la trascrizione (rielaborata in quanto l'originale è privo di punteggiatura e con dei passaggi di difficile interpretazione) della prima parte di due paginette (ingiallite dal tempo) scritte dal pugno, per come mi è stato riferito, da due emigranti sanfilesi più di un secolo addietro, nel corso di uno dei loro viaggi verso il nuovo continente. Uno di questi era mio nonno, Francesco Perri detto "Betta", un vero personaggio, per i tempi in cui è vissuto, che purtroppo non ho avuto neanche il piacere di conoscere (è morto all'inizio degli anni Cinquanta e non ero ancora nato).

Questo, a prima vista insignificante, foglio mette in risalto, seppur boccaccescamente, un ennesimo dramma dell'emigrazione della fine del XIX secolo (non solo a San Fili ma in tutto il resto d'Italia e del mondo): l'intrinseca paura che l'amata, non riuscendo a resistere in attesa del rientro in patria del proprio sposo, non ci pensasse due volte a tradirlo.

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O giovane che vi dovete sposare (accasare), questi consigli dovete memorizzare (accapare): se sposate una bella figliola, non la lasciate se dovete partire, che non appena siete fuori la porta, l'innamorato è già pronto nell'orto.

La tua giovane moglie si sdraia sul letto e lì gli viene la pazzia, toccando vicino e non trovando nessuno. S'affaccia alla finestra mezza nuda e chiama: "Presto compari, saglie qua!".

Sale il compare e le dice che ha fame: "Lesta comari, prendi dalla credenza un capicollo e tre litri di vino!". La tua giovane moglie non solo ti fa le corna ma gli passa anche il mangiare.

Quando ti renderai conto di ciò, anche tu dovrai ammettere che con i denari degli americani (gli emigranti) mangiano e bevono i furbi rimasti (gampagnoni).

Se invece sei maritato e lasci tua moglie con figli piccoli, tua moglie già è abituata al marito fuori di casa e non appena parti per l'America, lei ha già studiato cosa combinare alle tue spalle.

Si mette a letto (finta ammalata) questa "rosa di maggio" e giungono subito a confortarla i compari vicini e lontani.

"Comare, comare", dice il primo compare, "dove l'hai nascosto il caro figliolo?".

"Comare, comare", ribatte il secondo compare, "latte ne fai? ... scummeglia questo petto, fai vedere... o ti pigli scuarnu?"

"Viditi, viditi", riprende il primo compare indicando il neonato, "non lo sai neanche 'mbassare, così fasciato lo fai crescere stuartu questo picciriddru: alza la vorzilla e fai un solo giro che se no si può scuallarare".

Na risatella tra moglie e compari, finisce il gioco e tutti assieme fanno il fatto "del gallo e della gallina": a voglia venuta... non si comanda.

Se non l'hai ammesso prima, non potrai fare a meno d'ammetterlo ora che... con i denari degli americani (gli emigranti) mangiano e bevono i furbi rimasti (gampagnoni).

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Oggi chi emigra, si porta dietro l'intera famiglia. All'epoca a partire, cercando fortuna oltreoceano, normalmente erano solo gli uomini... ma quelli erano altri tempi, con tutti i loro difetti e tutti i loro pregi: erano tempi in cui le donne non avevano diritti e come tali non potevano non essere denigrate.

Francesco Perri, uno dei due autori di questo documento, è nato nel 1864 e morto nel 1951, rientrato a San Fili, dal suo ultimo viaggio in America nel 1905, il Perri fu, di fatto, tra i primi emigranti del nostro paese.

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Con i soldi degli americani (gli emigranti) mangiano e bevono i furbi (li gampagnoni) rimasti al paese: uccidono, o giovane che parti in cerca di lavoro lasciando la sposa (inconsolabile?) con i pargoli a casa, un paio dei tuoi maiali all'anno, mangiano tutti i giorni il pane fresco e bevono il vino buono che gli versa la tua "innamorata sposa".

Così rifocillati gli manca solo "lo brachiti brachiti".

Se tua moglie non è più giovane e non deve più pensare ai suoi figli... è peggio di "stuppa appiccicata". Se tua moglie è vecchiarella e tu la lasci imbarcandoti a tentar la fortuna oltreoceano, lei crede che tu parti per ingannarla, non per soldi ma per nuovi amori e nuove avventure, e per vendetta va cercando di "scornicchiare".

Non sono solo i Calabresi a doversi "spagnare" di questa brutta corona (le corna dell'amata sposa), in quanto tutto il mondo di queste cime è adorno e tutti (noi emigranti che partiamo da soli) dovremmo farcene una ragione.

Già sento in lontananza lamentarsi il Napoletano: "Mannaggia l'aglio dei maccheroni, io da solo in America ti mandavo milioni e tu, a casa, cornuto mi hai fatto chiamare!".

Già sento in lontananza lamentarsi il Siciliano: "Oh chi bruttu fetente! Schifosa, io ti faria purtusi purtusi con tutte le punte delle corna che m'hai fatto crescere in testa".

Già sento in lontananza lamentarsi il Calabrese: "Figlia di cento briganti, io dall'America mandavo contanti e tu cornuto mi hai fatto chiamare!".

Proprio, uomini in procinto d'emigrare, ricordate che la fimminella, lasciata al paese, deve restare digiuna, che se le garantite la pancia piena e il vino sul tavolo... si accorgerà subito che a mancargli è solo "lo brachiti brachiti" e a questa mancanza troverà immediata soluzione.

Se potete, portatela in America assieme a voi, che così lei non vi potrà ingannare. Se la lasci, non illuderti, il giorno stesso della partenza vi farà le corna e poi...

... vedrete che ho ragione a dire che con i denari degli americani (gli emigranti) mangiano e bevono i furbi (gampagnoni) rimasti al paese.

 

Addio addio, firmato Fico (o F.sco) Petritto e Perri.


sabato 14 maggio 2022

ARTIGIANATO E COMMERCIO A SAN FILI: Le cantine di San Fili.

 

San Fili 1998 - Scesa de "Chiarieddru" (via Roma). Giovanni Calomeni (sulla destra) mi mostra i resti della mitica "Grotta Azzurra". Alla sua sinistra l'amico comune prof. Cesare Gentile.

Foto Pietro Perri.

Serie di articoli pubblicati sul quindicinale "l'occhio" tra gennaio e luglio 2000 firmati da Pietro Perri.

 

Premessa d'obbligo dell'autore

 

Lungi dal voler dare dell'ubriacone a qualche compaesano, mi è sembrato giusto trattare di un fenomeno sociale che fino agli anni sessanta (1960) inoltrati ha interessato la nostra comunità: l'imponente presenza delle cantine nell'area urbana di San Fili.

 

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Accanto alla storia riportata dai libri, che parla di eroi sempre pronti a sguainare la spada per far valere i loro princìpi, o di pazzi invasati convinti di poter conquistare il mondo nel giro di poche decine di giorni... accanto a questa storia che si ricorda della gente solo per citarne l'enorme numero dei caduti in battaglia, c'è una storia molto più bella e come tale ineguagliabile: la storia popolare.

La storia popolare, spesso in buona parte frutto di fantasia (nata e deviata dal gioco del passaparola tra padre figlio e nipote), se è priva di una esatta e perfettamente individuabile datazione, è pur sempre ricca di sentimento, di calore umano, di voglia e piacere d'essere raccontata.

La storia popolare è di fatto la vera ed unica storia d'una comunità.

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(...) questa volta voglio parlarti, amico lettore (se ci sei batti pure un colpo... evitando però di colpirmi alla testa), delle cantine che in altri tempi erano presenti nel nostro centro abitato. In altri tempi, in quanto parliamo di un periodo compreso all'incirca tra il 1850 ed il 1960.

Erano tempi, quelli dell'inizio del 1900, in cui a San Fili (ed il resto del mondo non era poi tanto differente) non si parlava ancora di bar propriamente detti (ricordate ancora la storica insegna "du Caffè 'e Sarvature Blasi" detto "u Bagnaruatu"? ... ricordate quant'era bella e caratteristica? ... altro che quelle deturpanti insegne luminose dei giorni nostri!), non si conosceva ancora la Coca (...) e i malefici coloranti presenti in tanti liquori ed in tante bibite gassate.

La stessa birra era alquanto lontana dal prendere il sopravvento nel quotidiano consumo bevande alcoliche leggere.

Al posto dei bar, all'epoca, avevamo le cantine. Tra l'altro qualche bar (vedasi il caso del bar Sammarco) nasceva come cantina e solo successivamente si tramutava nel bar gestito prima dal padre e successivamente dal nostro simpatico compaesano Gigetto.

Per molti anni, tra l'altro, dopo la nascita dei primi bar, all'interno degli stessi si poteva consumare, senza problemi, un buon bicchiere di vino.

C'è da dire inoltre che a San Fili esistevano cantine propriamente dette ma alcune di loro più che essere delle semplici cantine erano vere e proprie osterie o, per l'epoca, dei ristoranti necessari a rifocillare quanti dalla costa tirrenica dovevano raggiungere Cosenza e zone limitrofe (o viceversa).

San Fili era il punto di centro e se rammentiamo che per vedere autobus (truscia) e treni bisogna aspettare gli anni venti, possiamo ben capire cosa significasse la sua posizione geografica per i viaggiatori (appiedati, a cavallo o che facessero uso della diligenza).

