A chi non ha il coraggio di firmarsi ma non si vergogna di offendere anche a chi non (?) lo merita.

Eventuali commenti a post di questo blog non verranno pubblicati sia se offensivi per l'opinione pubblica e sia se non sottoscritti dai relativi autori. Se non avete il coraggio di firmarvi e quindi di rendervi civilmente rintracciabili... siete pregati di tesorizzare il vostro prezioso tempo in modo più intelligente (se vi sforzate un pochino magari per sbaglio ci riuscirete pure).
* * *
Ricordo ad ogni buon file l'indirizzo di posta elettronica legata a questo sito/blog: pietroperri@alice.it

domenica 21 luglio 2024

C'era una volta la stazione ferroviaria di San Fili... e c'era pure un piccolo Pietro Perri.




La foto a destra l'ho trovata per sbaglio su un post di un contatto sulla piattaforma Facebook. La stessa sembra essere stata comunque ripresa (sempre da Facebook) dalla pagina del Centro Storico Fiat. Una pagina che merita, per la ricchezza dei contenuti anche e sopratutto fotografici, d'essere visitata.

Il testo ovviamente è... by Pietro Perri-

*     *     *

(...)

È una di quelle foto in cui non mi sarei comunque mai immaginato di imbattermi ormai nella mia vita. ma rappresenta una parte importante della mia vita.

Sembrerebbe sia stata scattata nell'ormai lontano 1963.

Siamo in territorio di San Fili (CS) e la littorina (con doppia carrozza) credo sia appena uscita dalla seppur breve galleria dal lato centro abitato e che si diriga verso la città capoluogo di provincia, ossia Cosenza.

O forse marciava in direzione Paola (CS)?

Siamo, per la precisione in località Volette di San Fili (CS).

La mia famiglia, nel citato 1963, coltivava un cospicuo appezzamento terriero proprio al di sopra di questo tratto ferroviario.

Vivevamo in una casa colonica ed io avevo appena due anni.

Solo due anni... decisamente troppo pochi per ricordare quei tempi. Tempi decisamente tutt'altro che belli per la mia famiglia e per tante famiglie come la mia dell'epoca.

Tante famiglie come la mia all'epoca fecero la valigia, spesso ancora di cartone, ed andavano all'estero in cerca di fortuna. E ci andavano grazie anche alla fortuna di avere una stazione ferroviaria in paese ed anche grazie, forse, proprio alla littorina che compare in questa foto.

Si partiva dalla stazione di San Fili (CS) e si proseguiva per la stazione di Paola (CS) dove ci aspettava la coincidenza per Napoli.

A Napoli saremmo saliti su una nave verso i decantati Paesi di Bengodi: gli USA, il Canada, il Brasile o l'Argentina... sempre e comunque l'ignoto.

Ma sempre meglio l'ignoto alla fame sotto famelici padroni.

Qualcuno da Napoli, sempre in treno, proseguiva verso il Nord Italia, la Francia o la Germania.

Quante volte, tre o quattro anni più tardi, mi fermavo sull'imbocco della galleria a guardare passare la littorina o a gustarmi il piacere di veder sbucare dalla bocca buia e sdentata della galleria il fumante ciuff ciuff, la locomotiva a vapore.

Dicevano che quel vapore facesse bene ai polmoni... specie ai bambini colpiti dalla pertosse.

Non ho mai chiesto a qualche dottore quanto ci fosse di vero in questa affascinante diceria.

By Pietro Perri.

sabato 20 luglio 2024

Luigi Gigino Piraino... tra i pionieri della fotografia d'arte sanfilese.



Nella foto a sinistra (da sinistra) Luigi Gigino Piraino e Francesco Ciccio Cirillo a Napoli nel Febbraio del 1951.

Foto archivio Francesco Ciccio Cirillo.

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Quando parliamo di patrimonio fotografico messo a disposizione (lasciato in eredità, oseremmo dire) da qualcuno alla Comunità Sanfilese, non possiamo non pensare all’indimenticato Francesco Ciccio Cirillo.

Una cosa comunque è metterlo a disposizione tale patrimonio fotografico, un’altra l’averlo realizzato… con passione. Ecco che sorge spontanea una domanda: chi sono stati i pionieri della foto amatoriale sanfilese? … e qui diventa normale associare al già nominato Francesco Ciccio Cirillo altri nomi quali quello del professor Domenico De Franco, di Davide Gambaro e di Luigi Gigino Piraino.

E’ soprattutto grazie a questi “poeti dell’immagine” se oggi possiamo ammirare alcuni scorci del nostro amato odiato paesino… così com’erano nella prima metà del XX secolo.

In quest’occasione vogliamo ricordare in particolare il nostro compaesano Luigi Gigino Piraino… amico di cuore e compagno d’avventure di Francesco Ciccio Cirillo col quale, nel 1947, fondarono a San Fili un vero e proprio “studio fotografico amatoriale”, riuscendo anche a realizzare qualche colpaccio professionale come il servizio fotografico cosentino, nel 1950, a Miss Italia Anna Maria Bugliari.

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Luigi Gigino Piraino nasce a San Fili il 16 maggio del 1925.

Gigino era conosciuto un po' da tutto il paese anche e soprattutto perché era figlio di una delle poche insegnanti dell'epoca: ‘donna Amalia Gentile’.

Gli insegnanti, così come gli studenti, erano veramente pochi in quegli anni. Proprio per questo motivo diversi di loro (tra cui i maestri Amalia Gentile, Giovanni Noto e Lucia Cesario) erano costretti ad insegnare nelle cosiddette aule pluriclasse.

