SAN FILI BY PIETRO PERRI BLOG: aprile 2022

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sabato 30 aprile 2022

RACCONTI DEL FOCOLARE A SAN FILI: La testa de Sirviuzzu ed il suo giusto cappello.



Foto by Pietro Perri.

La storia che sto per narrarvi (“La testa di Sirviuzzu ed il suo giusto cappello”), opportunamente rielaborata, fa parte dei cosiddetti “racconti del focolare” dei nostri avi.

Vere e proprie perle di saggezza che mostrano l’indiscussa arguzia di chi ci ha preceduto.

Noi, per comodità di narrazione, la collocheremo storicamente verso gli inizi degli anni settanta (1970/1973). I nomi dei personaggi sono ovviamente inventati, i luoghi (incluso la bancarella) sono reali.

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Ormai era deciso, senza un cappello in testa Sirviuzzu non poteva starci più.

Dopotutto un cappello dava anche signorilità, era segno di rispetto e contrassegnava le cosiddette “persone arrivate”.

Non importa fosse un vero e proprio cappello, ossia il copricapo prescelto dai cosiddetti nobili... anche una coppola andava bene, anzi, meglio se una cuoppula. I suoi paesani l'avrebbero sicuramente apprezzato di più (o quanto meno avrebbero riso meno di lui).

I capelli, poi, erano sempre più radi e sempre più grigi sulla sua testa.

C’era un piccolo grande problema, però: in paese non c’era, malgrado non ne mancassero con articoli similari, un negozio in grado di esaudire il suo legittimo desiderio.

E la colpa, manco a dirlo, non era dei commercianti ma di Madre Natura.

Proprio così: una testa come quella di Sirviuzzu, una bella taglia 64 (una vera e propria extralarge) a dirla nella misurazione dei cappelli, era decisamente fuori dal comune e come tale... fuori commercio.

Chiedi e richiedi, un compaesano gli dice che l’unico in grado, forse, di toglierlo dall’impiccio era un venditore di cappelli, a Cosenza, di fianco all’accesso del ponte di Lungo Crati: zu ‘Ntonu, per la precisione.

Presa la corriera, il nostro eroe si reca a Cosenza dal famoso venditore di cappelli: “Per tutte le misure e per tutti i prezzi”, si leggeva su un cartello appeso ad un lato della bancarella.

Zu ‘Ntonu notando Sirviuzzu girare intorno al proprio punto commerciale annusò immediatamente odore d'affare.

Prese tra le mani, da uno scatolino ingiallito dal tempo, quella coppola che da anni ormai non riusciva a vendere... vista la grandezza della stessa, e la porse orgoglioso all’incuriosito potenziale acquirente.

Sirviuzzu, con un piglio d'evidente timidezza, la provò subito: era perfetta, giusto quella che cercava e per giunta della giusta misura.

“Caro Sirviuzzu”, si erano già presentati, gli disse il commerciante, “voglio farti fare un affare. Si tratta di un pezzo unico e come tale non devi spaventarti del prezzo... sette mila lire. Oltretutto... mi dici dove riuscirai a trovare mai una coppola per la tua testa... con, rispettosamente parlando, quelle dimensioni”.

“Sette mila lire?” ... si domandò fra sé e sé il nostro compaesano, “... eppure il prezzo massimo delle altre coppole non supera le tre mila lire”.

Zu ‘Nto, io ti do' pure ragione e per questo ti voglio venire incontro: quattro mila lire e l'affare è fatto. Credimi, qua nessuno è fesso. Dopotutto se io non riuscirò a trovare facilmente una coppola per la mia testa... dubito che tu, pur aspettando altri dieci anni, riuscirai a trovare una testa per la tua cuoppula”.

Zu ‘Ntonu capì che il ragionamento non faceva una grinza e decise di chiudere senza ulteriori tentennamenti, e felicemente per entrambi i contendenti, la trattativa.

Dopotutto anche, ed anche in quel modo, quello era un ottimo affare.

RACCONTI DEL FOCOLARE A SAN FILI: Vorra sapire si la morta è morta o puramente si la morta è viva.


Interno della Chiesa del Ritiro o di santa Maria degli angeli prima del restauro degli anni '80 e prima che gli stupendi pulpiti... sparissero per sempre.

L'autore della foto non è classificato nel mio archivio.

Articolo di Antonio Asta e Pietro Perri.

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Quella che stiamo per raccontarvi è una storia successa tra la fine del XVIII secolo e l'inizio del XIX: vera o falsa non si sa', fatto sta che era uno dei pezzi forti che i nostri nonni raccontavano quando, in assenza del televisore, l'intera famiglia si riuniva attorno al focolare.

In questa storia c'è di tutto: il ricordo di qualche passo dei "Promessi Sposi", del "Decamerone" e persino del "Giulietta e Romeo" di Shakespeare; morti apparenti, amori senza confini, frati poco legati alla loro promessa di castità, la classica dabbenaggine di qualche comparsa e persino il ritornello d'una canzone popolare che ricorda tanto il motivetto de "la ballata da baronessa di Carini".

E' questa una di quelle classiche storie che restavano impresse nella memoria dei bambini dell'era pre-computerana... ed è giusto che venga salvata.

Tanto ma tanto tempo fa, la nostra Chiesa del Ritiro non era il semplice coronamento d'una vita di stenti di tanti Sanfilesi, ma anche e soprattutto una chiesa conventuale di spicco nell'intera provincia cosentina.

Un convento che, a sentir quanto riferiscono le solite malelingue, non solo per un certo periodo fu luogo di rifugio e ristoro per alcuni briganti e reazionari, ma anche e soprattutto per alcuni frati dalla dubbia moralità.

In quanto chiesa, comunque, aveva al suo interno la sua bella cripta che funzionava, come in tutte le altre chiese del paese, anche da fossa comune. La gente, spesso lasciando i propri averi ai religiosi, sperando magari di conquistarsi un posticino al sole nella vita ventura, a secondo del santo o della santa cui si rivolgeva, poteva, di volta in volta, esprimere il desiderio d'essere seppellito in questo o in quell'altro edificio consacrato.

Si dice, qui lo dico e qui lo nego, d'un frate ospite del succitato convento, debitamente ricambiato, pazzamente innamoratosi d'una paesana per giunta coniugata. Un amore (quello profano) a prima vista impossibile, ma... ben si sa che la necessità, anche in casi come questi, può aguzzare l'ingegno.

Detto fatto: uno strano intruglio bevuto dalla donna, la sopraggiunta morte e la promessa fattasi fare precedentemente dal marito d'essere seppellita nella cripta della chiesa di Santa Maria degli Angeli.

Passa qualche tempo ed un compare della sventurata coppia che aveva un pezzo di terra nei pressi della sacra costruzione, scorge da una finestra una donna dalle familiari sembianze intenta a pettinarsi. Poco dopo un frate che le si avvicina, l'abbraccia e la bacia.

Sarà stato il vino di quella mattina a fargli "u spirdu", diversamente tutto ciò non si capirebbe: la comare, infatti, era ben morta e seppellita.

La seconda mattina il fatto si ripete e così anche la terza, tanto che lo sventurato si decide ad andare dal marito della donna a raccontargli l'accaduto... sicuro d'essere preso per pazzo: come si sarebbe potuto mettere in dubbio il funesto evento e la indiscussa moralità dei religiosi?