 

Le cantine di San Fili: la "Grotta azzurra".

Erano veramente tantissime le cantine che operarono fino agli anni sessanta (1960) inoltrati nell'abitato di San Fili: un vero e proprio fenomeno sociale giustificato più che altro dall'epoca in cui li troviamo attive. Un'epoca (1900/1950) questa in cui non potevamo certamente parlare di bar così come oggi l'intendiamo e pertanto le cantine sopperivano all'assenza di questi ultimi e fungevano quindi da veri e propri centri di aggregazione sociale.

Nelle cantine, infatti, non c'era il semplice smercio di vino, ma tutta una serie di attività ricreative, di ristoro e di aggregazione sociale successivamente assorbite sia dagli attuali bar, dalle attuali pensioni che dagli attuali ristoranti.

Le cantine (...) erano sparse un po' per tutto il centro abitato di San Fili: ne troviamo infatti sul corso XX Settembre (certamente in numero maggiore) ma anche nella Chiazza ("Jiazza"?), sulla strada che conduceva alla stazione, in alcune caratteristiche viuzze (vineddre) e via dicendo.

A proposito della significativa presenza delle cantine sul territorio di San Fili, vi racconto di seguito un aneddoto riferitomi da un caro e simpatico compaesano (... Mario Oliva, per intenderci)..

Si racconta di una famiglia che abitava alla periferia del paese, una famiglia cui non dispiaceva farsi il proprio bicchiere di vino quotidiano (nella vita di campagna, col lavoro nei campi, tra l'altro questo più che un piacere diventava quasi una necessità) e che, finita la propria riserva di vino, la moglie dicesse al marito: "Fatti n'esciuta 'ntru paise, gira ppe ncuna cantina, e du miegliu vinu ca truavi cumprane nu garrafùne".

Detto fatto, preso il suo contenitore il brav'uomo (cui eviteremo per ovvi motivi di fare il nome - dicono che si chiamasse Lisandru) si avventurò in quella che si dimostrò una vera e propria epica impresa... finita decisamente nelle ore piccole.

Rientrato a casa, ubriaco fradicio e con il contenitore del vino vuoto, alla richiesta di chiarimenti in merito rivoltagli dalla consorte, rispose: "Muglie', tutt'è diciuattu cantine 'e Santu Fili m'aju fattu e 'nta tutte e vippitu u quartu 'e vinu chi m'hannu datu ppe assaggiu. A dire u veru m'è sembratu tuttu buanu ed è statu impossibile sceglie qual'era u miegliu per u portare ara casa. Volia fare n'atru giru ppe tutt'e cantine, ma l'ura tarda un mi nna dat'u tiampu. Ce rituarnu duman'a sira... e vidi ca stavota ti puartu u garrafùne curmu curmu!".

Da questo aneddoto, tralasciando la dabbenaggine dei protagonisti, si capisce quante fossero, all'incirca, in un determinato periodo le cantine operanti a San Fili (che se non erano proprio diciotto, sicuramente non erano meno di quindici).

La più antica cantina operante a San Fili (accertata a memoria d'uomo... la ricerca storica, per non invadere un campo non mio, la lascio fare agli storici!) sembra sia stata quella dei baroni Miceli (già operante tra il 1600 ed il 1700). Tale cantina era, tra l'altro, l'unica cantina sanfilese ad avere uno spaccio di vino prodotto dagli stessi proprietari della cantina.

Inutile dire che San Fili, come già più volte ribadito, se si esclude la produzione di castagne e di pochissimi altri prodotti della terra, non eccelleva né eccelle in determinate coltivazioni e la vite rientra a pieno titolo in tale campo. Tale pianta, infatti, non predilige certamente le zone umide e piovose. C'è da dire però che l'uva fragola (dalla quale si ottiene un ottimo vino naturalmente aromatico) di San Fili è una vera delizia per il palato... peccato se ne siano dimenticati i sanfilesi!

La cantina dei Miceli, situata alla scesa di via Roma (Chiarieddru, per i sanfilesi d.o.c.!), una delle poche stupende ed impareggiabili scalinate realizzate in pietra di fiume ed ancora non completamente distrutte dai nostri laboriosi ed insostituibili amministratori trentennali (per la serie: "come hanno distrutto loro, non distruggono neanche i bombardamenti degli americani"!), conosciuta nell'ambiente degli intenditori per diversi decenni come "la Grotta", fu gestita dagli inizi del 1900 e fino al 1930 circa da un certo Ferdinando "Cacavineddra" .

Ferdinando "Cacavineddra" vendeva il vino dei Miceli ottenendone in cambio una percentuale sul guadagno. Dal 1930 in poi (esattamente fino al 1977) "la Grotta" sarà gestita da Salvatore Calomeni cui subentrerà successivamente il figlio Giovanni. Giovanni Calomeni non solo gestirà (seppure per un breve periodo, tenuto conto che il mondo iniziava tragicamente a cambiare) detta cantina ma finirà per acquistarne dai Miceli gli stessi locali.

Giovanni Calomeni inoltre affiancherà al nome di "Grotta" il qualificativo di "azzurra", dipingendone tra l'altro con tale colore l'accesso alla stessa.

Il nostro compaesano Giovanni Calomeni (persona affabile che noi ricordiamo anche per la sua ultradecennale macelleria 'mmianzu u puantu) tra l'altro volendo rompere la secolare tradizione d'acquistare il vino (o quantomeno il mosto) da vendere a San Fili nei paesi a ridosso di Cosenza (Zumpano, Donnici ecc.) così com'era sempre stato fatto dai gestori delle nostre cantine, ebbe la felice idea d'organizzare nei pressi di piazza Rinacchio (nei magazzini sottostanti dell'abitazione dei Palermo) un locale per la trasformazione, su larga scala, dell'uva in mosto (nu parmiantu). Uva che il Calomeni acquistava direttamente in Puglia. Tale parmientu fu operativo negli anni compresi tra il 1965 e il 1980.

Personalmente ancora ricordo (anche perché per un certo periodo tra queste vi furono i miei genitori) le numerose persone (donne e uomini) che vi lavoravano nel periodo della vendemmia. Era anche questo un modo come un altro per aiutare l'economia non sempre rosea di alcune famiglie della nostra comunità.

 

Le cantine di San Fili... le più gettonate.

Se la più antica cantina operante a San Fili si pensa fosse stata quella dei Miceli (ara scisa 'e Chiarieddru) l'ultima ad essere ricordata, attiva fino a poco tempo addietro, è certamente quella gestita dalla famiglia di Angiluzzu Cersosimo (a cantina 'e Bifarelli).

Quest'ultima cantina (più che cantina una vera e propria piccola osteria) aveva sede nei magazzini che in altri tempi ospitarono il celebre frantoio di Donn'Oscaru Gentile, e che si trovano al di sotto (in parte) della Chiesa del Carmine.

Prima del 1950 le cantine erano uno dei pochi svaghi offerti ai sanfilesi che per una intera giornata si erano dedicati anima e corpo al lavoro di braccia. Nei periodi in cui tra l'altro si lavorava anche e spesso solo per la gloria, alcuni compaesani dai padroni venivano pagati spesso e volentieri solo con tale moneta... ossia un buon bicchiere di vino nelle locali cantine.

(...) Il vino servito ai tavoli dai numerosi osti (cantinieri?) del paese era quasi esclusivamente rosso e decisamente alcolico: a volte (a seconda delle annate) raggiungeva persino i quattordici o quindici gradi. Tale vino, ancora mosto, veniva acquistato "a chira vann'e Crati" (Castiglione Cosentino, Zumpano, Donnici ecc.), messo in otri e trasportato a San Fili su carri trainati da muli.

I piccoli spacci di vino locali, comunque, spesso e volentieri più che acquistare mosto, periodicamente acquistavano da grossisti della provincia direttamente il vino necessario allo svolgersi della loro attività commerciale.

Parlando con alcuni compaesani di quella che fu la loro giovinezza in merito alle locali cantine (... inutile dire che nessuno di loro mi ha confessato se fosse stato o meno un buon bevitore ed un altrettanto buon frequentatore di tali pubblici esercizi), sono stati quasi tutti concordi nell'affermare che le migliori e più ricercate cantine del paese, senza nulla togliere alle altre, sono state quella dei Miceli e quella di Peppino Cesario ('Ntonapa).

Della prima (gestita tra l'altro da Salvatore e Giovanni Calomeni) ne abbiamo parlato in un precedente capitolo, della seconda c'è da dire che venne realizzata a San Fili agli inizi del 1900 da un certo Gerardo De Marco nei pressi della vecchia sede municipale del nostro comune (all'incirca di fronte all'attuale sede bancaria). Questi, originario di Zumpano, era imparentato con il nostro compaesano Peppino Cesario al quale successivamente cedette la licenza.

Peppino Cesario trasferirà la cantina in alcuni locali nei pressi di Piazza San Giovanni e quivi resterà fino alla chiusura della stessa gestita, nell'ultimo periodo (anni ottanta), da Micuzzu Sergi.