Molti alunni tra l’altro lasciavano i banchi di scuola non appena raggiunta la III elementare.

Dopo aver conseguito il diploma magistrale, il nostro Luigi Gigino Piraino, a 18 anni entra da civile nell'Esercito e in breve assume l’incarico di responsabile del distretto militare di Cosenza e provincia.

Il suo ruolo consistette in particolare nel mettere a disposizione tutte le informazioni che potevano essere utili ai ragazzi chiamati al servizio di leva.

Molte generazioni di sanfilesi legheranno la propria esperienza militare al suo nome.

Gigino, come abbiamo detto, coltivò l'hobby della fotografia: passione che condivise con Ciccio Cirillo… amico di sempre e per sempre. Un’amicizia, quella con Ciccio, che lo vuole, agli albori degli anni Cinquanta, persino a Napoli ad accompagnare quest’ultimo all’imbarco per la sua avventura americana.

Amante del suo piccolo paese e dei suoi abitanti è stato, nel ricordo di quanti l’hanno conosciuto, sempre disponibile, nelle sue possibilità, con tutti.

Negli anni Settanta si trasferì con la famiglia a Cosenza, pur rimanendo profondamente legato al suo paese natio dove si è recato frequentemente.

Luigi Gigino Piraino è morto tragicamente, in un incidente stradale, nel 1992 proprio nel tratto di strada che collega San Fili con Cosenza.


venerdì 19 luglio 2024

Vera Lettera di Nostro Signore Gesù Cristo.



Foto a sinistra: San Fili - facciata principale della Chiesa dello Spirito Santo. La foto è leggermente distorta in quanto fatta con un grandangolare... d’altri tempi.

Foto Pietro Perri.

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Articolo tratta dal bollettino del "San Fili Fraternity Club" - anno 27, n. 2, febbraio 1987 con aggiunta di una breve nota di presentazione a firma dello scrivente Pietro Perri.

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Forse non tutti sanno che in tempi remoti i morti venivano sepolti in fosse comuni (cripte) nelle chiese del paese.

Usanza questa che tante gravi conseguenze ha portato alle comunità ante-Napoleone Bonaparte (fu infatti grazie a questo spettacolare e per tanti versi ambiguo condottiero, e uomo politico, se finalmente si capì ch'era poco igienico tenersi "i morti in casa"... ossia seppellirli nel centro abitato all'interno delle Chiese).

L'idea di quella “buonaparte” di Napoleone, come tutti sappiamo, ovviamente non piacque a tanti benpensanti dell'epoca. Non ultimo tra questi il famoso Ugo Foscolo che non ci mise granché a rispondere "con le rime" al provvedimento bonapartista con i suoi arcinoti "Sepolcri"... tanto per restare in tema. I Sepolcri (1806), infatti, sono stati suggeriti dal decreto bonapartista che vietava le sepolture nelle Chiese e nelle cappelle.

La Calabria, si sa, fa parte dell'Italia (in altri tempi più che dell'Italia faceva parte del Regno delle due Sicilie) almeno sulla carta... perché nella realtà sembriamo più africani che europei. Cosenza, si sa... forse un po' di meno, fa parte della Calabria. San Fili, mi auguro che qualcuno lo sappia, fa parte della provincia di Cosenza.

Perché questo discorso? ... perché da quando Napoleone conquistò (? ... non fu certamente un grande sforzo!) l'Italia, e passò per giunta a miglior vita, a quando San Fili si fornì di un cimitero. Passarono molto più d'una cinquantina d'anni. Secondo la tradizione orale il primo morto ad avere accesso in quel di "Santa Maria", inteso come cimitero sanfilese, fu una guardia di finanza.

Correva l'anno 1891.

Effettivamente ci eravamo da tempo lasciati alle spalle l'inizio della seconda metà del XIX secolo (1850).

Comunque grazie al convento dei "frati Ritiranti" che sorgeva nella zona di Santa Maria, i morti nella zona erano da tempo di casa. T'invito, a tal fine, caro avventore, a leggere sempre nelle pagine di questo blog, nella sezione dedicata a "I racconti del focolare a San Fili" la simpatica storiella dal titolo "Vorra sapire si la morta è morta".

Seppure si perse l'usanza di seppellire i morti nelle chiese del paese, a San Fili, in ogni caso non ci si preoccupò per niente di prelevare i cadaveri in esse presenti e dargli miglior sepoltura nel costruendo cimitero.

Tali restarono indisturbati per oltre una centinaia d'anni... e siamo agli inizi degli anni Settanta (1970) quando finalmente s'iniziò a dare un'occhiata alle cripte della Chiesa Madre e ci volle gli inizi degli anni Ottanta (1980) per dare un'occhiata anche alle cripte della Chiesa dello Spirito Santo (ossia alla chiesa dedicata a san Francesco di Paola).

In quell'occasione...

“(...) in un borsello di pezza, rimasto intatto tra le ossa delle mani di una donna è stata rinvenuta la Vera lettera di nostro Signore Gesù Cristo: un documento di fede religiosa, sentita e vissuta tra speranze e timore in promessa di bene, nella gioia del paradiso, e in terrore del male, nelle pene dell'inferno.

*     *     *

«Vera Lettera di Nostro Signore Gesù Cristo, per mano dell'Angelo Custode ad una fanciulla chiamata Brigida, nove miglia distante di San Marcello di Francia, stampata a lettera di oro, trovata ai piedi di un Crocifisso ove, era la Fanciulla, che da sette anni non aveva parlato, e subito che sentì la suddetta lettera parlò e disse tre volte Gesù e Maria.