La quarta mattina a lavorare quel pezzo di terra oltre al compare c'era anche l'inconsolabile vedovo e altri due amici di famiglia: tutta gente per bene, onesta e devota... e anche quella mattina, alla stessa finestra, riecco la familiare figura femminile di nuovo intenta a pettinarsi.

Non c'erano dubbi: la morta... morta non era ma viva e vegeta.

Cosa fare: denunciare il tutto alle forze dell'ordine (col rischio d'essere presi per pazzi), o far finta di niente facendola far franca all'adultera ed al suo amante?

Per il momento era necessario in ogni caso mettere sull'avviso i due lestofanti sul fatto che comunque loro sapevano e che a tempo debito avrebbero messo in chiaro più d'una cosettina.

La sera stessa il "fu vedovo" sempre più inconsolabile con un gruppo di amici, zampogne sulle spalle, si recano nei pressi del convento ed intonano, evidentemente rivolto al frate, il seguente ritornello:

"Vorra' sapire si la morta è morta / o puramente si la morta è viva, / ca ma de dare cuntu de la morta, / ca da finestra tua l'e vista viva".

Sicuri d'aver dato una sonora lezione al frate ed all'adultera mogliettina e messisi le zampogne in spalla, si apprestavano a rientrare all'abitato... se non che, sempre a mo' di ritornello, si sentì una strana voce (maschile) prendere forma dalla finestra incriminata, recitare la seguente strofa:

"Finché su vivu io, la morta è morta. / Quannu su muartu io, la morta è viva".

(Con variante della seconda affermazione "Quannu su muartu io, si vive è viva.").


venerdì 29 aprile 2022

RACCONTI DEL FOCOLARE A SAN FILI: U surd'e Carlucciu.


Foto a sinistra ripresa dal web.

Articolo di Pietro Perri.

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La storia che questa volta ti voglio raccontare, non ha tempi e se li ha... sono tempi d’altri tempi: prima del 1900, certamente. La storia ha titolo "u surd’e Carlucciu": sicario di professione, leggenda per vocazione.

Viveva a San Fili, u surd’e Carlucciu, e, almeno per quei tempi, era certamente una persona, oltre che di buona forchetta, che sapeva rispettare la tavola cui era invitato a presenziare.

Molti, mi ha raccontato mio nonno che a sua volta gli aveva raccontato il padre che a sua volta gli aveva raccontato il nonno, l’invitavano a pranzo o a cena: un boccone, a quei tempi, non si negava a nessuno. Erano, appunto, altri tempi.

Un vero signore, u surd’e Carlucciu, un sanfilese di quelli che in giro non se ne trovano più. Un vero signore e come tale incapace di restare in debito con qualcuno. All’ultimo boccone, infatti, non poteva fare a meno di chiedere al proprio commensale: "Avissiti, per casu, ‘ncunu chi vi vo’ male o chi v’ha fattu ‘ncuna cosa de bruttu? ... ca dumane chissu, nun camina cchiu’!".

... qualcuno, pensando che scherzasse, gli faceva nome e cognome del proprio avversario: il secondo giorno a San Fili c’era nuovo lavoro per il becchino. Una testa era stata troncata di netto ad un nostro compaesano.

Altri, consapevoli di quanto si diceva intorno alla figura de u surd’e Carlucciu, misuravano adeguatamente le parole.

U surd’e Carlucciu, si diceva e si dice ancora, avesse sotto il mantello un’affilatissima piccola accetta (na ‘ccetta scugnata, per la precisione), una destrezza da prestigiatore ed una capacità di gestirla quasi chirurgicamente: gli bastava un solo colpo e la testa del malcapitato sarebbe rotolata per terra.

Anche fra cento persone quasi nessuno si sarebbe accorto di niente. Anche fra cento persone, si sarebbe visto solo la testa cadere da una parte ed il corpo dall’altra... quasi nessuno si sarebbe accorto di niente... quasi.

Una donna, in quel lontano giorno del Signore, se ne accorse ed ebbe la scelleratezza di gridarlo ai quattro venti, mettendo la parola fine ad una storia che avrebbe potuto continuare ancora per diversi anni.

Erano sulla scala della Chiesa Madre, all’uscita della Santa Messa, e quanto tutti guardavano atterriti quel corpo cadere per terra e la testa del malcapitato contare gli scalini della scala stessa, ecco che si sente una donna gridare: "E’ statu u surd’e Carlucciu, l’aju vistu, è statu u surd’e Carlucciu!".

Già i carabinieri avevano agguantato il galantuomo che questi, voltandosi verso la donna, ebbe il tempo di dire con disprezzo: "Maria Gra’, n’aju tagliatu vinti capu, ma ti giuru ca si iasciu vivu da galera... cu ra tua su vint’unu!".

Non mantenne la promessa, ma non per sua colpa... non usci vivo dalla galera (quando vi era entrato aveva ormai oltrepassato la terza, se non la quarta, giovinezza).

Del protagonista di questa stupenda storia, resta ancora nella mente dei nostri anziani il tramandato ricordo di quanto questi disse al giudice nel momento che il giudice lo condannò a vent’anni di galera.

Vent’anni, a lui che ne aveva forse ottanta.

"Signor giudice, senz’offesa, chiri chi puazzu fare e fazzu, chiri chi nun puazzu fare vorrà dire ca e faciti vussuria!"

Non so quanto ci sia di vero e quanto di leggendario in questo racconto, ma... credetemi, non ho potuto fare a meno di riportarlo. Era questo uno dei tanti racconti che i nostri bisnonni, in assenza della televisione, raccontavano ai familiari seduti a cerchio intorno al focolare.

Erano storie... d’altri tempi.


RACCONTI DEL FOCOLARE A SAN FILI: 'Ntontarieddru e ri briganti.



A sinistra: statua di sant'Antonio abate a San Fili.

Foto archivio Francesco Ciccio Cirillo.

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Nel mese di giugno del 2000, un anziano signore della nostra comunità (Antonio Noto?), lontano discendente di un certo "Ntontarieddru", personaggio vissuto a San Fili tra la seconda metà del XVIII e la prima del XIX secolo, mi chiese, di scrivere un articolo su un suo avo.

Il tutto, ovviamente, più per una provocazione verso un certo modo, decisamente poco apprezzabile, di fare da parte degli esperti delle Belle Arti della provincia di Cosenza (non mi dispiacerebbe che mi dimostrassero gli stessi, dati alla mano, quanto mi sbaglio con tale affermazione... ma decisamente era meglio che a San Fili non ci avessero mai messo piede) che per ricordare il simpatico fatticino legato a questo suo avo.

Qual era il problema sorto, in questo caso (perché degli altri casi, vedasi gli interventi operati dalle Belle Arti su diversi edifici religiosi del paese, preferisco tacere) particolare? ... semplice: si era provveduto a restaurare la statua, custodita nell'omonima chiesa, di sant'Antonio abate.

Tutto perfetto, se non fosse per il fatto che dalla stessa sembra, a restauro finito, sia sparita una certa scritta che recitava all'incirca queste parole: "A devozione di Antonio Carpanzano e moglie", ovviamente per un certo scampato pericolo passato dal Carpanzano e di cui diremo nel prosieguo di questo simpatico racconto.

Non me ne vogliano né le Belle Arti né tantomeno il parroco del nostro paese per quanto sto dicendo... non sono qui per fare polemica alcuna con chicchessia, né penso che valga la pena di fare polemica per una semplice annotazione di devozione trascritta sul basamento della statua di un santo, ma il citato anziano signore mi ha detto d'essersi lamentato, invano, con chi di dovere per l'oltraggio subito dalla propria storica memoria familiare.