La cantina del Cesario era preferita alle altre anche per il fatto che non solo era alquanto strategica la posizione del locale (trovandosi non solo nei pressi di piazza San Giovanni e, per l'epoca, anche all'inizio del paese), ma anche e soprattutto per il luogo accogliente e riparato che permetteva a combriccole di amici di organizzare vere e proprie ciambotte.

Di tale periodo ancora oggi, in un angoletto seppur minuscolo della nostra memoria, ci restano i nomi di alcune misure utilizzate all'epoca nelle nostre (dico "nostre" in quanto volenti o nolenti fanno parte della "nostra cultura storica") cantine quali "a cannata" (boccale di terracotta con una capacità di circa un litro e mezzo), "a menzacannata", "nu quartu" (250 centilitri) e "u quartucciu" (circa un litro).

 

Le cantine di San Filisarache e gazzose.

L'hobby preferito dai frequentatori delle cantine sanfilesi oltre, s'intende, a quello di bere un buon bicchiere di vino con gli amici, era il gioco delle carte... non me ne vogliano pertanto alcuni compaesani quando affermo che il Centro di Aggregazione Sociale del paese più che fungere ad all'alta funzione per cui era stato istituito... altro non si è rivelato se non una cantina e per giunta anche di pessima qualità (tenuto conto che all'interno della stessa, malgrado si giochi a carte, non circola neanche del buon vino vino).

Una delle cantine, che tra l'altro ricordo anch'io (non per averle frequentate, in quanto troppo piccolo all'epoca), era quella di Cesario Raffaele (Ramagliu) che si trovava tra la casa del nostro collaboratore Franco (Ciccio) Gentile e l'attuale negozio alimentari del compaesano Minuzzu Urso (nei pressi di quell'opera, vanto dei Borboni e vergogna della Sinistra Sanfilese degli anni settanta, conosciuta come il "Muraglione"). Sull'entrata c'era una insegna (presumibilmente realizzata su un pezzo di masonite) riportante il disegno di un fiasco di vino e di fianco la scritta "osteria".

Collegato (con una porta intercomunicante) alla cantina, Raffaele Cesario aveva un piccolo negozio d'alimentari e pertanto i clienti dell'osteria potevano usufruire, delizia del palato, anche di quanto offriva loro tale negozio. Leccornia divina e certamente golosità ricercatissima dagli intenditori (ossia dagli esperti enologi sanfilesi) erano certamente, oltre agli alici e alle sarde salate, le famosissime "sarache" (ossia una specie di aringhe affumicate)... e di questo il negozio d'alimentari di Raffaele Cesario era ben fornito.

Le "sarache", ottimo alimento per accompagnare pane e vino, pungenti se mangiate crude ma decisamente assatanate se fritte o arrostite, ancora oggi dai nostri anziani vengono ricordate per il fatto che dopo essersene cibati abbondantemente, per un lungo tempo (specie di notte) costringono il buongustaio ad ingurgitare grosse dosi d'acqua.

Ancora oggi se si vede qualcuno bere acqua in continuazione non raramente sentiamo qualcuno dei nostri anziani dire nei confronti del povero assetato: "Ma cchi t'ha mangiatu, per casu t'avissi mangiatu sarache o sarde salate?".

... e si dice pure, nel gergo di quelli che furono i frequentatori delle locali cantine sanfilesi, la famosa frase "tri quarti e na gazzosa"... la gazzosa, inutile dirlo, è una bevanda che si miscela ottimamente con il vino (specie quello rosso) dando allo stesso quell'appropriato senso di frizzante ed una giusta correzione di sapore.

Domanda: potevano i Sanfilesi degli anni trenta (1930), con una tale presenza di ottime cantine sul proprio territorio, fare a meno delle gazzose? ... potevano rischiare di restare senza le loro necessarie gazzose o perdere tempo facendosele venire da qualche altro comune della provincia di Cosenza?

Certamente no! ... pertanto non deve meravigliarci se a San Fili (nella prima metà del 1900) ci fosse anche uno stabilimento che produceva ed imbottigliava "gazzose". Il proprietario, voce del popolo voce di Dio, era un certo Michele Noto e lo stabilimento si trovava nei magazzini, di fronte al Muraglione, posti al di sotto del vecchio edificio postale.

Le bottiglie erano di vetro e quale tappo utilizzavano non gli attuali tappi di latta (all'epoca sconosciuti) e neanche i classici tappi di sughero... utilizzavano una pallina (anch'essa di vetro) posta all'interno della bottiglia. Il gas presente nella "gazzosa" spingeva la pallina verso l'alto, questa raggiungeva lo stretto del collo della bottiglia e chiudeva ermeticamente il tutto. Per aprire la bottiglia e quindi berne il contenuto... bastava capovolgerla.

Le bottiglie di "gazzosa" sanfilese, vendute anche ai comuni limitrofi, erano di "un quarto" e assieme ai "tre quarti" di vino facevano esattamente un litro (ossia, complessivamente, il "quartuccio", che era una delle misure di capacità dei sanfilesi dei bei tempi che furono).

Alla fine di questo capitolo, scusate ma mi è d'obbligo, non posso fare a meno di lamentare il fatto che San Fili, precursore dei tempi su diversi aspetti... tra tutte le altre cose... s'è fatto fregare anche la sua bella "fabbrica di gazzose".

Anche questa era una dignitosa forma di occupazione... che oggi ci sarebbe stata certamente utile ai Sanfilesi!

A volte mi chiedo (senza ottenerne risposta plausibile alcuna) come mai a San Fili di tutto ciò che i Sanfilesi (e sottolineo "i Sanfilesi") facciamo d'intelligente... deve restarci in breve tempo tanto fumo e niente arrosto.

 

Le cantine di San Fili: vutti varrili e mianzi tummini.

Il vino, nelle cantine di San Fili, veniva conservato in botti di legno di castagno (pochissime anche in legno di quercia) che andavano da una capacità di cinquanta litri fino a raggiungere i dieci quintali. Intorno al 1970 le botti, per quanto riguarda le cantine sopravvissute al cambiare dei tempi, vennero sostituite da recipienti in vetroresina.

Le botti in alcuni casi (pochi a dire il vero) venivano costruite o comunque riparate da artigiani locali: a San Fili a lavorare vuttivarrilimianzi tummini ecc. ancora si ricorda un certo mastru Fiore (parliamo degli anni intorno al 1930). Questi aveva la bottega all'Airella presso l'abitazione (dove c'è stato ed ancora oggi c'è l'omonimo panificio) di Ottorino Perri.

... e qualcuno ricorda pure, impegnato a costruire varrili e mianzi tummini nei pressi di San Giovanni, un certo mastru Luigi u Peccatu.

Resta ancora il vivo ricordo, a volte un vero e proprio rimpianto, nella memoria dei nostri anziani tra le tante anche della cantina di Gen'e Guffredu (padre del compianto ed indimenticabile compaesano prof. Goffredo Jusi, maestro di vita, per tanti anni, della nostra comunità) aru Spiritu Santu e di Domenico Noto (Farchiottaara Jazza (ai piedi della scesa della Chiesa Madre). Quest'ultima passata prima al figlio Francesco e successivamente venduta a Raffaele Comande'. 

Raffaele Comande' trasferirà successivamente l'esercizio dalla Jazza al pianostrada del palazzo dei Miceli su corso XX Settembre e abbinerà, in quest'ultimo caso, un servizio di ristorante/pizzeria alla cantina stessa.

Come non ricordare poi la cantina di Peppino Cesario (Trotta) al Muraglione (dove attualmente c'è il distributore di benzina di Saverio Montoro, distributore gestito dalla moglie di quest'ultimo) e (tra la seconda metà del 1800 e l'inizio del ventesimo secolo) le cantine di Ghiennarone (all'incirca di fronte all'ex sede municipale di San Fili) nonché quella di Giovanni Gentile (Pasc-kaleddra) detto "u Ghieghiu" (nei pressi della Chiesa del Carmine)?

Giovanni Gentile viene tra l'altro ricordato dai nostri anziani in quanto da piccoli gli stessi venivano simpaticamente minacciati da questo personaggio, nel loro passare davanti alla sua cantina, (con un gesticolare di mano, dita e coltellino) di... tagliar loro "u pingariaddru" se si facevano vedere da quelle parti.

Chissà se questo modo di fare, psicologicamente, in effetti non si sia dimostrato anche un buon modo per diminuire i futuri frequentatori delle cantine sanfilesi!

Resta comunque di fatto che se non si raggiungeva una certa età (compresa tra i quattordici ed i sedici anni) era impossibile poter mettere piede in una cantina: la legge (ma anche una severa morale dell'epoca) non transigeva eccezioni. L'oste rischiava la licenza ed un bel paio di ceffoni, per non dire un calcio in qualche meritevole posto, al giovane avventore non li negava nessuno. Pari sorte capitava al giovane che oltrepassava la soglia di un qualsiasi tabacchino.

(...) Erano altri tempi, erano bambini... e ci credevano, di conseguenza approfittavano dell'assenza sulla porta della cantina de "u Gheghiu" per sgattaiolare di corsa oltre la zona di pericolo.