«La domenica ch'è festa di precetto, andate alla Chiesa e pregate Iddio che vi perdona i vostri peccati. Io vi ho lasciato sei giorni per lavorare ed il settimo per riposare, dovete in quel giorno udire la Messa ed ascoltare i divini uffici e prediche, e fare l'elemosina ai poveri secondo la vostra possibilità che avete, e sarete da me riempiti di bene, altrimenti la mia malevolezza sarà sopra dei vostri figli e della roba, se poi digiunerete cinque venerdì all'anno in onore delle mie cinque piaghe che ebbi sopra la Croce, vi farò molte grazie che domandate.

«Tutti quelli che mormoreranno contro la mia Santa Lettera, e che diranno non essere uscita dalla mia Santa Bocca saranno da me discacciati, ed anche a quelli che la terranno celata e non la pubblicheranno, quelli che la paleseranno e leggeranno diranno essere uscita dalla mia Santa Bocca se avranno tanti peccati per quante gocce di acqua sono nel mare, da me saranno perdonati. Se qualche donna non potrà partorire, ponendosi questa Santa Lettera addosso subito partorirà. Tutti quelli che ubbidiranno ai miei Sacramenti goderanno per una eternità la Santa Gloria del Paradiso.

«Ebbi trenta pugni in bocca quando fui in casa di Anna e cascai tre volte: ebbi 105 colpi ed i soldati che mi portarono furono otto, le gocce di sangue che versai furono 3800, a quella persona che mi dirà ogni giorno due Pater, Ave e Gloria per tre anni continui si concederanno 5 grazie:

La prima = Non le farò provare le pene del purgatorio.»

*     *     *

La versione della "Vera Lettera di Nostro Signore Gesù Scritto" è stata copiata, dall'originale in pessime condizioni, da Ciccio Cirillo - il Sanfilese d'America - e pubblicata sul bollettino del mese di febbraio 1987 del "San Fili Fraternity Club", in uno spazio dedicato tra l'altro all'amico Goffredo Jusi. Entrambi, il Cirillo ed il Jusi, passeranno prematuramente a miglior vita all'inizio degli anni novanta (1990). Di entrambi questo sito se ne occupa nelle pagine dedicate ai personaggi.


mercoledì 17 luglio 2024

LEGGENDE SANFILESI: A quadara chjina d'oru di Santufilisi.



(Foto a sinistra) San Fili: l'imbocco della galleria "ara scisa du Canalicchiu". Al di sopra dell'imbocco della galleria si trova il famoso (leggendario?) tesoro. 

Foto Pietro Perri.

Si racconta di un povero ed avido signore (perché in effetti anche gli avidi possono essere poveri) che girò un’intera vita in largo e tondo il mondo in cerca di un tesoro che gli era stato assicurato da uno spirito burlone.

Quello spirito (forse “nu monachieddru”) gli aveva detto a chiare lettere: “Il tesoro è tuo. Cerca e lo troverai”.

L’unica cosa che non gli disse era il dove ed il quando.

Si dice ancora che solo quando ormai era giunto alla fine della sua vita, fatto finalmente ritorno a casa dopo decenni di peregrinazione, si rese conto di avere un tesoro sepolto nella cantina della propria abitazione.

Purtroppo in quel determinato momento, quando non aveva più forze (essendo ormai giunto al lumicino) né tanto meno più piacere per le cose veniali, il tesoro gli serviva a ben poco.

Oltretutto capì troppo tardi, impegnato in una ricerca senza senso e dall’incerto futuro, di aver sprecato un tesoro più grosso di quello che aveva trovato: la propria vita.

Una vita vissuta (con tutti i suoi lati positivi e negativi), infatti, vale più di un tesoro.

Ammirò un’ultima volta il suo tanto desiderato tesoro ed esalò l’ultimo respiro.

In quel determinato momento comparve sulla scena lo spirito burlone che prese tutto quel luccicante ben di dio per portarlo in un’altra cantina in attesa di un’altra deficiente vittima pronta a mettergli a disposizione la propria esistenza.

Lo spirito burlone, infatti, si cibava dell’esistenza di esseri stupidi ed avidi.

Non so onestamente se il povero ed avido signore fosse originario di San Fili (qualcuno dice di si) ma so che a San Fili in altri tempi (i magici tempi in cui la gente del luogo credeva in certe cose) circolavano tantissimi spiriti burloni (“monachieddri”?) e sul territorio sanfilese si racconta ancora che ci siano nascosti altrettanti tesori: jocche ccu ri prucini d’oru, ricatti di briganti e chi più ne ha più ne metta.


San Fili 1961: il foro del presunto "tesoro di santufilisi" in una foto (a sinistra) ripresa dall'archivio di Francesco (Ciccio) Cirillo.

Si dice persino che scendendo “ppe ru canalicchju” (dove tra l’altro possiamo incontrare la mitica “Fantastica”) ci si imbatte in ben due tesori fatati nascosti.

Dei due però solo uno è particolarmente famoso: “a quadara chjina d’oro di santufilisi”.

Pubblicai la prima volta il pezzo che vi ripropongo di seguito sul quindicinale “l’occhio” nel lontano 6 agosto 1995 chiudendo lo stesso con la promessa: “… la storia non finisce qua, in quanto esiste una versione goliardica che forse quanto prima vi racconterò”.