Purtroppo non posso dare torto neanche a quest'ultimo: se qualcuno mi dice che non è giusto che sulle statue di santi, conservate nelle nostre chiese, compaiano tali scritte... che spariscano tutte le scritte similari (... senza soppesare se siano le stesse più o meno "gentilizie") o che si provveda a ripristinare, senza perdere ulteriore tempo, quella citata in questo pezzo giornalistico (se è già stato fatto, scusatemi ma non ne ero a conoscenza).

Mi sembrava di secondaria importanza questo più o meno simpatico racconto (mi scuso ovviamente con Antonio Noto per averlo sottovalutato) e quindi decisi di archiviarlo in attesa di saperne qualcosa in più in merito. A qualche mese di distanza da ciò, parlando del più e del meno con l'amico Mario Oliva (in effetti mi serviva sapere qualcosa in merito ad una certa versione un po' osé della "Quadara chjina d'oro" che si trova ai piedi "du Canalicchiu") lo stesso mi tira di nuovo in ballo la storia di "Ntontariaddru e i briganti".

"Petru', merita d'esse' pubblicata", furono le sue parole.

La sua versione cambiava leggermente nei confronti della versione riferitami dal Noto... ma il filo conduttore era identico e quindi il tutto meritava d'essere preso in debita considerazione. Il fatto, seppure nelle sue varianti, era veramente successo e faceva parte dei mitici racconti dei nostri nonni seduti intorno al focolare.

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Tanti nomi dati a particolari luoghi del nostro paese (nel centro abitato e fuori dallo stesso) nascono o da particolarità degli stessi (vedasi i casi di "Chiarieddru", "a Rampa", "u Timpune", "Manca", "Destra", "u Canalicchiu" e via dicendo) o dal nome (in assenza del soprannome) del personaggio o della famiglia che è stata proprietaria nei secoli passati del luogo o di qualcosa che si trovava nello stesso (vedasi i casi de "a curv'e su' 'Ndria", "u Curciu 'e Catalanu", "Cucunatu", "u pont'e Picciune, "a curv'e Marrupiatru" ecc.).

A questa seconda schiera fa parte anche una particolare zona delle montagne circostanti il nostro pittoresco paesino: "Ntontarieddru".

Anche se serve a ben poco al fatticino che sto per raccontarvi (ossia al mitico rapimento di questo eccezionale personaggio vissuto a San Fili nel corso del XIX secolo), non guasta rinfrescare la mente dei nostri anziani su alcuni nomi di luoghi che hanno segnato in modo indelebile la loro stessa vita.

Vi dirò, conseguentemente, come si arriva alla zona denominata "Ntontariaddru".

Incamminandoci, da piazza San Giovanni, per la strada che costeggia sulla sinistra il Cinema Teatro comunale di San Fili, dopo qualche centinaia di metri si raggiunge la villa degli emigranti dove spadroneggia imperioso (si fa per dire, in quanto da' più l'impressione d'essere un povero vecchio addormentato, decisamente annoiato nel continuare ad osservare le scelleratezze dei suoi concittadini, che non ciò che per tanti secoli, a memoria dei nostri anziani, ha rappresentato per la nostra comunità) il famosissimo "Curc'e Catalanu".

In altri tempi, ossia fino all'avvento dell'Amministrazione firmata Zuccarelli, v'avrei potuto anche dire di proseguire per quella stupenda discesa che porta al ponte delle "Jumiceddre" (così denominato perché proprio dov'è stata realizzato il ponte stesso si uniscono i due principali corsi d'acqua che alimentano quel torrente che tutti conosciamo col nome di "Jume Emoli"). 

Dico "in altri tempi" poiché oggi, causa una frana che nel suddetto periodo (... senza colpa della succitata Amministrazione, s'intende!) ha distrutto buona parte della stradella che unisce "u Chianu Mulinu" (alias villa degli emigranti, alias "Curc'e Catalanu") con il ponte de "Jumiceddre"... stradella mai ricostruita... in quanto i nostri amministratori (giunta Zuccarelli - 1993/1995, commissariato Sirimarco - 1995/1996, giunta Carbotti - 1996/2000, giunta Bruno 2000/...) erano e sono impegnati, contemporaneamente, in chissà quale altra cosa.

Senza oltrepassare il ponte delle "Jumiceddre", che è uno dei tre ponti in pietra che si trovano lungo il corso del torrente Emoli, ma proseguendo per quella viuzza che si trova alla destra dello stesso, costeggiando "u scarazziaddru" (dal greco antico: luogo dove, opportunamente divise dagli agnelli, venivano e/o vengono rinchiuse le pecore) si arriva alla "Formicùla", si costeggia "u Fuassu du Chiagatu" (celebre perché ci garantisce gran parte dell'acqua, quella buona, che scorre dai rubinetti di casa nostra) e quindi si arriva alla nostra desiata meta: "a terr'e 'Ntontariaddru".

A proposito dei ponti in pietra che si trovano lungo il corso del torrente Emoli: il secondo è quello denominato "Crispini" (che ha resistito per più secoli alle intemperie della natura è alla mano malvagia dell'uomo... ma che non ha avuto la forza di resistere alla scelleratezza di quanti hanno lavorato in questi ultimi anni al fantasioso progetto di recuperare la vecchia centrale idroelettrica di San Fili), mentre il terzo, unico sopravvissuto indenne all'operato disastroso degli interventi pubblici realizzati in questi ultimi vent'anni dai nostri illuminati amministratori... sicuramente perché ancora non sanno neanche che esiste... scusatemi se non vi dico qual è né dov'è... ma preferisco, per il suo bene, che continui a restare segreto.

La terra di "Ntontariaddu" sembra, in base a quanto si tramanda da padre in figlio, ossia per notizie sentite dai nostri anziani, sia stata acquistata con i soldi "fregati" da questo simpatico personaggio, ai briganti che l'avevano rapito e da cui miracolosamente era riuscito a scappare.

Una storia, quella, del rapimento di "Ntontariaddru" e del tesoro dei briganti di cui lo stesso è venuto in possesso, che, malgrado alcune varianti, viene raccontata da più di uno dei nostri anziani. Anche questa fa parte integrante degli ormai famosi "racconti del focolare".
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A sinistra: facciata principale e sagrato della chiesa di sant'Antonio abate di San Fili.
Foto by Pietro Perri.

Siamo intorno alla fine del XVIII secolo. Le montagne intorno a San Fili erano stracolme di briganti della peggior specie e ciò le rendeva decisamente pericolose per la brava gente che, per mille ed uno motivi, era costretta ad avventurarvisi.

A quei tempi era necessario attraversarle sia per andare da un paese all'altro a trovare questo o quell'altro parente, sia perché le nostre montagne per tante famiglie significavano l'unico mezzo di sostentamento di vita che loro avevano a disposizione, sia per gli scambi commerciali che intercorrevano tra le varie comunità al di qua e al di là delle montagne stesse.

I briganti (... mi piacerebbe sapere se a tutt'oggi ci sono discendenti di questa brava gente nella nostra comunità... sapendolo, si riuscirebbe a capire meglio il comportamento degli stessi... in quanto buon sangue e difficile che menta!), consapevoli che da ognuno si potesse ricavare qualcosa, a quanti riuscivano a far cadere nella loro trappola o li spogliavano di quanto avevano in quel momento addosso, o li costringevano a promettere complicità alle loro bieche azioni (rifornimento viveri, informazioni varie ecc.) o, se erano a conoscenza che gli stessi erano detentori della benché minima proprietà, li rapivano e chiedevano un giusto riscatto ai familiari.