Non c'era un vero e proprio orario di apertura e chiusura delle cantine: le stesse restavano aperte, in molti casi, senza problemi dalla mattina alla sera inoltrata. Illuminate con lucerne ad uagliu buanu, prima dell'avvento trionfale della luce elettrica (che, è bene ricordarlo, il nostro paesino è stato tra i primi, ancor prima della stessa Cosenza, ad averla per le proprie vie e nelle proprie case... siamo di fatto agli inizi del 1900) e con una concorrenza, tra le diverse cantine del paese, basata principalmente sulla qualità e sulla quantità del prodotto (a parità di prezzo) offerto alla propria clientela.

 

Le cantine di San Fili: Gaetaneddra.

(...) ... la cantina "da scisa 'e Chiarieddru", ovvero "La Grotta" dei Miceli (successivamente "La Grotta Azzurra" dei Calomeni), l'abbiamo detto in una precedente puntata di questa ricerca, a memoria d'uomo è la più antica cantina di San Fili; non abbiamo finora detto però che il dialettale "chiarieddru" (o "chiariellu") in italiano si traduce con le parole "chiarello e vinello".

E' vero che noi Sanfilesi doc con l'appellativo di "Chiarieddru" individuiamo una ben determinata zona "vasata da chiaria" (punto in cui con una certa facilità nelle notti particolarmente fredde la brina si trasforma in gelo), ma è anche bello collegare il luogo dove regnò incontrastata "La Grotta" con il nome del divino elemento (seppure in un diminutivo a volte dispregiativo) che l'ha caratterizzata.

Delle cantine o più precisamente dei posti di ristoro del nostro paese se n'è giustamente interessato anche Francesco Cesario nel suo libro "San Fili nel tempo", in particolare nel paragrafo "Servizio postale - Gaetaneddra (Gaetanella)".

Dopotutto un amante della storia popolare della nostra comunità com'era il prof. Francesco Cesario, non poteva non dare il giusto spazio nel suo capolavoro ad un fenomeno sociale qual era quello del ristoro nel nostro comune agli inizi del ventesimo secolo.

In tale paragrafo leggiamo:

"(...) Il cambio dei cavalli stanchi con quelli freschi avveniva al Muraglione precisamente al largo dinanzi alla casa di Paolo Blasi, ove era sistemata la stalla.

A pochi metri la signora Gaetaneddra , nota ovunque come Zi Teresa a Napoli, gestiva una famosa trattoria.

Qui i viaggiatori sostavano circa un'ora, quanto bastava per gustare le specialità Sanfilesi, costituite dalle tenere soppressate, dai profumati capicolli, dai fusilli caserecci ('nghjùnghjari), dall'ottimo pecorino con la lacrima, il tutto bagnato col gagliardo vino di oltre Crati.

(...) A pochi passi dalla Trattoria di Gaetanella, facevano buoni affari due Ostarie (Taverne). Erano frequentate dai conducenti dei carri, dei traini, delle carrozze, dai viaggiatori di seconda e terza classe, e da qualche Sanfilese".

Per la cronaca la casa di Paolo Blasi sembra sia quell'edificio che fu della famiglia Lonetti, di fronte a quello che fu il "Muraglione", dove oggi c'è tra l'altro lo studio del dott. Giovanni Carbotti. Al pianterreno di questo palazzo oltre al "cambio dei cavalli" doveva trovarsi anche la trattoria di Gaetaneddra.

In alcuni "catuoji" (dal greco = stanza al pianterreno) di edifici della zona, oggi adibiti a garage, ancora oggi si può notare sul pavimento quel che resta dei pozzi neri necessari, all'epoca, nei luoghi di ricovero degli animali.

Oltretutto chi si trova a passare nei pressi del locale distributore di benzina, può notare sporgere dal muro degli strani semicerchi realizzati in pietra tufacea. Era quello uno dei punti in cui a San Fili venivano momentaneamente legati i cavalli.

 

Le cantine di San Filiquando c'erano i briganti.

A San Fili, nei bei tempi che furono (all'incirca fino al 1970), vi erano una moltitudine di cantine anche se non tutte cantine propriamente dette: alcune, infatti, erano dei semplici spacci di vino, altre vere e proprie osterie ed in alcuni casi delle pseudo locande.

Si racconta, infatti, che i viaggiatori da Paola diretti a Cosenza e viceversa non avendo il coraggio (in particolare questi ultimi) d'affrontare di notte il tragitto, gli stessi si fermavano a San Fili (punto di mezzo) per passare la notte e rifocillarsi un pochino.

Tutto ciò accadeva quando a San Fili non c'era ancora il servizio ferroviario, che comunque (grazie ai campioni della politica locale di questi ultimi decenni... non faccio i loro nomi solo perché in questa pagina non c'entrerebbero tutti!) non c'è neanche adesso, e quando non circolava per le nostre sgangherate strade la famosa truscia... ma semplicemente la diligenza.

Scrive Rosario Iusi nei suoi ricordi fanciulleschi dal titolo "Sangue non mente" pubblicati sul "San Fili Fraternity Club of Westchester, inc.", bollettino n. 1 di gennaio 1983: "(...) ci spingemmo più giù, sino alla fermata della diligenza che veniva da Paola e andava a Cosenza. Qui, avveniva lo scambio della Valigia Postale, la consegna all'incaricato locale del pacco dei giornali di Roma e di Napoli, e fare lo scambio dei cavalli per completare il tragitto. I viaggiatori, intanto, entravano in una di quelle taverne locali, rustiche, ma note per la bontà delle vivande, per rifocillarsi. Quel movimento di gente e di cavalli, quel parlar forte dei cocchieri e dei mozzi di stalla, nuovo al mio orecchio, mi elettrizzavano (...)".

Rosario Iusi all'epoca in cui scrisse tali ricordi aveva 92 anni (per cui gli stessi si riferiscono ad un periodo ante 1900).

Agli inizi del 1900: non c'era la superstrada Cosenza Paola e passare il valico Crocetta o la zona di Sant'Angelo (causa i briganti che la frequentavano) di notte era cosa per niente igienica e salutare per la propria incolumità fisica. Era già andata bene se i briganti del luogo, infatti, agli incauti avessero lasciata salva la vita.

Tengo a precisare che il termine "brigante" è usato in quest'articolo quale sinonimo di delinquente singolo o affiliato a qualche clan dedito al crimine e non come facente parte di quella stupenda (pur nella sua drammaticità) pagina di storia meridionale da tutti conosciuta con l'appellativo di "brigantaggio".

Si racconta ancora, di qualcuno che dovette ritornarsene completamente nudo, a San Fili, dopo essere stato derubato, tranne che del proprio onore e della propria vita, di tutto ciò che aveva indosso. Questo signore (il cui ricordo è ancora vivo nella memoria popolare) sembra facesse commercio tra San Fili ed i paesi della costa tirrenica e così come altri commercianti nel passare col proprio carico per le strade della catena paolana dovevano di fatto pagare "un pedaggio" alle bande di malfattori che popolavano le nostre montagne... non si sa se in quell'occasione volle fare il furbo o se effettivamente gli era andata male la giornata, ma i briganti dal canto loro sembra non abbiano voluto sentire giustificazioni.

A San Fili c'era, per quanto riguarda il servizio di diligenza, anche il servizio di cambio dei cavalli ed in alcune cantine/locande i proprietari mettevano a disposizione per la notte, ai viaggiatori, una stanza ed un letto in cui riposare.

All'inizio del secolo (1900) si ricorda ancora nei pressi del bivio per Bucita (ara casa 'e Catalanu) una ricercatissima cantina che serviva anche e soprattutto da trattoria. Ed un'altra trattoria (quest'ultima chiusa all'incirca poco prima dell'inizio della seconda guerra mondiale) la troviamo anche di fronte all'ex Palazzo Giorno (quello che fino a pochi mesi addietro ha ospitato la locale Stazione dei Carabinieri): era questa la trattoria di Mastr'Angelo Confessore, meglio conosciuta come la cantina di Ros'e Cuasc-ku.

Ros'e Cuasc-ku

, aiutata dai numerosi figli, sembra preparasse dei succulenti pranzi (dai ricordi sanfilesi degli anni '30 di Francesco Corigliano).

 

Le cantine di San Fili: u mursieddru.

... e all'incirca tra la Curva de Marrupietru e il bivio per Bucita non possiamo fare a meno di menzionare (agli inizi del 1900) la cantina di Sante Cesario. Sempre in tale zona, ma molto tempo più tardi, troviamo operante una cantina aperta da Balduzzu Crescimone (detto titella) e da un certo Amedeo u Riggitanu, successivamente gestita da Micuzzu Tramontana e da Francesco Corrado (entrambi di Bucita).

Quest'ultima cantina sembra fosse molto apprezzata dai giovani di Bucita che, recandosi a San Fili magari la domenica per godersi un bel film al cinema comunale (... prima dell'avvento dell'epoca d'oro della Spiga, non dimentichiamocelo mai, a San Fili avevamo non solo l'ufficio di collocamento, la ferrovia, un buon servizio di autobus, l'esattoria, la casa dei lavoratori... anche e soprattutto un apprezzabile cinema), questi non mancavano di fermarsi una mezzoretta dai loro "compatrioti" per rifarsi un po' la gola.

... ed una cantina, all'incirca fino al 1930, è stata gestita da Rocco e Giovannina Speziale, nonni dei nostri sempreverdi compaesani Marcello e Rocchino. Tale cantina (con tanto di tavoli e suppellettili vari) aveva sede su corso XX Settembre nell'edificio attuale residenza di questi ultimi.