Inutile dire che tale versione non la raccontai mai e ciò per vari motivi uno dei quali è che a qualcuno, all’epoca, non faceva piacere si parlasse di ciò anche perché uno dei protagonisti della storia fu proprio suo padre.

Evitai.

Vediamo di seguito comunque cosa pubblicai sul quindicinale “l’occhio” nel lontano 6 agosto 1995.

*   *   *

Piazza Rinacchio (attuale piazza Adolfo Mauro, uno dei tanti indimenticati medici condotti del nostro paesino) è senza dubbio uno dei punti belli ed interessanti di San Fili; la stessa offre varie opportunità, non ultima quella d'imboccare la scesa "du Canalicchiu". Una strada irta e cementata che fino agli inizi degli anni ‘70 era una stupenda scalinata in pietra di fiume.

Alla fine della scesa ci s'imbatte tuttora nella casa degli eredi di Carminuzzu Arturi (u papararu). Di fianco alla casa, un'altra abitazione di epoca piuttosto remota e di grandi dimensioni, tuttora circondata d'un insolito muro in pietra. Il tutto lascia pensare ad una piccola postazione di guardia di qualche secolo addietro.

Percorsi una ventina di metri alla vostra sinistra, ecco che la strada si divide in due: dritti (passando sull'entrata della galleria ferroviaria, quella che congiunge le Volette con il tratto di ferrovia che si nota "sutt'aru Muragliune") si può proseguire per la Profico, mentre a destra, scendendo ulteriormente si può facilmente raggiungere il fiume Emoli. Questa seconda via per i nostri avi doveva essere di notevole importanza.

Al centro dell'incrocio (Profico, torrente Emoli, abitato di San Fili), dicono che circa venticinque anni fa ci fosse, nel muro che sostiene la proprietà dei Blasi, una nicchia con una croce in tufo. Purtroppo modernizzarono, distruggendo, la stupenda scalinata in pietra "du Canalicchiu".

Il muro venne in parte abbattuto e ricostruito per allargare la strada, della nicchia e della croce si perse, come volevasi dimostrare, ogni traccia.

Nel muro, esistono dei fori (sicuramente sfoghi per l'acqua... quelli che i tecnici moderni, arci-laureati, oggi non usano fare più, con le logiche conseguenze di frane, smottamenti ecc.). In uno di questi fori si può ancora notare "u funnu da quadara chjina d'oru", il tesoro magico e maledetto dei sanfilesi.

Come ogni tesoro di credenza popolare che si rispetti, anche per il nostro vi sono delle regole da seguire. Innanzitutto, se lo si vuol raggiungere, bisogna che la notte si sogni "u spirdu du tesoru" e che lo stesso ti dia le istruzioni per impossessarti dell'enorme ricchezza.

Per potersene impadronire, comunque, "u spirdu du tesoru" chiede, secondo il racconto dei nostri nonni, che, iniziato a scavare e giunti in prossimità della pentola, si abbia l'accortezza di uccidere in quel punto la persona a noi più cara. Persona che si è avuto la bontà dì portare seco.

Un povero signore dei secoli passati, vuole la tradizione, fece il sogno e la notte successiva, giunto sul luogo, iniziato a scavare e messo alla luce il fondo del pentolone, nel momento in cui doveva uccidere il proprio figlioletto per impossessarsi del contenuto del pentolone stesso, due fulmini presero forma nel cielo stellato, quasi usciti dal ventre della luna piena.

Due lampi illuminarono il tutto a giorno ed una pioggia intensa e prosciugantesi ancor prima di toccare il suolo fece la sua comparsa sulla scena. Fu allora che quel povero malcapitato, prendendo in braccio il bambino ancora illeso e profferendo una bestemmia, lasciò gli arnesi del mestiere sul posto e se ne ritornò alla propria abitazione, consapevole d'aver rinunciato ad un tesoro ma di aversene garantito un altro: il figlio che gli assicurò una confortevole vecchiaia ed una lunga discendenza.

Non credete alla storia del tesoro "du quadaruattu de Santu Fili"? ... il fondo della pentola è ancora oggi visibile, ma io, per gli altri fatti che ho sentito sul luogo, vi consiglio di continuare a non crederci: pensando che non c'è miglior tesoro di chi è a noi più caro.

Anche agli egoisti o ai burloni, cui spesso niente è più caro di se stessi.

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Esiste davvero un tesoro “ara scisa du Canalicchiju”?

Tanti dicono che sia uno dei tanti classici racconti del focolare dei nostri bisnonni che, appunto grazie a tali racconti, riuscivano ad inculcare perle di saggezza nelle affamate menti dei loro nipotini.

Anche questo racconto dopotutto ci insegna che il tesoro più grande per l’essere umano è e resta la vita e gli affetti familiari.

Se ciò che ho appena detto comunque è vero, è vero anche il tesoro “ara scisa du Canalicchiju” in quanto anche le perle di saggezza, per la persona intelligente, sono un tesoro.

Che siamo comunque di fronte ad un tesoro vero (tangibile) anche se non fatto di monete d’oro e d’argento ce lo rende noto anche un piccolo fatto in cui sono stato invischiato qualche anno addietro con gli amici della Pro Loco di San Fili (istituzione di cui ero tra l’altro cofondatore).

Si doveva, un giorno, dar vita ad una iniziativa che avrebbe dovuto riproporre un sentiero che lungo il corso del torrente Emoli collegasse i due lati opposti del nostro centro abitato: da piazza San Giovanni a piazza Rinacchio.