'Ntontariaddru (Carpanzano Antonio secondo il racconto di Antonio Noto), piccolo proprietario sanfilese, cadde in una imboscata tesagli dai briganti... più o meno nella zona detta "a Vuccaglia", un tempo coltivata e quindi fruttuosa. Da tale zona si può facilmente raggiungere Marano.

I briganti fecero arrivare ai familiari di 'Ntontariaddru le loro richieste di riscatto. Nel frattempo, ritenendo le montagne circostanti San Fili alquanto pericolose per gestire le trattative, cedettero, e quindi trasferirono, il proprio ostaggio ad una banda consorella che operava nella Sila.

Ai piedi della Sila, di fatti, si sarebbero dovuti successivamente incontrare i briganti con gli emissari della famiglia di Ntontariaddru per fare lo scambio tra il riscatto pattuito e il rapito. A portare il riscatto ai rapitori si era recato lo stesso padre di Antonio.

Volle la sorte che 'Ntontariaddru riuscì non solo a scappare, per un caso che a sentirla raccontare ad un altro anziano del paese (il mitico Mario Oliva) ha in sé del miracoloso, ai propri rapitori ma anche e soprattutto a fregar loro parte dei bottini di precedenti rapimenti.

Quella sera infatti gli uomini rimasti a guardia del rapito e del rifugio si dettero alla pazza gioia e quindi caddero facile preda di un sonno profondo... non senza però aver prima ubriacato per bene l'ostaggio (o così per lo meno credevano... si vede che non conoscevano bene i sanfilesi), avergli legato le mani dietro la schiena, i piedi e, come se ciò non bastasse, aver collegato una corda tra i piedi del rapito ed una loro mano (di modo che se si muoveva, comunque li avrebbe svegliati).

'Ntontariaddru, che nei giorni di permanenza nel rifugio aveva avuto modo di vedere dove i rapitori nascondessero le proprie ricchezze, in tale situazione, dava l'impressione d'essere veramente un salame.

Miracolosamente, dicevamo, slegatosi, senza farne accorgere ai rapitori di guardia, riuscì a scappare portandosi dietro una cospicua parte del tesoro dei briganti. Nella sua fuga ebbe tra l'altro la fortuna d'imbattersi nel padre che proprio quel giorno stava portando il riscatto ai banditi nel luogo dagli stessi convenuto.

Più veloce del vento fu il loro dietrofront col rientro a San Fili a riabbracciare i propri cari.

Secondo tali racconti (quelli di Mario Oliva e Antonio Noto), il nostro 'Ntontariaddru con quanto era riuscito ad arraffare nel covo dei briganti, comprò alcune proprietà in montagna che ancora oggi vengono indicate col nomignolo di questo scaltro personaggio, ovvero "u fuassu 'e 'Ntontariaddru".

Secondo Antonio Noto (storia, mi prega di sottolinearlo, raccontata da padre in figlio) con parte del bottino venne realizzata, a ringraziamento dello scampato pericolo, la statua di Sant'Antonio Abate che si trova custodita nell'omonima chiesetta del paese.

giovedì 28 aprile 2022

RACCONTI DEL FOCOLARE A SAN FILI: Finuzz'e sc-kutu e la tassa sul celibato.



Foto a sinistra ripresa dal web.

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Ogni paese ha la sua famiglia caratteristica... in ogni tempo. A San Fili fino alla prima metà del ventesimo secolo c'era ad esempio (ovviamente senza nessun merito togliere agli altri sanfilesi dell'epoca), quella degli Scuti... a sentirla dire a tanti: un soprannome, una garanzia.

Abitavano su corso XX Settembre nei pressi di piazza Rinacchio. Quella famiglia da tempo ha lasciato San Fili... ma a San Fili di "Scuti" continuano a circolarne tantissimi.

La loro vita era fatta di cose semplici e dalla loro ingenua perspicacia avvolte scaturivano vere e proprie gocce di reale e tangibile sapienza.

Il seguente racconto, ad esempio, parla di una ipotetica udienza che Pietro (il capofamiglia) ottiene dall'allora Prefetto di Cosenza.

Il motivo: l'oggettività delle tasse che non sempre tengono conto delle realtà soggettive del contribuente. Il contribuente, secondo i legislatori, devono pagare al di là se la legge (tassa o imposta) sia più o meno giusta.

I figli di Pietro (ovviamente non ho riportato il cognome) non trovavano moglie per diversi motivi, non ultimi la posizione economica (non certo brillante), l'arguzia (peggio della posizione economica) e la bellezza (meglio non parlarne).

Fatta questa premessa, era giusto che dovessero pagare la tassa sul celibato considerato che non era colpa loro se non potevano sposarsi?

La legge è legge... ma per chi?

L'ignorante, (ovvero il comune contribuente), infatti, non essendo a conoscenza delle mille ed una scappatoia che possono far diminuire in mille ed un caso l'imposizione contributiva, può solo pensare che la legge sia sbagliata... può solo pensare che rivolgendosi a qualche autorità, dalla stessa può avere giustizia in merito... anche se, purtroppo, non sa che la legge l'ha fatta proprio l'autorità.

 

- Eccellenza...

- Dimmi Santu'!

- Eccellenza, scusasse...

- Santu' che è ora di pranzo, na cosa de juornu, facimma 'mpressa.

- ... c'è di la quel tizio, Pietro Tal dei Tali, quello che aspetta da stamattina coi suoi figli per parlare con vossignoria d'una faccenda che gli sta a cuore.

- Faccenda seria o cazzata, Santu'?

- ... la seconda, eccellenza, ma se non lo ricevete quello per un mese ve lo ritroverete sicuramente davanti alla porta: ha proprio la faccia del romp...

- ... glioni, ho capito, fate passare e speriamo che sia una cosa sbrigativa.

 

Santuzzo esce dalla stanza del Prefetto e, parlando con Pietro, gli dice di non far perdere troppo tempo a sua eccellenza, di esporgli subito il caso e quindi, senza farlo innervosire più di tanto, di riprendere la via dell'uscita. Quindi introduce i sanfilesi nella stanza del Prefetto.

 

- L'usciere mi diceva che avete un grave problema da presentarmi, vero?

- Giustappunto Vossignoria!

- ... allora parlate senza farmi perdere ulteriore tempo, che ve ne ho già dedicato abbastanza.

- Eccellenza... è per la tassa sul celibato...

- Cos'ha la tassa sul celibato che non va

- ... per la tassa sul celibato e per i miei figli. Eccellenza, sono del parere che non è giusto fargliela pagare.

- Non è giusto? ... hanno forse meno di 25 anni o più di 65 anni? ... sono sposati e qualcuno s'è dimenticato di registrare il loro atto di nozze? ... dite, signor Pietro e provvederemo immediatamente a richiamare i responsabili dell'equivoco... anche se io ho ben altro da fare che perdermi in simili quisquiglie.

- ... no, Eccellenza. Il problema non è questo. I miei figli infatti sono tutti in età da matrimonio e nessuno di loro è sposato.

- Che si sposino allora, disse il Prefetto, la legge è legge e come tale va rispettata... e vedrete che nessuno farà più pagare loro la tassa sul celibato. Non riesco a capire come vi abbiano fatto arrivare a me con una stupidità del genere sulla lingua. Ma che credete, che qui siamo dei pagliacci al servizio di zotici come voi?