I frequentatori delle cantine si recavano nel loro luogo preferito di ritrovo con in tasca, oltre ai soldi per la loro razione quotidiana del divino elemento, anche con quanto di buono le scarne risorse della propria dispensa offriva loro: un pezzo di salsiccia, un tozzo di pane, "'ncunu cuacciu d'alive nivure e 'nfurnate" e via dicendo.

Il gestore aveva comunque a disposizione (...) sarde, sarachesarachiaddri ed altri alimenti particolarmente salati da mettere a disposizione dei propri clienti: tutta roba che ben si addiceva col vino, e che quindi aiutava lo smercio dello stesso.

Un altro alimento venerato dagli assidui frequentatori delle locali cantine erano senza dubbio le famose "capuzze d'animali", portate dagli stessi, spesso, già cotte da casa.

In una ricerca di qualche anno addietro (...), parlando della caccia al cinghiale, mettevo in evidenza come i nostri cacciatori al rientro di una trionfale caccia al selvaggio animale, usassero ritrovarsi nelle cantine per mangiare in allegra compagnia lo spezzatino di tale preda.

Il vino sfuso comunque veniva venduto anche nei pochi bar che nella seconda metà del ventesimo secolo fecero la loro comparsa nelle strade del nostro principale (ed anche unico) corso (vedasi ad esempio il caso di Sarvature Blasi - u Bagnaruatu) ed in alcuni negozi d'alimentari.

Un tale alto consumo di vino per il nostro paese era giustificato non solo per il fatto che San Fili era un punto obbligatorio di sosta per i viandanti impegnati nel tragitto Paola Cosenza, ma anche e soprattutto per il tipo di vita che conducevano i sanfilesi negli anni ante 1960. Il lavoro nei campi e tutti i lavori manuali facevano bruciare tantissime energie non solo ai braccianti ed agli operai, ma anche agli stessi "padroni".

(...) Il lavoro nei campi tra l'altro in alcuni casi poteva significare percorrere, ancor prima dell'alba, un certo numero di chilometri prima di arrivare a destinazione (vedasi ad esempio il caso delle zone attigue alla Crocetta o a Sant'Angelo, per non dire che alcuni nostri attuali compaesani partivano da Cucchiano per raggiungere la zona di Macchialonga).

Erano questi i tempi in cui orologi in circolazione se ne vedevano ben pochi (ed i pochi, essendo ai polsi dei padroni, non erano di facile consultazione) e quindi si regolava la durata della propria giornata lavorativa in base alla posizione del sole nel cielo... e tale posizione, chissà poi perché?, non era mai a favore della povera gente.

Il poco sollievo, la mattina, che poteva in parte alleviare le pene e la fatica prossima a venire dei nostri avi diretti alla "giornata" era, per chi poteva permettersela, la "pezza" (con dentro "u mursieddru", classica colazione della mattina) ed una piccola bottiglia di vino.

 

Le cantine di San Filiun problema sociale.

Se a San Fili mancavano (nel XX secolo) veri e propri costruttori di botti (alcuni dei nostri artigiani/falegnami più che altro li riparavano o realizzavano al massimo dei varrili), non mancavano certamente le segherie per la produzione delle doghe (ossia le strisce di legno con cui avrebbero preso successivamente vita le botti). Tali doghe venivano "esportate" in più regioni d'Italia.

In questo secolo ancora restano vive nella memoria dei nostri anziani la segheria di Pappalardo (nei pressi dell'ex stazione), di Cesari'e Cartoccia (vicino il mulino di Costantino o delle fate), di Francesco Blasi (u Peccatu), di Ruffolo Antonio e di Giovanni Protopapa (queste ultime tre nei pressi dell'attuale parrocchia).

* * *

Le famose cantine di San Fili ormai sono state tutte pensionate e c'è da dubitare che riapriranno e ritorneranno al loro vecchio fulgore... anche se, a dire il vero, non sarebbe male pensare a lanciare sul mercato una bevanda a base di vino, magari frizzante, tarata intorno ai 4 o 6 gradi alcolici. Il tutto ovviamente con marchio "San Fili d.o.c.".

Se poi a tale bevanda dessimo il nome di "Vino leggero di San Fili", credo che oltre a fare trenta, saremmo riusciti a fare anche trentuno.

Dopotutto credo sia inutile dire che il vino, così come l'acqua ed ogni cosa con cui quotidianamente veniamo in contatto, se consumato razionalmente è anche un toccasana per la nostra salute. Il vino rosso in particolare sembra che riesca a prevenire anche alcune forme di cancro.

Ritornando comunque al nostro discorso iniziale, ossia alla definitiva chiusura delle cantine di San Fili, c'è da dire che gli anni compresi tra il 1960 ed il 1990 hanno avuto le loro vittime anche su questa sfaccettatura del commercio locale.

In tutto ciò vi sono stati tanti lati positivi oltre che a tanti lati negativi: in effetti era un po' vergognoso, ad una certa ora del giorno, trovare tanti ubriaconi girare barcollanti per il nostro paesino. In alcune famiglie, tra l'altro, dove vigeva un sistema patriarcale basato più sulla quantità di vino che si era riusciti ad ingurgitare nel corso della giornata che non sulla effettiva (? ... mi scusino le lettrici!) superiorità dell'uomo, per le donne e per i fanciulli era un continuo dramma dover sottostare alle regole loro imposte da Bacco e seguaci.

Non era neanche una rarità sentir presentare all'epoca l'ultimo dei propri pargoli con la dicitura "chistu è figliu du vinu!".

Ancora ricordo, quando abitavo in campagna (ai tempi della mia fanciullezza), rientrando con mia madre (che all'epoca lavorava saltuariamente nel ristorante di don Gustino al Rinacchio) il caso d'una nostra vicina che alle undici di sera la trovavamo ben distante da casa sua ad aspettare ore più fortunate per rincasare.

Alla domanda del perché si trovasse lì, la risposta era semplice: "Maritumma è 'mbriacu puru stasira e si trasu mi mina!".

Resta in ogni modo emblematica la risposta che sembra sia stata data dal marito di questa donna pochissimi anni fa (due o tre) quando, ricoverato d'urgenza in ospedale per chissà quali problemi di salute. Avendogli riscontrato i dottori la cosiddetta "acqua" non so più se nella pancia o nei polmoni, sembra che questi abbia fatto notare agli incamiciati quanto fossero lontani da una giusta diagnosi: "Duttu?!? ... guardati ca vi sbagliati: cumu faciti a dire ca tiagnu acqua 'ncuaddru... s'io acqua unn'aju mai vippitu 'n vita mia?".

Per San Fili fatti del genere (pessimi rapporti tra mogli e mariti a causa del vino) negli anni cinquanta e sessanta non erano certamente casi sporadici, malgrado non fossero la regola. Non bisogna dimenticarsi che a quei tempi ancora tante famiglie più che nascere dall'amore tra due soggetti nascevano dalla necessità economica dell'uno o dell'altro (e spesso la parte più debole, da questo punto di vista, era proprio quella femminile).

 

Le cantine di San Fili: si chiude un'epoca.

Poco o per niente amanti delle cantine sanfilesi erano certamente le nostre donne, anche perché le stesse, succubi, come già detto, fino agli anni sessanta d'una concezione della famiglia basata sull'impostazione patriarcale, spesso pagavano sulla loro pelle e nella loro dignità il peso d'avere un marito schiavo di Bacco.

Non mancava tra queste, comunque, chi non disdegnava di bere il suo bel quartuccio.

Alcune donne (qui lo scrivo e qui lo nego!), ad esempio, mandate dal marito alla cantina ad acquistare un fiasco di vino, non mancavano di farsi riempire dall'oste un bel bicchiere col sacro nettare da bere sul momento... forse per paura che a casa sarebbero rimaste all'asciutto.

Il più delle volte, comunque, a riempire il fiasco nelle cantine venivano mandati i fanciulli. Roba da telefono azzurro, a causa delle battute e dei pessimi apprezzamenti che a questi venivano rivolti dagli ospiti della cantina o da coloro che incontravano per strada.

A questo punto, tenuto conto che siamo alle ultime battute di questa ricerca popolare, viene giustamente da chiedersi: come mai non vi sono più cantine nel nostro paese? ... forse perché i sanfilesi di botto se non sono diventati astemi poco ci manca?

Se è per questo motivo, devo dire che la questione non mi dispiace affatto.

Personalmente bere un buon bicchiere di vino, specie se in buona compagnia (ed in particolare lontano dalle donne... che sono una vera palla al piede quando ti vedono sorseggiare un bel bicchiere di rosso... quasi fossero gelose della bottiglia stessa) non mi è mai dispiaciuto

L'abbandono delle campagne, l'abbandono di un certo tipo di economia prettamente agricola e quindi basata sull'uso delle braccia, l'istruzione, le nuove norme fiscali, il nuovo stile di vita sedentario... hanno contribuito tantissimo alla drastica diminuzione dei grandi bevitori e quindi degli assidui frequentatori delle cantine.

Dal punto di vista occupazionale sono pochi, infatti, quelli rimasti a coltivare la terra o a fare lavori faticosi e manuali, ed è proprio in questi soggetti che il vino ha i suoi maggiori accoliti.