Una stupenda iniziativa che, purtroppo, come tantissime cose belle realizzate nel nostro paesino, finì per morire nello stesso giorno in cui nacque. Non ci fu, cioè, un legittimo e naturale seguito.

Proposi il nome dell’iniziativa: “Du mulinu de fate aru tesoru du Canalicchiju”.

Perché riproporre oggi la storia de “u tesoru du Canalicchiju”?

In effetti a questa storiella (?) non ci pensavo da tempo… è da tempo che anch’io forse ho finito di credere ai miti che hanno formato e caratterizzato nei secoli passati la nostra piccola stupenda comunità. E purtroppo nello stesso momento in cui tutti finiamo di credere nei miti i miti cessano di esistere.

Perfino l’Olimpo e gli dei che il sacro monte ospitava hanno finito di esistere nel momento in cui la gente non ha creduto più nella loro esistenza: fu un’ecatombe divina.

Mi ha fatto tornare la voglia (nel mese di Giugno del 2010) di riproporre tale storiella l’amico (membro tra l’altro del Consiglio d’Amministrazione dell’Associazione culturale “Universitas Sancti Felicis”) Vittorio Agostino. Ed è sempre lui che mi ha fatto venire voglia di scrivere il seguito (ossia la versione hard) della ricerca dedicata al “tesoru du Canalicchiju”.

La prima parte della ricerca la dedico a mio padre Salvatore mentre la seconda (che pubblicherò quasi certamente sul prossimo bollettino) la dedico al caro compianto amico Mario Oliva.

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In effetti dicevamo, anzi... scrivevo, di metodi per venire in possesso del tesoro raccolto in una “quadara” (il cui fondo ancora oggi si può vedere in un foro che si trova in un vecchio muro in pietra ai piedi “du canalicchiju”) ce ne sono almeno due: il primo l’ho detto or ora, il secondo lo trascrivo di seguito.

Nell’uno e nell’altro caso, è d’obbligo premetterlo, ci troveremo di fronte ad un sacrificio di sangue ma se nel primo caso si trattava di un vile infanticidio nel secondo caso… si può morire anche d’amore (dove l’amore fa rima con sesso).

Nel primo caso (ossia nel caso dell’infanticidio) è opportuno che si aspetti la visita “du spirdu” che ci venga a dare in sogno le opportune informazioni… il giorno e l’orario in cui dobbiamo trovarci al malefico appuntamento.

Nessuno s’illuda di far da sé, sarebbe inutile… senza l’aiuto e la presenza demoniaca “du spirdu du tesoru du canalicchiju” … niente tesoro.

A tutti è dato di vedere il fondo della preziosa pentola ma solo gli eletti (i maledetti, per dirla col giusto termine) potranno impossessarsi del contenuto della stessa.

Qualcuno dice che basterebbe armarsi di pala, piccone e olio di gomito? … inutile.

Chi sa la storia e chi sa il prosieguo della storia “du tesoru du canalicchiju” sa benissimo che verso la fine degli anni Sessanta (1969 circa) non servì a niente neanche l’utilizzo di una pala meccanica.

Le regole vanno rispettate, se non si vuole che tale tesoro resti sepolto ancora per altri mille anni in quel determinato punto… in quel determinato crocevia (perché in un crocevia dopotutto ci troviamo e si sa… i crocevia, da che mondo è mondo, sono stati sempre cari alle forze del male).

Ma tutto questo e tant’altro sarà materiale del prossimo bollettino.

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Il crocevia è un punto particolarmente caro alle forze del male.

E’ proprio questo uno dei punti infatti che si preferisce, nella nostra (e non solo nella nostra) tradizione popolare, utilizzare per mettersi in contatto con il principe della notte (e/o i suoi seguaci) per chiedergli un qualsivoglia favore o per ringraziarlo di qualche favore dallo stesso ottenuto.

Al centro del crocevia si possono tra l’altro fare i cosiddetti “sacrifici di sangue” (immolando ad esempio un gatto nero o un gallo) tra i quali quelli che ci possono assicurare il venire in possesso del cosiddetto libro nero o libro infernale.

A San Fili, sempre e comunque nelle dicerie popolari, circola voce che in circolazione ce ne sia più d’una copia del libro infernale. Indovinate un po’ chi ne sarebbe in possesso? … azzeccato: dopotutto non siamo conosciuti come gli abitanti del “paese delle magare” per niente.

Di questo e di tant’altro comunque è giusto parlarne in un’altra occasione.

Il crocevia chiede di per se un sacrificio e sicuramente il sacrificio più grande finora chiesto da un crocevia è quello che ha visto immolarsi, per la salvezza dell’umanità, il figlio stesso di Dio. Dopotutto la stessa croce (simbologicamente parlando) altro non fa, con i suoi quattro bracci, se non collegare l’alto col basso (il divino con il profano) e l’uguale con l’uguale (l’intera umanità) e ci ricorda che solo abbandonando il temporaneo mondo profano (distaccando cioè i piedi dalla terra) possiamo innalzarci verso l’eterno spirituale.

Prima di essere figli degli ebrei (religiosamente parlando, in quanto Cristo comunque era un ebreo) noi calabresi (e quindi noi Sanfilesi) siamo figli dei greci.

Ma cosa c’entra la mitologia greca con il “tesoru du Canalicchiu”? … secondo chi scrive, tantissimo.

Gli antichi greci tra gli abitanti del loro affascinante mondo sovrannaturale avevano anche la dea Ecate… dea legata alla luna ed al mondo dei morti, in alcuni casi confusa con Artemide o Selene o Persefone.