- Eccellenza, lei ha ragione... ma il fatto e che io ho cercato in mille modi di far sposare i miei figli e senza alcuna possibilità in merito. Non una donna neanche, e purtroppo non ce l'abbiamo di certo, a pagarle a peso d'oro. Dopotutto li vede anche lei... proprio per questo li ho portati con me stamattina. Cche... forse... Eccellenza... ha lei tre figliole da dar loro in moglie che combiniamo seduta stante?

 

Effettivamente lo spettacolo che offrivano i figli del sanfilese Pietro Tal dei Tali non era dei migliori... e Finuzzu (più di nome che di fatto) n'era certamente il portavoce.

 

- Signor Pietro, esca immediatamente dalla stanza e non si faccia vedere davanti a me per tutto il resto della miserevole vita.

 

Furono le ultime parole del Prefetto alla conclusione dell'udienza.

Qualcuno racconta però che una decina di giorni dopo fu recapitata al nostro compaesano una missiva del Prefetto di Cosenza con la quale si esoneravano i figli di Pietro Tal dei Tali di San Fili dal pagamento della tassa sul celibato.

Sarà stato vero? ... chi lo sa! ... comunque il fatto meritava di essere raccontato.

La famiglia degli Scuti a San Fili è esistita davvero... e tante su di loro ancora se ne raccontano oralmente... e chissà che qualcun'altra non ve la racconterò quanto prima anch'io.

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La "tassa sul celibato degli uomini" è una invenzione del regime fascista datata 13 febbraio 1927. Dovevano pagarla quanti, tra i 25 ed i 65 anni di età, ancora non pensavano al matrimonio. Il gettito della stessa serviva a finanziare l'Omni (Opera Maternità e Infanzia).

Teoricamente serviva a far "aumentare" la popolazione italiana (in quanto si presuppone che se due si sposano... sposandosi fanno anche determinate cose)... e teoricamente doveva cadere (in quanto legge stupida) con la caduta del regime.

Così non fu: la "tassa sul celibato degli uomini" cambia il nome in "detrazione d'imposta per il coniuge a carico" (concetto tuttora esistente... e nessuno pensi che qualcuno lo cambi in futuro). Con tale sotterfugio se ai tempi della Buonanima tale "imposta" (all'epoca riassumibile nella frase "se non ti sposi paghi", oggi riassumibile nella frase "se ti sposi forse non paghi"), ai nostri giorni la pagano non solo gli uomini in una età compresa tra i 25 e i 65 anni (con redditi superiori al minimo vitale) non sposati... ma anche gli uomini sposati se superano un certo reddito (da quando sono nati fino a quando il Padreterno se li chiama in cielo)... oltre a tutte le donne che si trovano nelle stesse condizioni degli uomini tassabili.

La democrazia? ... veramente un bell'affare (per chi gestisce lo Stato)!

RACCONTI DEL FOCOLARE A SAN FILI: Michel'e Saraca.

 

Contadini sanfilesi (anno 1915 circa).

Foto De Franco - Archivio Francesco Ciccio Cirillo.

Articolo realizzato in collaborazione tra Antonio Asta e Pietro Perri.

Avendo ampiamente parlato delle "cantine di San Fili" è giusto dedicare un capitolo, seppur breve, ai "grandi bevitori" o famosi frequentatori delle "cantine di San Fili". Tutto ciò, giustamente, senza offendere né gli interessati né tantomeno i discendenti di questi.

Come è possibile ottenere un tale risultato? ... semplicemente mettendo in rilievo non solo il fatto che una volta "bere del buon vino" più che un vizio era una necessità (agli inizi del secolo l'economia del nostro paese era prettamente agricola e nel lavoro della terra di calorie se ne consumano tantissime e, vista la povertà imperante, metodi per metterne in corpo, di calorie, ve n'erano veramente pochi) ed in tale necessità con argute risposte, con perspicaci riflessioni e in virtù delle sacrosante norme del reciproco rispetto... emergeva anche dal sommerso culturale (la dabbenaggine dei protagonisti delle nostre storie) un'immensa, sana ed insostituibile, sapienza popolare.

Detto ciò, non ce ne vogliano a male i discendenti di "Michele 'e Saraca" (Lio), ma ci siano riconoscenti per aver salvato questa "scena" del loro glorioso passato. Non ce ne vogliano se riportiamo un simpatico racconto di cui è stato protagonista (agli inizi del 1900) questo loro altrettanto simpatico ed impareggiabile avo.

*   *   *

Siamo intorno al 1900 e il barone in carica della casata dei Miceli, fatta abbattere qualche mese prima una secolare quercia all'interno dell'omonima villa di sua proprietà ai confini tra Rende e San Fili, contemplando i grossi ceppi (muzzuni) stagionati che n'erano scaturiti... non poteva fare a meno di pensare a quanto gli stessi gli sarebbero stati comodi, per la brutta stagione che ormai pressava all'uscio, nei vari caminetti delle sue abitazioni.

Inutile dire che il legno di quercia, per giunta stagionato, e alquanto duro da lavorare e come tale difficile da spaccare se non si ha una buona dose di muscoli e tecnica a disposizione. Agli inizi del '900, tra l'altro, si era ancora ben lontani dagli anni in cui verranno brevettati utensili quali motosega e affini).

Non trovando tra i suoi coloni (villici?) gente in grado di portare a termine tale lavoro (spaccare i summenzionati ceppi), chiese al suo fattore "zu Franciscu" d'individuare tra i suoi conoscenti qualche soggetto idoneo a fare ciò: il tutto a prezzo stabilito!

L'oculata scelta di "zu Franciscu" cadde su un certo Michele Lio detto anche "Saraca".

Erano le tre di notte del giorno successivo quando Michele, armato di una spaventosa scure (accetta) giungerà sul posto dove erano riposti i ceppi di quercia. Una spaventosa scure che, sembra, tanto era grossa e poco maneggevole, solo lui, o ben pochi, erano in grado di maneggiare nel circondario.

Ancora oggi qualche nostro anziano sanfilese nell'osservare qualche scure d'una certa stazza, non può fare a meno di citare l'ancor più proverbiale "'ccett'e Saraca"!

Non crei meraviglia l'ora in cui il Michele si recò a Villa Miceli... per quei tempi era cosa più che normale e comune a più d'una persona recarsi a certe ore sul luogo di lavoro (o quantomeno intraprenderne il viaggio)... si era ben lontani, all'epoca, dal peso che oggi devono sopportare i pubblici dipendenti costretti da un regime malsano, inumano e dittatoriale a presentarsi alle otto in ufficio.

Ritornando alla nostra storia, alle sette di mattina i "muzzuni" (che non erano certo quattro o cinque) erano tutti ben spaccati e la legna ottenutane debitamente accatastata. Poche ore e poche alzate di mano per iniziare e portare a termine da solo un lavoro dove sarebbero state necessarie una decina di braccia.

Dal canto suo Michele, con a fianco la sua mitica scure, seduto per terra con le spalle poggiate al suo lavoro, stava masticandosi in dolce e fresca tranquillità una manciata d'ottimo tabacco.

Così lo trovò, non molto tempo dopo, il barone Miceli giunto sul posto col suo calesse.

Il barone, meravigliato di quanto si mostrava ai suoi occhi, sforzandosi di far finta di niente, pagò il pattuito al nostro laborioso e simpatico personaggio regalando allo stesso, a mo' di riconoscenza (considerato quanto aveva risparmiato limitandosi a chiamare un solo insostituibile lavorante al posto di cinque o sei inutili braccianti), tra l'altro "nu pane casarulu 'e farina jianca, nu vuhjiu e na pezz'e casu".