San Fili non è più il San Fili degli inizi del XX° secolo o del 1950: non è più un punto obbligato di passaggio e di sosta, né un centro abitato che deve ospitare e provvedere al sostentamento di ben cinquemila anime.

San Fili oggi è diventato... un paese dormitorio, i cui ultimi aneliti di vita reale e verace li troviamo (speriamo ancora per molto tempo) in Piazza San Giovanni: un ringraziamento di cuore, per la serie di articoli su "Le cantine di San Fili" lo faccio agli amici compa' Giovanni Calomeni, Sandro Cesario, Marcello Speziale, Giuseppe Saggio, Antonio Asta, mastru Totonnu D'Agostino, Mario Oliva, mastru Michele Leo e a quanti altri, non menzionati, mi hanno dato la possibilità di scrivere un'altra bella pagina sulla nostra stupenda comunità. Un particolare grazie, infine, lo rivolgo a te lettore per avermi sopportato per ben dieci puntate (paragrafi)!


ARTIGIANATO E COMMERCIO A SAN FILI: La fiera di Santa Maria degli Angeli.

 

San Fili 2000. Fiera di Santa Maria degli Angeli in località Frassino. 

Foto Pietro Perri.

Da "l'occhio" anno II n. 16.

Articolo firmato da Antonio Asta e Pietro Perri.

* * *

Correva l'anno 1550, la statua marmorea di Santa Maria degli Angeli venne caricata su un carro trainato da due paia di buoi per essere trasportata nella vicina Rende. A nulla servirono i pungoli dei gualani (bovari) e le sollecitazioni dei presenti: carro e buoi sembravano inchiodati a terra. La statua venne scaricata e rimessa nel suo altare dove è possibile ancora oggi ammirarla.

A ricordo del "miracolo" venne istituita la tradizionale "Fiera di Santa Maria" fiera che tutt'ora si svolge nella terza settimana del mese di agosto. I tempi passano e con il loro trascorrere usi, bisogni e costumi subiscono inesorabilmente evoluzioni ed involuzioni.

La fiera, a ricordo dei nostri anziani, negli anni precedenti il 1970 si svolgeva tra il bivio per Bucita (abbiveratoiu) "u ponte 'e Picciune" (soprannome del proprietario della località) o " chiana 'e jianna", per quanto riguarda gli animali che vi si vendevano. Dal bivio per Bucita fino alla curva di Santa Maria si potevano acquistare suppellettili e cianfrusaglie varie (piatti, pentole, lanceddre, linterne ad uagliu buana, qualche giocattolo di scarso valore ecc.).

Anche i negozianti, incluso i locandieri, di San Fili in quei giorni si spostavano nella zona, ciò perché la fiera era visitata dagli abitanti dei paesi confinanti e quindi per loro significava racimolare qualche soldo in più dalla loro attività.

Ancora oggi qualcuno ricorda l'ottimo spezzatinu de crapa (oltre che alle insuperabili cuarduliddre) che veniva smerciato in quell'occasione dai fratelli Sergi Micuzzu Armandu (Scasciaporta). Importante, tra questi negozianti, la partecipazione alla fiera di Genueffa D'Onofrio ('u Suttile).

I bambini sprizzavano gioia da tutti i pori quando potevano, con i pochi spiccioli raggranellati, acquistare i cavaddruzzi 'e casicavaddru o un pacchetto di nuciddri americani de Rusina a nuciddrara e Cicciu l'albanista, oltre che agli ottimi gelati di Sìrviuzzu Mazzulla detto u Cavalieri.

Una nota di rilievo, in tale frangente, va data "ara nive da muntagna 'e Santu Fili": Alcuni operai, capeggiati solitamente dal simpatico e pacioso "Ciccuzzu de' Truonu" (Francesco Berardi Sen.), dopo le immancabili, abbondanti nevicate, si recavano in montagna (Serra) e sotterravano grandi quantità di neve in profonde fosse naturali.

Di tale neve, ne beneficiavano i cittadini sanfilesi nei mesi di luglio ed agosto, sia per la popolare scirubetta, sia la usavano nelle fiere i gelatai, mescolata al sale, per congelare il cioccolato sciolto nel latte e altri ingredienti zuccherati ottenendone così i veri gelati da vendere in formette di latta.

Alla fiera si vendevano anche cistieddri, panari, sporte, crivi e tanti altri lavori di artigianato locale. Maestri dell'intreccio di salici, de virghe 'e castagna e de canna sono ancora oggi ricordati Gaspariaddru Rende (famoso anche per come rivestiva le damigiane) e Clemente Filippo. Ancora in attività il bravissimo Carminuzzu Arturi (Papararu).

Dell'artigianato locale facevano parte anche le solide masckature, gli anelli incatenati o cancari ed i vrunzi o campane per gli animali. Rinomati erano "i campanari" Francesco e Domenico Apuzzo meglio conosciuti come zu' Cola. Specialisti nella produzione di serrature e anelli incatenati erano i fratelli Castellano in via Concezione, mastru Ghetanu Cirillo, i Sammarco, mastro Angelo e mastru 'Ntonu Passarelli (Mazzola) che realizzavano anche facigli, zappe, picconi, 'ccette, fierr'e ciucciu e via dicendo.

I contadini sanfilesi e dei dintorni si recavano alla fiera anche per acquistare a chiantima se gli erano andati a male i vurvini e quindi si sarebbe pregiudicato l'intero lavoro di un'annata nei campi.

In concomitanza con la "Fiera di Santa Maria" si tenevano una serie di giochi popolari tra cui a 'ntinna o palo della cuccagna (campione nei secoli Serafino Lio detto Saraca, dei nostri tempi il compianto Vincenzo Baldi in qualità di organizzatore e insuperabile scalatore. Proverbiali le sfide tra Serafino Lio, Carminuzzu Arturi e Franchino Bartella detto u Verre). Altri giochi di un certo rilievo erano a cursa di ciucci (dove vinceva a ciucciu urtima arrivata), pignatiaddri a frissura affumicata dal cui Ma la parte più solenne e più suggestiva della Fiera era a benedizione di vui, che chiamava a raccolta gran parte della popolazione (prima del 1950). Tutti i buoi del paese, addobbati da variopinti drappi di capisciola (cascame di seta), ornati da corone di fiori campestri appese al collo assieme ad un lucido campanaccio e da due tortani infilati alle corna, venivano condotti alla chiesa del Ritiro, per la S. Messa Cantata della Domenica. Per l'occasione anche i gualani (bovari) erano vestiti a festa.

Alla benedizione i buoi venivano disposti in riga sul sagrato. La statua del miracolo era lì di fronte, all'altare maggiore.

U tiampu passa e sulu mai ti lassa: oggi tranne e vacche di Sirviuzzu Carpanzano (Gangale), a San Fili non si possono neanche ammirare dei buoi... e quante parole gettate al vento quando queste vacche passano per le strade del paese riportandoci ad immagini ed adduri di tanti anni fa. Oggi la fiera si fa per il corso principale del paese, ma senza il gusto ed il piacere di una volta: qualche bancarella di giocattoli, stoviglie, stoffe e, grazie a Dio, l'immancabile presenza di Rusina a nuciddrara.


San Fili 2000 - abbeveratoio bivio per la frazione Bucita. Luigi Ferraro... forse l'ultimo dei panarari reali ancora in circolazione. Regolare presenza della Fiera di Santa Maria degli Angeli.

Foto Pietro Perri.

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Alcune notizie di quest'articolo sono tratte dal libro "San Fili nel Tempo" del Prof. Francesco Cesario, edizione 1981.

La storiella del " miracolo" della statua di Santa Maria degli Angeli, opera della scuola siciliana della famiglia dei Gangini (se non degli stessi), ovviamente è pura leggenda... ma piace pensare sia vera (è molto più poetico). In effetti la statua è stata portata a San Fili e per San Fili da "Don Aquilante Rocchetta, Cavaliero del Santissimo Sepolcro" al rientro dal suo celebre pellegrinaggio in Terra Santa.

mercoledì 11 maggio 2022

ARTIGIANATO E COMMERCIO A SAN FILI: Il mercato delle castagne a San Fili prima del 1960.

 

Stazione ferroviaria di San Fili (CS) - Anno 1948.

Sul treno (da sinistra): R. Zuccarelli, V. Speziale e G. Aiello - Porchettella, Armando Sergi con un sacco di castagne sulle spalle, C. Lio sul carro e V. Comandé di fianco al carro.

Foto gentilmente messa a disposizione da Marcello Speziale. 

Articolo di Pietro Perri.

Da "l'occhio" anno II n. 20.

*   *   *

L'avvento del 1960 per San Fili significava chiudere letteralmente con un passato che, nel bene o nel male, rappresentava e rappresenta la sua storia. Qualche numero addietro abbiamo parlato delle "carcare 'e Santu Fili", in questo numero, visto che il mese ci è d'aiuto, abbiamo reputato giusto parlare della raccolta delle castagne a San Fili: una stupenda fonte economica che, purtroppo, grazie al boom economico italiano, oggi, almeno per alcuni aspetti, rischiamo di rimpiangere amaramente.