Parente, secondo un concetto puramente cristiano, del nostro ormai più familiare Lucifero.

Il corteo che accompagnava (o accompagna?) Ecate era composto da spettri e cani ululanti: per tale ragione si usava mettere agli incroci delle strade offerte di cibo, per renderla benevola, in particolare l’ultimo giorno di ogni mese, a lei dedicato.

Ecate rappresentava l’aspetto più misterioso della luna, quello nella fase calante, in relazione con (guarda caso) le streghe e i riti magici.

Ecate più che i crocevia, a dire il vero, era custode dei crocicchi in generale ed in particolare quelli dove si congiungevano ad Y tre vie. In questi luoghi erano tra l’altro edificate edicole (intese come nicchie o tempietti che accolgono nel mezzo una statua o un’immagine religiosa) in suo onore… cosa (per chi ha buona memoria) che ci riporta anche questa al nostro ormai famoso tesoro “du Canalicchiju”.

In quel punto (trivio), infatti, fino alla fine degli anni sessanta, poco al di sopra del foro in cui si può ancora oggi notare il fondo da “quadara chjina d’oru di santufilisi” c’era una “edicola” in cui faceva bella mostra una croce in tufo. Non ci dovremmo meravigliare se dovessimo venire a conoscenza, in un futuro decisamente lontano, che forse tale crocefisso aveva preso il posto, in tempi remoti, d’una statuina della greca dea Ecate.

Dopotutto non sarebbe stata la prima volta, da parte dei seguaci del Vaticano, un tale scherzetto (ossia quello di appropriarsi di punti di culto e rituali di religioni precedenti alla loro).

La domanda, a questo punto, sorge spontanea: ara fine du Canalicchiju (dove si trova sepolto il nostro - ? - tesoro) cc’eni nu crocevia o cc’eni nu trivio?

A dire il vero dobbiamo a priori scartare il concetto del crocevia in quanto quel punto, se non consideriamo la strada della perdizione, ossia quella che ci porterebbe ad uccidere qualcuno per entrare in possesso del malefico malloppo, di vie (possibili scelte) reali in effetti ce ne sono solo tre: il braccio che va verso il centro abitato di San Fili, il braccio che va verso contrada Profico e ed il braccio che va verso il torrente Emoli (ponte di Crispino).

Quindi siamo in presenza d’un trivio… un doppio trivio (nel giro di appena venti metri) per la precisione in quanto poco più sopra troviamo il trivio che si sviluppa tramite la salita du Canalicchiju (quella cioè che ci porta dritti dritti in piazza Rinacchio), una stretta via che ci collega alla via Destre ed il ritorno verso il punto in cui ritroviamo (considerato che ancora nessuno se l’è fregato) il nostro tesoro.

Il tratto verticale di tale lettera è la strada (vita passata) da cui si arriva e quelli diagonali le due vie (scelte, vita futura) che si è obbligati a scegliere ed a percorrere (non è ammesso infatti, in tale concetto, ritornare sui propri passi).

Nell’uno o nell’altro caso, giusto o sbagliato che sia, scegliendo si è comunque scelto di vivere.

La “non scelta” (restare fermi al bivio in attesa che passi da lì qualcuno che scelga per noi) è un modo come un altro (l’unico certo) che ci porterà lungo la strada sbagliata, quella della perdizione, quella dei “morti”.

“Chi si ferma”, al trivio, “è perduto”: ce lo ricorda, a noi sanfilesi, anche il tesoro che si trova sepolto “ara scisa du Canalicchiju”.

Un doppio trivio, dicevo, e forse è proprio per questo che qualcuno parla di due tesori presenti… ara scisa du Canalicchiju… due tesori che da secoli disturbano (o consolano) il sonno e i sogni dei sanfilesi speranzosi e bisognosi (in particolare quelli dei fanciulli che vedono una fiabesca alternativa ad un futuro segnato a priori da un fallimento che si portano impresso a caratteri cubitali sulla propria fronte).

Due tesori che purtroppo rischiano di sparire per sempre dall’affascinante memoria storica della nostra comunità perché le nuove leve, il promettente futuro dei sanfilesi, oggi non credono più nel mistero, nella tradizione, nel loro passato. Perché i nostri anziani, e noi stessi, stiamo disimparando a rispettare ciò che ci circonda ed a parlare con ciò che ci circonda.

Oggi una pietra (o un foro nel muro) altro non è che una pietra (o un foro nel muro)… inutile anche a se stessa.

Fino a qualche decennio addietro (per i nostri padri o per i nostri nonni) anche una pietra era un essere vivente con tutta una sua storia da raccontarci. Fino a qualche decennio addietro un semplice foro nel muro si rivelava, a noi e a chi ci aveva preceduto, come uno stupendo ed accattivante libro d’insegnamento di alta moralità.

E noi fanciulli? Come ci ponevamo davanti alla storia de “a quadara chjina d’oru di santufilisi”.

Non chiamateci veniali (diversamente guardatevi in uno specchio) ma l’oro (e quanto oro!) interessava anche a noi.

Le domande che ponevamo a chi ci raccontava questa stupenda storia erano tantissime. Tutti, infatti, eravamo interessati a capire come mai il tesoro dopo secoli stava ancora là.

Perché chi sapeva e chi ci aveva preceduto in questo mondo di problemi economici non si era impossessato del fantastico tesoro?

*     *     *

Mamma, perché nessuno va a scavare in quel punto ed a prendersi il tesoro?