Cosa certamente più apprezzata da Michele Saraca fu però l'autorizzazione che gli dette il barone ad andare alla cantina che i Miceli avevano al paese (ossia "a Grutt'e Chiarieddru") e dire al cantiniere di fargli bere alla sua salute quanto vino gli andasse in corpo... a pagare ci avrebbe pensato poi il nobiluomo.

"Baru'!", disse il Michele con voce scaltra ma servile, "... no ppe minde 'ndubbiu a parola 'e Vussuria, ma vui pensati veramente ca l'oste poni cride a chiru chi mi dicit'e cce riferire? ... mu facissiti, ppe riguardu, nu bigliettuzzu de cce cunsegnare a chiru siarvu vuastru?".

Avuto quanto richiesto al barone, Michel'e Saraca gettatasi sulla spalla la sua grossa ascia, assieme alla bisaccia dove aveva riposto il ben di Dio che gli era stato regalato, quatto quatto prese la via del ritorno al paese. La sua agognata meta, inutile dirlo, era esattamente la fornitissima cantina dei Miceli.

Non gli ci volle certo molto al nostro personaggio per raggiungere e varcare l'entrata "da Grutt'e Chiarieddru" (stiamo parlando di un uomo d'oltre due metri e con una corporatura da far paura anche ad un toro inferocito). Preso posto ad un tavolo in un angoletto, tolto dalla bisaccia il pane assieme al formaggio, fece segno all'oste d'avvicinarsi mostrando nel contempo allo stesso il biglietto autografo del barone.

Pochi minuti dopo l'oste, rispettando la media e non solo tirando le parti del padrone, posò sul tavolo dell'avventore "na cannata (circa due litri) curma curma 'e vinu", dicendogli: "Vìveti chissu e pue vatinne buanu buanu ara casa!".

Il Saraca prende il fatto a mo' di offesa personale: due soli litri di vino? ... eppure il barone aveva detto, senza giri di parole, "quanto vino gli andasse in corpo"? ... il barone l'aveva messo pure per iscritto tutto ciò e la parola del barone non poteva certo essere messa in discussione.

Due soli litri di vino, dopotutto, a Michel'e Saraca sarebbero bastati appena a inumidirgli la gola.

Bloccato il cantiniere per una mano, dirà allo stesso: "Compa'... va inchjia subitu u cannatune...", (un recipiente di circa una decina di litri), "... buanu buanu. Ppe piacire nun mi fa 'ncavulare, si'nno, a vi sa 'ccetta? ... ti fazzu a dui curmi cumu i muzzuni c'ajiu spaccatu stamatina 'nta proprietà du barune!!!".

*   *   *

"U cannatune" fu svuotato senza grossi sforzi, quel giorno stesso, dal nostro Michele. Dite che esageriamo? ... dite che non è possibile che un uomo, seppur di due metri e di dura corazza, possa bere da solo e in poche ore una decina di litri di vino? ... e se vi raccontassimo allora di quando Michel'e Saraca trangugiò nel men che non si dica "nu mianzu varrile 'e mustu" (circa 15 litri)?

Anche questo faceva parte, e lo diciamo con fierezza, dei racconti del focolare dei nostri nonni.

mercoledì 27 aprile 2022

RACCONTI DEL FOCOLARE A SAN FILI: Carminuzzu e l'uarsu.



La mitica lotta tra l'uarsu ammaestratu e Carminuzz'e Voe.

Racconto a due mani realizzato tra gli amici Mario Oliva e Pietro Perri.

(foto presa dal web).

"Tere', ca mo ti fazzu ride!", riesco a vedere la scena di mio nonno Francesco quando la sera, rientrato a casa e preso posto a tavola, raccontava alla nonna quel che era successo nella giornata.

Il fatto era un classico di quei tempi, tempi in cui la TV era ben lungi dall'essere concepita, ed il cinema iniziava a muovere i suoi primi maldestri passi. Tempi in cui pochi eletti in città potevano permettersi una serata a teatro e gli spettacoli per la gente di strada erano legati a girovaghi che s'inventavano mille ed uno espedienti per sbarcare il lunario.

Correva l'anno 1899... o forse era il 1901? ... un anno, in ogni modo, non si sa dove, comunque correva!

Cantastorie, funamboli, fenomeni da baraccone che non avevano trovato posto in qualche circo o che dallo stesso erano stati scacciati per chissà qual motivo. Girovaghi di professione e forse anche per vocazione, spesso da soli, spesso accompagnati da qualche strano animale ammaestrato.

Il fondo stradale del corso principale di San Fili (nato unico per restare unico nei secoli dei secoli) quando non era di semplici ciottoli, presentava un selciato in pietra di fiume (ancora visibile in alcuni punti che di tanto in tanto, grazie all'inefficienza dei nostri amministratori, fanno l'occhiolino dall'infernale catrame che ricopre il tutto... anche le nostre coscienze).

Qualche carrozza, qualche calesse, la confusione tipica dei giorni festivi o dei giorni di mercato che caratterizzano i nostri paesini.

Piazza Municipio ("mmianzu u Puantu"): era difficile scorgere, per chi stava dietro, cosa accadesse all'interno del nutrito cerchio di persone che facevano stranamente ruota intorno a qualcosa o a qualcuno. Doveva però essere interessante, tanto interessante se aveva richiamato una tale attenzione.

"E' n'uarsu... cchi bestia!!!", "... ma quantu po' pisa'? ... tu dici ch'è forte?", "... forse ti spacca puru u tufu de na porta!".

Il girovago nel frattempo faceva fare al suo animale tutta una serie di esercizi che riempivano di meraviglia i presenti. "Piegati! ... alza un piede! ... fai un salto! ... fanne un altro! ... balla! ... inchinati al pubblico", comandi prontamente eseguiti dal docile, seppur spaventoso, animale.

Un gigante d'animale che faceva e avrebbe fatto paura a tutti, tranne che ad alcuni sanfilesi dell'epoca, semplici cittadini o campioni della comunità che fossero... e di campioni a San Fili ce n'erano veramente tanti.

"A questo punto, signore e signori...", breve pausa (anche ciò faceva parte dello spettacolo), "... a chiunque riuscirà a far cadere per terra l'animale con la sola forza delle proprie braccia, darò in premio il corrispettivo di dieci giornate di lavoro. Provate, signori, misurate la vostra forza con la forza di questo colosso della natura!".

L'orso aveva attorno al collo un collare collegato ad una catena il cui capo libero era tenuto in mano dal padrone, nell'altra mano, sempre pronto ad intervenire, un frustino nei confronti del quale l'orso mostrava d'avere una certa soggezione.

Aspetta qualche istante e poi riprende: "Signori! ... è possibile che in questo paese non ci sia nessuno che abbia il coraggio d'affrontare l'orso? ... eppure non mi sembra che stiate così male in carne? ... forse la posta è troppo bassa o pur avendo tanti muscoli intorno alle ossa vi manca un po' di fegato nella cassa toracica?".

L'offesa era partita, i sanfilesi si guardarono l'un l'altro in mezzo agli occhi e tutti insieme rivolsero contemporaneamente e con lo stesso pensiero lo sguardo verso Carmine Cesario (alias Carminuzzu 'e Voe), uomo che, quasi al pari dell'animale, data la prestanza fisica e la nota massa muscolare poteva benissimo accettare la sfida senza in ogni modo sfigurare lui o far sfigurare il paese.