Il periodo della raccolta delle castagne (secondo la tradizione compreso tra la settimana dedicata al nostro santo patrono san Francesco di Paola ed il giorno di Tutti i Santi) nel nostro paesino era gioia per tutti: dai grandi ai più piccoli, tutti, fermo restando il periodo di magra, si poteva gioire di qualche soldo in più nelle tasche... si arricchiva il corredo delle pulzelle, sulla tavola si poteva sgranocchiare qualcosina ed i giovani potevano persino dar vita a qualche pazzia quale andare a vedere un film al cinema. 

Ancora oggi, a San Fili, qualche parvenza di Circo, Giostra o autoscontro viene a spillarci qualche quattrino proprio in questo periodo. 

Per il paese, in quegli irripetibili giorni, venivano improvvisati svariati magazzini per la raccolta delle castagne: di una certa importanza erano quelli di Vincenzo Speziale (leader indiscusso del settore), Raffaele Comandé, Francesco Nigro e Pasquale Granata, Martino Lombardo, Francesco Corrado, Antonio Lio, Raffaele Cesario, Gisberto Napoletano e Enrico Crispini i quali, a fine campagna, arrivavano a contare un immagazzinamento, ciascuno, dai 100 ai 150 quintali del prelibato e ricercato frutto. 

C'era comunque spazio anche per le piccole ditte (magari legate ad una sola stagione) quali quella di Stano Cirillo e Francesco Assise, Giuseppe Cesario, Antonio Ruffolo e Mario lazzolino: tutto il paese era in fermento, tutti, nessuno escluso, erano impegnati in questa magica attività che li riportava al diretto contatto con la natura circostante.

Santa Vennera, i Cozzi, Topa, la Silvia, Uncino, Torre Bruciata, Tanzia e Favale erano considerati veri e propri castagneti in quanto i loro nomi erano legati a poche famiglie proprietarie di grossi appezzamenti (o partite): i Blasi, i Miceli, i Gentile, i Caracciolo (Gesuiti) e i Vercillo (Bucita). Non mancavano comunque i piccoli proprietari. 

A San Fili confluivano, in ogni caso, anche le castagne raccolte in comuni e zone più o meno vicine: Caldopiano, Gesuiti, Parantoro e lo stesso San Benedetto Ullano. Avevamo una stazione ferroviaria a disposizione e anche questo, all'epoca, significava ricchezza.

Si dice che nel piazzale laterale della stazione, un mitico anno si trovassero accumulati qualcosa tipo sette/ottomila quintali di castagne pronte per essere caricate sui vagoni merci del treno.

I castagneti davano lavoro in quei giorni ad una infinità di sanfilesi (non dimentichiamo che negli anni cinquanta i residenti sfioravano le cinquemila unità): molti erano gli addetti alla pulitura, alla battitura e ancor di più quelli alla raccolta propriamente detta... maestre in tale arte ancora una volta le nostre donne. 

Alle donne spettava anche il compito, nei magazzini, di selezionare le castagne di pregio dallo "scarto" (le marce o le piccole castagne che oltrepassavano i fori del crivo). Detto "scarto" non veniva comunque gettato, bensì venduto ai contadini locali che l'utilizzavano per alimentare il proprio bestiame (i maiali ne erano ghiotti, e si dice che la castagna completasse l'opera d'arricchimento della loro carne, cresciuta a furia di crusca, ghiande e "viveruni").

Dolente nota è che in quegli anni, in alcune zone, tra padrone e subalterno, s'arrivava persino ad instaurare un contratto di terzadria (e se il subalterno era particolarmente ignorante, gli si dava a credere che ciò significava che tre parti di castagne raccolte spettavano al proprietario e solo una parte al malcapitato giornaliero). Dai magazzini di raccolta, sparsi a macchia d'olio in tutto il paese, le castagne "scelte" (in quanto già passate al setaccio o crivo), venivano portate in una delle tre "cibbie" (enormi vasche di piccola profondità) che si trovavano a San Fili: la "cibbia" di Donn'Oscaru Gentile alla Macchia Posta, quella di Ottorino Perri all'Airella e quella di Antonio Lio dove sorge adesso la locale Scuola Materna.

Le cibbie oltre a dare un'ultima "scartata" alle castagne (veri e propri marroni), in quanto quelle di scarso valore o ospitanti degli "indesiderati buongustai" salivano a galla (veramente poche in quanto le nostre donne avevano fatto un buon lavoro), servivano principalmente a sottrarre dalla buccia delle castagne parte dell'acido tannico, di cui è ricca, che ne pregiudica irrimediabilmente la conservazione. 

La castagna veniva lasciata "a bagno" due o tre giorni, quest'operazione ne garantiva l'ottima qualità (senza l'uso di preparati chimici) per diversi mesi, anche fino ad aprile dell'anno successivo. Tolte dalle cibbie, venivano poi poste sui veri e propri mercati nazionali: Campania, Sicilia e Puglia aspettavano ansiose le castagne di San Fili (da tali regioni, spesso e volentieri, prendevano anche la strada per l'estero).

Se da una parte c'era la compravendita, dall'altra troviamo il consumo interno agli abitanti del nostro ridente paesino: ed ecco prendere piede le "ruseddre" e i "vaddrani" (nomi barbaramente sostituiti in questi ultimi anni con gli italiani caldarroste e caldalesse), i "fi1ari" (castagne infilate in uno spago e cotte al forno) fino ad arrivare ai classici e tradizionali "pistiddri".

"pistiddri", di cui da tempo s'è persa ogni traccia a San Fili, erano castagne essiccate sopra le "catrizze" (ripiani ricavati con intrecci di verghe di castagno).Al di sotto delle catrizze (per accelerare la disidratazione del frutto) vi si metteva un braciere, in ogni caso erano mantenute nella stanza dove si accendeva il fuoco. 

Dai "pistiddri" (macinati regolarmente ai mulini) si ricavava la cosiddetta farina di castagna, con la quale venivano fatte delle gustose (per quei tempi) "pittuliddre": il castagnaccio. Inoltre i "pistiddri", in quei magici anni, la sera venivano messi a bagno per essere poi bolliti a fuoco lento ('nta na tieddra de crita) il giorno successivo: in tale modo si risolveva anche il problema dell'alimentazione dei bambini nei tempi di guerra (per gli omogeneizzati non c'eravamo ancora attrezzati).

Era il giorno di Tutti i Santi, quando a San Fili veniva ufficialmente chiusa la campagna annuale delle castagne e si dava libero accesso ai viandanti che volessero raccogliere quel che era sfuggito all'attenta vista dei nostri compaesani: era la terza castagna, quella che Dio ha riservato al pellegrino. Venivano da tutte le parti: dalla marina e dalla città, a schiera, in cerca anche loro di un leggero sollievo alle privazioni del periodo. Agli inizi degli anni sessanta chiuderemo anche questo capitolo: San Fili era destinato ad andare avanti, in cerca di una collocazione che ancora oggi non è riuscito a trovare.

domenica 8 maggio 2022

ARTIGIANATO E COMMERCIO A SAN FILI: Dalla keramidòs greca al ceramile di San Fili.



San Fili 1958: Antonio Gentile, uno degli ultimi ceramilari di San Fili. Foto pubblicata sul quindicinale "L'Occhio" di domenica 28 gennaio 1996 a corredo di un articolo di Pietro Perri.

 

E' stato detto e ribadito centinaia di volte i primi dati storicamente provati sull'esistenza di San Fili (in quanto "Terra di Sancti Felicis") risalgono appena all'undicesimo secolo dopo Cristo. E' bello però trovare, in questa pittoresca realtà della periferia cosentina (16 chilometri di distanza non sono poi così tanti), tutta una serie di piccoli frammenti d'usi, costumi e tradizioni che portano la mente degli studiosi ad individuare nelle colonie elleniche le origini di piccole comunità quale quella sanfilese.

Passi pure per la "lagana" (tagliatelle), per il torrente Emoli ed il suo "armonioso" nome, oltre ad alcune vie quali "Cuozz'e Juria" (Cozzo di Iorio) che ci riportano ad etimologie prettamente greche: ecco trovarci a scoprire, non senza una punta di celato orgoglio, che anche la divulgazione dell'arte della ceramica (dal greco keramidòs, argilloso) nel bacino del Mediterraneo, è opera di questo avanzato popolo dell'Egeo. Un popolo, quello greco, che fu primo in tutto.

Parlare di Greci e parlare di Mediterraneo, significa parlare di Magna Grecia e quindi della Calabria: siamo tra il 700 e il 550 avanti Cristo (ossia 1600 anni prima che venisse scritta quella bellissima locuzione che è la "Terra di Sancti Felicis").

Nell'arte della ceramica (intendendo con ciò la lavorazione tramite cottura dell'argilla) rientra anche l'operato "du ceramilaru" (e "u ceramile", guarda caso, conserva quasi intatta la pronuncia della sua originaria parola ellenica).

Allora: San Fili fu veramente una colonia greca? ... i più fantasiosi tra noi schiavi della parola e della penna, hanno posto in questa zona persino i resti della leggendaria Pandosia (mitica terra di Pan, dio dei boschi e non solo). Per una volta, comunque, non diamo conclusioni avventate e lasciamo agli storici ed agli archeologi il compito di verificare questa ennesima verità.