- Perché sarebbe inutile, Pietro, in quanto se non ti è venuto in sogno nu spirdu a darti le istruzioni del caso (dove scavar esattamente, che sacrificio compiere, in che ora ed in quale giorno presentarti all’appuntamento e via dicendo) puoi anche recarti sul luogo con pala e piccone ma per quanto tu possa scavare il tesoro si allontanerà di pari passo verso il centro della terra.

A dire il vero, l’unica cosa che si sapeva per certo era l’ora dell’appuntamento: lo scoccare della mezzanotte.

Un attimo magico che ci sarebbe stato ricordato, senza bisogno di portarci dietro un orologio (dopotutto ancora negli anni sessanta erano ben pochi quelli che ne possedevano uno) dallo scandagliare dei dodici rintocchi dell’orologio del campanile della Chiesa Madre.

- Mamma, ma c’è un modo per sognarmi u spirdu du tesoru?

- Si! Basta che appena ti svegli inizi a pensare per l’intera giornata aru tesoru du Canalicchiju. Vedrai che la notte ti verrà in sogno.

Inutile dire che il secondo giorno la mente del fanciullo a tutto era intenta… tranne che a pensare aru tesoru du Canalicchiju.

E purtroppo senza l’aiuto de nu spirdu (monachieddru?) sembra sia impossibile arrivare ad impadronirsi du tesoru di santufilisi. Ed oltretutto anche quando si ha il fatidico incontro normalmente la posta che ci chiede in cambio vale almeno, se non di più, quanto l’intero tesoro: un tesoro in cambio di un tesoro… oro in cambio di una vita (cara) umana.

*     *     *

Potrei cominciare la mia storia con il classico “c’era una volta” continuando con l’ancor più classico “e c’è ancora”… e non potrei essere tacciato certamente di falsità perché, che ci si creda o no, u tesoru ara scisa du canalicchiju (ovvero “a quadara chjina d’oru di santufilisi”) … c’era una volta e c’è ancora.

In quale punto si trova? … l’abbiamo detto precedentemente (n.d.r.: vedasi i “Notiziario Sanfilese” dei mesi di Giugno e Luglio 2010). Come si fa a venirne in possesso (cosa decisamente più semplice a dirsi che a farsi, diversamente sarebbe sparito da tempo immemorabile dalla memoria dei sanfilesi) in parte l’abbiamo già detto (riportando un fatto ad esso collegato) ed in parte (riportando un altro fatto ad esso collegato) lo diremo in quest’occasione.

Ciò che sto per raccontarvi avvenne nella prima metà (decennio prima, decennio dopo) del XX secolo: qualcuno dice prima della prima grande guerra, qualcuno dice durante o tra le due grandi guerre e qualcuno dice ancora… immediatamente dopo la seconda grande guerra.

Personalmente propendo per un periodo compreso tra il 1915 ed il 1930, ma la data esatta, così come i nomi dei protagonisti (che di fatto saranno inventati… i nomi dei protagonisti, non la storia) non cambia certamente l’importanza ed il succo (il significato finale, la morale) della nostra storia.

Ma veniamo al nostro racconto.

*     *     *

C’era una volta un tesoro, ara scisa du canalicchiju, e c’è ancora… malgrado quanti (decisamente tanti ed in quanti modi Dio solo lo sa) tra i sanfilesi (gli abitanti di San Fili, stupendo paesino in provincia di Cosenza) abbiano tentato, vanamente, nelle varie epoche, di venirne in possesso.

Tra i tanti nostri concittadini, passati da tempo a miglior vita, ci sono stati, cercatori improvvisati (o sfigati tentati e giocati da un subdolo destino) anche gli amici Salvatore e Giovanni.

Si era, ma non ne sono sicuro, nel periodo compreso tra il 1915 ed il 1930: periodo di fame e di paure. Periodo in cui l’entrare in possesso d’un leggendario tesoro quanto quello sepolto, ara scisa du canalicchiju, dentro una capiente quadara, avrebbe risolto il problema a più d’una famiglia… almeno a tre famiglie e sicuramente per diverse generazioni a venire. Periodo in cui tutti erano più rispettosi l’uno con l’altro anche perché l’uno era il povero “villano” che coltivava la terra con contratto a terzadria e l’altro era il feudatario di turno. Periodo in cui se uno lasciava la sera il portafoglio in piazza San Giovanni la mattina successiva l’avrebbe trovato nello stesso posto e con tutto ciò che c’era dentro… ad avercelo però un portafoglio e ad avere qualcosa da metterci dentro!

- Si stava miegliu na vota!

… diceva fino poco tempo addietro, ossia quand’era ancora in vita, il guardiano delle terre dei baroni Miceli. Peccato che non tutti in tempi di magra, come quelli che hanno interessato la prima metà del XX secolo in quasi tutto il Vecchio Continente, a San Fili erano guardiani delle terre dei baroni Miceli.

*     *     *

- Tutu’, mi l’aju sonnata.

- Cchidi, Giuva’?

- Tutu’, m’aju sonnatu a za Gena a bonanima da mugliere de Chiripiddru. A magara morta l’annu scorsu. Ed io a za Gena cce sempre volutu bene, l’aju sempre rispettata ed aju sempre cridutu a chiru chi dicia... e cce criju puru moni. Stavota, Tutu’!, ni conzamu ppe re feste.

- Chi vo di’, Giuvà? … cchi significa: l’ajutu mio e puru de ‘ncun’avutra? … e pue tu cridi ancora a ra favola du tesoru du canalicchiju?