"Carminu', tu ci 'a po' fare!", "Carminu', dai da'... ca sinno' un si cchiu' tu!", "Carminu' un ce pensare supra, ca pue l'uarsu è pur sempre na povera bestia!".

Fatto sta che Carminuzzu 'e Voe accetterà (forse nutrendo qualche dubbio sulla riuscita dell'impresa o forse arcisicuro di se stesso) l'invito dei propri compaesani... e poi, il corrispettivo di dieci giornate di lavoro erano comunque un bel gruzzoletto.

E' vero che un orso è pur sempre un orso, ma quelle mani callose finora ne avevano fatte cento e una riuscendo persino a sradicare alberi o a spostare macigni senza grossi sforzi.

"E vabbuanu, alluntanativi tutti: acciattu! ... ca uaminu o bestia chi fuassi, ancora adde nasce chine jietta 'nterra a Carminuzzu Cesariu!".

In ogni caso, di come andò a finire la lotta tra Carminuzzu 'e Voe e "l'uarsu ammaestratu", non abbiatecela a male, ve lo racconterò sul prossimo numero.

"Gianni', fuje ara Cozzajoria e v'avverte a Franciscu, u chenatu 'e Carminuzzu, e diceccelu ca Carminuzzu sta lottannu ccu n'uarsu... diceccelu c'a 'dde veni' subitu 'cca!", disse uno spettarore della mitica lotta ad un bambino che gli stava affianco.

E il bambino, veloce come il vento, s'avvio verso Cozzo di Jorio a fare quel che gli era stato ordinato.

Nel frattempo in piazza Municipio ("Mmianz'u Puantu") il girovago aveva già posizionato adeguatamente i protagonisti della storica giornata: l'uarsu ammaestratu e Carminuzzu 'e Voe.

Le zampe anteriori dell'orso poggiavano salde sulle spalle di Carminuzzu così come salde aderivano le grosse mani di Carminuzzu al di sotto delle braccia dell'animale. Carminuzzu già si vedeva consegnare il premio pattuito se fosse riuscito a far cadere a terra la bestia: il corrispettivo di dieci giornate di lavoro.

"Forza Carminuzzu!", "Dai Carminu', facce vide chine si'!". La lotta ebbe inizio, dietro il via del girovago e nel fragore dell'incitamento generale.

Carminuzzu iniziava a diventare rosso, cercando invano di far cadere l'orso a terra... eppure l'impresa non sembrava per niente difficile... Dio, com'era forte quell'animale!

Carminuzzu pur strapazzato resisteva eroicamente.

La lotta continuò finché l'orso, stanco di quello stupido gioco (o forse a qualche strano cenno fatto dal padrone) non decise di porre fine al tutto premendo ulteriormente con le zampe sulle spalle di Carminuzzu 'e Voe che cadde ginocchioni a terra.

... e via giù fischi ai danni del malcapitato, nel momento in cui il girovago non decretò finita la lotta con l'indiscutibile vittoria dell'orso ammaestrato.

Carminuzzu s'alzo e, pieno di vergogna (lui che era il più forte della comunità, vinto in così banale modo e per giunta d'un animale) se la dette a gambe verso casa. Giunto nei pressi della chiesetta del Carmine, s'imbatte nel cognato Francesco (accaldato per la corsa): "Carminu', che successu? ... cum'è finità a lotta?".

"U'mmi dire nente, Franci'...", disse Carminuzzu, "...ca m'ani fattu fare veramente na brutta figura: m'ani misu e vranche supra e spaddre e si nun c'era a sialica mmianzu a strada mi 'mbizzava 'nterra cumu nu chiantaturu!".

"Ha vintu l'uarsu? ... un ti preoccupa ca mo' vaju iu e ti viandicu! ... un ti preoccupa', ca mo' vaju io e ru fazzu piazzi piazzi!", rispose il cognato convinto di sè e della propria superiorità.

"Ferma cca, Franci', addruve va'!", chiuse il discorso Carminuzzu indicando un lato del palazzo Gentile attaccato alla chiesetta, "Franci': minteti a su spiculu de muru, appoggiaticce cu na spaddra e ammutta! ... si si move u palazzu vacce puru cu mini all'uarsu! ... sinno' nun ce jire, ca piardi tiampu e fa na figur'e fissa!".

Detto ciò, Franciscu e Carminuzzu se ne ritornarono buoni buoni a casa, mentre il girovago, contento del gradimento ottenuto dallo spettacolo offerto ai Sanfilesi, s'apprestava a passare il cappello per raccogliere qualche obolo tra i presenti.

Dovere di cronaca: il fatterello è stato in parte (e doverosamente) romanzato. Vere, nella memoria storica, sono le figure di Carminuzzu 'e Voe, dell'orso ammaestrato e del girovago così come veri sono (sempre nei limiti della memoria popolare) i luoghi, il fatto e le frasi riportare. In parte inventata è la figura del bambino e di Franciscu (il cognato di Carminuzzu) in quanto nella storiella si parla di un qualcuno (e non espressamente di un bambino) che va a chiamare un signore (parente o semplice amico) di Carminuzzu (e non di un cognato). Carminuzzu, c'è da dire inoltre, di professione faceva "u piacuraru curatulu" (dove "curatulu" sta per "colui che cura e confeziona i latticini nelle cascine").

In ogni modo era uno di quei fatterelli che veramente si raccontavano intorno al focolare tra i nostri avi a San Fili... ed io ringrazio vivamente Mario Oliva che me l'ha raccontato e mi ha permesso, quindi, di riportarlo e porlo alla vostra gentile attenzione.


martedì 26 aprile 2022

LEGGENDE SANFILESI: U monachieddhru.



U monachieddhru.

Immagine a sinistra ripresa dal web.


Streghe, stregoni, magare, spirdi, fantasmi, mommaruti, esseri sovrannaturali in buona parte decisamente malefici e, perché no?, tra i tanti persino (tremate, gente, tremate)… u monachieddhru.

Si, proprio così, perché a San Fili in altri tempi (tempi in cui si credeva in certe cose e per il fatto di crederci queste cose finivano per prendere vita) si aggirava indisturbato (ma decisamente “disturbante”) persino… u monachieddhru.

Dicono, di quest’essere buffo e dispettoso, che oltre che comparire e scomparire nelle case di tantissimi nostri compaesani, amava anche fare le sue (decisamente rare però) plateali apparizioni in alcune zone del nostro centro storico. Tra queste zone c’era anche via San Vincenzo Ferreri (per quanto riguarda la salita verso via Manca).

Ma chi è… u monachieddhru?

U monachieddhru è un folletto pazzerello, guarda caso vestito da… monaco (situazione che di fatto ne giustifica il nome), che si diverte a fare dispetti ai bambini e non solo ai bambini (facendo sparire piccoli oggetti o facendo strani rumori, versi o imitando la voce di persone, lontane e spesso anche defunte, a noi care).

Guai ad incavolarsi con u monachieddhru. Dicono che si offende facilmente e che sia alquanto vendicativo.

Hai perso un mazzo di chiavi? … non arrabbiarti più di tanto ma chiedi, gentilmente, a ru monachieddhru di fartele ritrovare. Miracolo: li hai davanti agli occhi o in tasca.