Fatto sta che l'argilla di San Fili si presenta di ottima qualità con il suo stupendo colore grigio e l'adattabilità alle forme che le si vogliono dare, specie nel campo dei laterizi (mattuni, ceramili mianzi mattuni): la zona "de Tierriforti" in montagna (dove è ancora possibile ammirare i resti dell'altoforno o "carcara in cui si cuoceva l'argilla lavorata) e quella di Pulizia a valle ne sono l'evidente dimostrazione. Un vero greco se ne sarebbe subito accorto.

"U ceramilaru de Tierriforti produrrà laterizi fino al 1935 circa. Un punto strategico quello, in quanto dallo stesso era molto facile poter smerciare parte della produzione anche nei comuni di Falconara Albanese e San Lucido, trasportando la. stessa con degli asini e dei muli, o portandola direttamente le donne sulla testa.

Agli inizi degli anni Trenta ci si rese conto che era più economico utilizzare i vagoni merci della stazioncina di San Fili, ed è così che parte in grande stile la zona de "i ceramilari 'e Pulizia".

I "ceramilari de Santu Fili" sfornavano, ma solo per uso familiare o per gli amici, anche lanceddre, nappe (ciotole in creta dove si facevano bere le galline), pascarieddri; piacureddre fischietti per i ragazzi. Gli oggetti di uso domestico (lanceddre, pignate pignatieddri, gavatuni gavatunieddri, salaturi e grandi piatti detti "rennitani") venivano infatti realizzati dai ceramisti della vicina Rende.

 

La produzione dei ceramili di San Fili.

Si era tra la metà di aprile e l'inizio di maggio, quando i "ceramilari 'e Pulizia" aprivano i cancelli alla propria maestranza: nel frattempo, però, le nostre brave donne avevano assicurato da diversi giorni, ormai, le enormi cataste "de fascine 'e frasche" che avrebbero alimentato il fuoco delle carcare.

Scavata l'argilla, si spandeva sull'aia per farla asciugare al sole.

La stessa durante il giorno veniva ripetutamente rimossa con zappe, pale e rastrelli per favorirne i processi di essiccazione e polverizzazione: si preparava adeguatamente, cioè, a quella fase detta "della spugnatura".

Raccolta dall'aia, l'argilla essiccata e polverizzata veniva riposta in apposite vasche e nelle stesse veniva coperta d'acqua, iniziava così, appunto, la "spugnatura" (ossia la si rendeva molle, gommosa e quindi facilmente lavorabile).

Nelle vasche veniva pestata a piedi nudi per circa un'ora al fine di amalgamarla il meglio possibile.

Tale lavoro era fatto fare ai principianti del mestiere, spesso veri e propri ragazzini.

Tolta dalle vasche, la maestranza la metteva nelle forme per ricavarne i famosi "ceramili", i mattoni, i mezzi mattoni (usati come mattonelle, attualmente ricercatissimi... invano) e tutti gli altri prodotti del ceramilaro.

Ancora umidi i ceramili ed i mattoni venivano tolti dalle forme e messi ad asciugare al sole per quattro o cinque giorni.

Una fase, questa, che meno piaceva a chi lavorava nei "ceramilari" dell'epoca: durante l'asciugamento, infatti, era un grossissimo problema se malauguratamente veniva a piovere. Sarebbero bastate poche gocce d'acqua per rovinare irrimediabilmente il lavoro di una diecina di giorni e di una cinquantina di persone.

Non c'era scusa che tenesse: spesso di notte o quando si era intenti a pranzare, si doveva tutti correre sull'aia a raccogliere il prodotto messo ad asciugare e portarlo al riparo nella "caseddra".

Tutto il resto poteva benissimo attendere e quindi essere rinviato ad un tempo migliore.

A questo punto i ceramili ed i mattoni venivano accatastati all'interno della carcara, sistemandoli in modo tale da sfruttare al meglio lo spazio a disposizione: prima i mattoni, poi, al di sopra, i mezzi mattoni ed infine i ceramili.

Complessivamente sette o ottomila pezzi avevano trovato la loro giusta collocazione all'interno della carcara che li avrebbe ospitati per ben tre giorni: il primo giorno, alle undici di sera si accendeva il fuoco che continuava a bruciare senza sosta alcuna fino alla stessa ora del giorno successivo, gli altri due giorni erano necessari a garantire un raffreddamento graduale del prodotto stesso.

I ceramili ed i mattoni di San Fili erano pronti per essere collocati sul mercato.

In quell'articolo si fa riferimento alle "Carrere" quale luogo in fui fino al 1935 operavano i ceramilari del paese: qualcuno mi ha fatto giustamente notare che non si tratta della zona delle "Carrere" bensì di quella detta "Terriforti".


San Fili anni Cinquanta (1950 - 1960). U ceramilaru de Pulizia. Foto archivio Francesco (Ciccio) Cirillo.

 

La commercializzazione dei ceramili di San Fili.

Anche il vate aveva fatto il proprio dovere: sembra che tra la gente che prestava la propria opera all'interno dei "ceramilari 'e Santu Fili", vi fosse qualcuno che si dedicasse alla poesia.

Circola voce infatti che ancora oggi sui tetti delle nostre case si possa avere la fortuna d'imbattersi in "canali" e "coperchi" che riportano incavati gli alti versi di questo nostro dimenticato paesano.

I ceramili ed i mattoni che erano riusciti a raggiungere l'interno della carcara (ossia quelli che non erano stati rovinati dalla pioggia quando erano posti ad asciugare sull'aia; quelli che erano scampati alla furia barbara di un gruppo di giovani che per fare un vile dispetto ai proprietari si divertivano, inosservati, a rompere i ceramili saltandovi sopra; quelli che non erano caduti dalle mani stanche e provate degli operai dei ceramilari), i ceramili che giunti a giusta cottura nella carcara ne erano usciti dopo ben tre giorni fuori, trionfanti nei colori dell'arcobaleno che sembravano acquarellati da una divinità greca, erano pronti per essere posti sul mercato.

A questo punto i ceramili, i mattoni e i mezzi mattoni dovevano essere portati dalla zona del ceramilaro (Pulizia) alle zone di vero e proprio smistamento: per San Fili, Bucita, San Vincenzo si trasportavano nei pressi della Chiesa di Santa Maria degli Angeli dove ad attendere gli addetti a questo lavoro, c'era un carro su cui sarebbe stato caricato il materiale. Il resto doveva essere trasportato, sulla testa delle nostre brave donne, alla locale stazione ferroviaria, la cosiddetta "Piccola", punto d'attesa per il vagone merci. Era questo, il trasporto alla "Piccola", un lavoro che veniva fatto di sera. Ogni donna ne portava ben quindici per ogni viaggio e la stessa veniva remunerata in base al numero di viaggi che avrebbe totalizzato.

Un occhio di riguardo si aveva per le fanciulle e le donne che sembravano alquanto deboli, alle stesse si permetteva di portare il medesimo numero di ceramili suddivisi in due viaggi, anche se alla fine, gli stessi venivano sommati e per valere il viaggio avrebbero dovuto comunque assicurare il trasporto di quindici pezzi.

La cosa non era semplice, specie se si pensa che ogni ceramile, per essere considerato tale, doveva raggiungere un peso di circa cinque chilogrammi.

Situazione peggiore toccava alle donne delle contrade Cucchiano e Profico, membri di quelle famiglie che non potevano permettersi di pagare il proprietario di un carro e bestie da tiro per il trasporto del prezioso materiale.

La giornata nei "ceramilari 'e Santu Fili" era stata decisamente lunga: iniziata all'alba, era finita all'imbrunire.

Circa sessanta persone, in ogni caso, per quel giorno pur non arricchendosi (cosa impensabile per quei tempi di magra), si erano assicurate un pezzo di pane da mettere sotto i denti. Unica sosta della giornata era quella del pranzo: una intera ora in cui ci si sarebbe anche potuti riposare un pochino... intorno al tavolo, più che di mangiare, c'era odore di festa, di rispetto e di amicizie secolari.

Il cibo preferito da quanti lavoravano all'interno dei ceramilari (tra l'altro questo offriva la vita e la ditta) era composto principalmente da insalata di pomodori, patate bollite e cipolle: intorno al grande piatto chiamato "catanzarise" stavano sedute sette o otto persone, ognuna delle quali, quasi facendo a gara col compagno che le era a fianco, si affrettava a mangiare più che poteva.

Tutti infilzavano con la forchetta e inzuppavano il pane contemporaneamente nel grande piatto.

Un buon bicchiere di vino di produzione locale e qualche minuto di più che meritato riposo all'ombra di un ulivo (magari osservando estasiati lo stupendo e maestoso sorbo che ancora si trova, quasi eterno, nella zona dei "ceramilari 'e Pulizia") completavano l'affresco.

Anche per i "ceramilari 'e Santu Fili", come già per i magazzini delle castagne, la lavorazione dei fichi, le carcare per la calce e mille altre forme di artigianato locale, era giunto il fatidico 1960, che chiudeva questo magico capitolo.

San Fili non può che essere grata anche alla famiglia dei Gentile, con i loro degni rappresentanti Antonio ed i cugini Salvatore e Giovanni, per averle regalato questa pagina di stupenda ed indimenticabile storia.