U monachieddhru in ogni caso si discosta dalle altre entità sovrannaturali che abitarono (chissà che fine hanno fatto in questi ultimi decenni) San Fili in quando non sempre è catalogabile tra le presenze malefiche. u monachieddhru infatti non raramente viene considerato come un nume tutelare della casa e quindi, se lo si sa prendere per il verso giusto, ne diventa una presenza… benvenuta.

Secondo la tradizione, infatti, u monachieddhru trae la propria origine da alcuni angeli rimasti sospesi (chissà per quale motivo) tra il cielo e la terra e quindi non legati alle forze del male.
Poiché è in grado di predire il futuro e di portare buone notizie a chi ha la fortuna/sfortuna d’imbattersi in lui è detto anche… augurieddhru.

*     *     *

U monachieddhru? ... che stupendo personaggio!

Reale? … di fantasia? … chissà! … e poi, chi ci dice, in quest’assurdità di mondo in cui viviamo (un mondo dove regolarmente s’intersecano dimensioni temporali diverse), quando cessa di esistere la storia fantastica e quando prende il sopravvento la cruda realtà?

Oggi persino i gestori delle più grandi religioni (di per sé legate al mondo del sovrannaturale, ovvero dello stesso mondo di cui fanno gli spirdi, i demoni, le streghe e gli stregoni - le magare no, quelle, specie a San Fili, li salutiamo tutti i giorni e quindi siamo certi che fanno parte del mondo reale) affrontano quotidianamente grosse difficoltà nel cercare di fare nuovi accoliti e/o di mantenersi stretti quelli che già hanno.

Una volta, tanto e tanto tempo fa, ai tempi dell’antica Roma o della Magna Grecia ma anche, nel Meridione d’Italia, fino alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso) il discorso era diverso: c’era posto per tutto e per tutti, anche per ciò che non esisteva ma che necessitava d’essere creato… per il bene (o il male?) dell’intera umanità.

A chi scrive piace pensare che esista una seconda dimensione (… e/o, perché no?, una terza, una quarta, una quinta… magari persino quella in cui vive il maghetto Harry Potter!) che di tanto in tanto interagisce con la nostra dimensione lasciando prigionieri dell’una e dell’altra dimensione esseri facenti parte della prima o della seconda e viceversa.

Dopotutto come si può credere in un Essere Superiore senza credere ad un presupposto di più dimensioni? … e non credere a ciò significa uccidere, annullare… persino gli dei.

Gli dei della Grecia o di Roma hanno cessato di vivere quando, con l’avvento (non certo indolore) del cristianesimo, la gente ha cessato (o ha pensato d’aver cessato) di credere in loro. Si dice, tra l’altro, che quando Cristo dopo il terzo giorno tornò in vita... si udì per il mondo conosciuto una voce spettrale gridare ai quattro venti: “Il grande dio Pan”, il nostro amato dio dei boschi, della saggezza e della felicità, “è morto!” (“Pan ho megas tethneke” ).

*     *     *

U monachieddhru? ... che stupenda creatura.

Sarebbe bello venire a sapere come e quando i nostri avi si sono imbattuti in questo stupendo personaggio e chissà se si siano mai posti la domanda se sia u monachieddhru ad essere frutto della loro fantasia o loro frutto della fantasia di quest’ultimo.

Chi scrive non ha avuto incontri ravvicinati con u monachieddru (io, infatti, appartengo al periodo in cui a farla da padrone nei vicoli del centro abitato di San Fili o lungo il suo terrificante perimetro era la Fantastica, qualche magara, qualche strega propriamente detta e qualche spirdu di passaggio) malgrado con tanti esseri sovrannaturali da piccolo ha piacevolmente (o orribilmente) convissuto.

Eppure anche lui, u monachieddhru, era conosciutissimo, nei bei tempi che furono, nella Comunità Sanfilese.

Nei miei ricordi non era semplicemente il mattacchione che si divertiva a nascondere oggetti o a metterli fuori posto magari sul pavimento in punti in cui avresti potuto facilmente inciamparci... lasciandolo sbiascicarsi dalle risate per lo scherzo, simpatico per lui, riuscito.

Nei miei ricordi, ovviamente di quando ero ancora un lattante (siamo nei lontani anni Sessanta del XX secolo), u monachieddhru era quell’essere insopportabile che veniva, nel corso della notte, a disturbare il tuo innocente sonno: avevi un peso sulla pancia e sul petto... ti mancava il respiro... aprivi gli  occhi tutto sudato ed affannato e... chi ti ritrovavi seduto sul tuo pancino, con le mani sul tuo petto e che ti guardava sghignazzante dritto dritto negli occhi... con i suoi occhi orrendamente spalancati? ... proprio lui: u monachieddhru!

All’epoca, inutile dirlo, in casa mia non c’erano scorte di “Dolce Euchessina” (n.d’a.: medicinale che negli anni Sessanta e Settanta veniva pubblicizzato come un toccasana anche per l’uso sui bambini con problemi di digestione... o pesantezza - a causa de “... u monachieddru?” di stomaco) e quindi non raramente u monachieddhru - nelle lunghe e buie notti in quel casolare di campagna alle Volette - la faceva da padrone.

Fu in quel tempo che chiesi a mia madre chi era e cosa faceva u monachieddhru e lei detentrice dell’antico sapere in casa nostra, nella sua proverbiale pazienza, mi erudì in merito a questa simpatica... magica presenza “casalinga”: sui suoi pregi e sui suoi difetti... sulle sue straordinarie potenzialità.

Mia madre mi disse che questo era un essere terribilmente dispettoso ma comunque un buon giocherellone. Quindi non cattivo se non lo si faceva incavolare più di tanto. Un essere con cui si poteva benissimo... coabitare.

Dopotutto se u monachieddhru si rende conto che la famiglia che lo ospita si trova in grosse difficoltà ce la mette tutta per aiutarla. Dandole anche qualche insperato aiutino economico: u monachieddhru è riconoscente dei piccoli accorgimenti che si usano nei suoi confronti (tipo lasciando qualche avanzo di leccornia sul tavolo da cucina a suo uso e consumo nel corso della notte).

E se nel corso della notte ci viene a fare visita nel modo surriportato ovvero cercando di rovinarci la nottata? ... non è detto che tutto il male vien per nuocere. Dopotutto... se si riesce ad impadronirsi del cappuccio de u monachieddhru... abbiamo fatto, come si diceva fino a pochi anni addietro, tredici.

Chi riesce ad impossessarsi del cappuccio de u monachieddhru, infatti, ne diventa automaticamente il padrone... non del cappuccio ma de u monachieddhru stesso. Quello, infatti, è un po’ il segno del suo potere e l’essenza della sua vita sovrannaturale messa allo scoperto ed alla mercé degli esseri inferiori.

Chi riesce ad impossessarsi del cappuccio de u monachieddhru può costringere lo stesso a farsi consegnare, in un libero scambio, il suo tesoro (realizzato con le migliaia di oggetti spesso e volentieri di valore persi nei secoli dai suoi umani conviventi) e quindi vivere agiatamente per il resto della sua vita.

Ecco che non appena svegliatici nel corso della notte a causa di questo dispettoso simpatico esserino... bisogna essere pronti a toglierli il cappuccio dalla testa.

Inutile dire che, fatto il debito scambio, tempo di ridare il cappuccio dallo stesso ci si può aspettare qualche terribile... meritata vendetta.

Mai sfidare le forze e le presenze sovrannaturali con cui quotidianamente interagiamo: in questa dimensione (e non solo in questa) noi siamo semplici ospiti... forse anche loro ma loro sono avvitati prima di noi..