- Tutu’, dammi u tiempu de parrà e ti dicu tuttu. Puru io penzava ca a storia da quadara chjina d’oru di santufilisi era tutta na fissaria. L’atr’ieri, ti dicìa, m’aju sonnatu a donna Gena chi m’ha dittu cc’avimu de fare ppe ni pigliare u tesoru du canalicchiju… e mmi serve l’ajutu tue e puru, tu ripiatu, de ‘ncun’avutra.

*     *     *

L’ammetto: il dialogo tra compa’ Tuture e compa’ Giuvanne nonché la figura di za Gena (a magara) sono frutto della mia bacata fantasia… ma avrebbe potuto svolgersi realmente. Avrebbe potuto essere questo, infatti, uno dei motivi per il quale due nostri compaesani (di cui si sconoscono le famiglie di appartenenza) più una nostra compaesana (dalle dubbie generalità), si ritrovarono, in una notte di luna piena (sicuramente in un mese di marzo o in un mese di giugno) allo scoccare del dodicesimo rintocco del nostro stupendo campanile… nell’esatto punto in cui è sepolto “u tesoru du canalicchiju”.

Il rito, diciamolo a priori, prevedeva che a turno i nostri eroi (compa’ Giuvanne e compa’ Tuture) giacessero carnalmente con la nostra compaesana (… vergine? … può darsi, ma sicuramente non dopo la piccante avventura) e nel mentre l’uno faceva l’amore con la nostra eroina l’altro doveva scavare nel preciso punto in cui si sapeva essere sotterrato il prezioso recipiente (a quadara chjina d’oru di santufilisi).

Rito d’amore, decisamente profano, da cui quasi certamente avrebbe preso forma una nuova vita (magari diabolica) e rito di morte.

La divisione del bottino (il tesoro), infatti, sarebbe stata fatta in due parti: metà alla donna e metà al nostro compaesano sopravvissuto.

Proprio così, perché o compa’ Giuvanne o compa’ Tuture quella sera ci avrebbe quasi certamente lasciato le penne… e loro lo sapevano benissimo. Un prezzo, dopotutto, era giusto pagarlo.

A lasciarci le penne (inutile dire che non lo sapevano a priori) sarebbe stato il primo, tra compa’ Tuture e compa’ Giuvanne, che scavando avrebbe toccato (col piccone o con la pala che avevano a disposizione) il metallo “da quadara chjina d’oru di santufilisi”.

*     *     *

La cosa andò avanti per qualche tempo (difficile dire all’epoca che resistenza avessero i nostri compaesani nel fare certe cose). Andò avanti finché compa’ Giuvanne (ma poteva essere stato benissimo compa’ Tuture) non sentì, nel suo incedere scavando, un suono di metallo contro metallo… o almeno così sembro al nostro eroe.

Apriti cielo!

Contemporaneamente a quel metallico “den” ecco sentirsi nell’area circostante tutta una serie di rumori di catene, fruscii assordanti di rami contro rami, urla bestiali e, a qualche decina di metri, persino tutta una serie di fiaccole venire in direzione del predestinato a morte sicura: l’inferno aveva aperto, per un istante, le sue porte.

- Piglialu, piglialu ch’eni u nuostru!

Si udivano in coro delle voci decisamente lugubri e minacciose.

A scanso d’equivoci, comunque, diciamo che per fortuna quella notte nessuno tra i nostri impavidi concittadini passò a miglior vita.

Il motivo? … dallo spavento compà Giuvanne, che sicuramente ed a buona ragione se l’era fatta pure addosso, lasciò cadere i ferri del mestiere e se la diede a gambe verso il paese ed in particolare verso il sacrario della chiesa Madre a chiedere perdono e protezione a Dio e a tutti i santi del paradiso.

Da come scappava, inutile dirlo, i demoni e le anime dannate per l’occasione usciti dall’inferno non riuscirono neanche a sfiorarlo.

E “u tesoru du canalicchiju”? … inutile dire, caro amico paziente lettore, che “a quadara chjina d’oru di santufilisi” si trova ancora lì… da tempo immemore, al trivio in cui s’incontrano il braccio di strada che sale verso l’abitato di San Fili, il braccio di strada che porta alla contrada Profico e la via che scende verso il torrente Emoli dove si trova il ponte di Crispino.

… e, credetemi, secondo me ci resterà ancora per diversi secoli a venire. Ci resterà ancora almeno se noi, sicuri della realtà storica di tale racconto, passando per quel punto e guardando in un foro nel muro in pietra… noteremo, in fondo, la parte inferiore di una grossa ed allettante “quadara”.

*     *     *

Piccola nota a scanso d’equivoci.

Questa storiella me la raccontò qualche anno addietro il mio compianto, carissimo e preziosissimo per i miei scritti, amico Mario Oliva.

Mario mi propose tra l’altro, se volevo pubblicarla e mettere qualche dettaglio in più sulla vicenda, di chiedere qualche informazione anche ad un altro carissimo compianto amico.

Siccome questo secondo personaggio all’epoca volle restare anonimo, farò in modo, per rispetto alla sua memoria, di farlo restare anonimo anche in quest’occasione. Dirò solo che era un bravo falegname del paese (tanto per restringere il campo).

Fatto sta che quando gli chiesi se sapeva qualcosa in merito all’avventura capitata ai nostri concittadini compa’ Giuvanne e compa’ Tuture, poco ci mancò che non prendesse un manico d’ascia (ad avercelo vicino in quel momento) e me lo tirasse dietro.

*     *     *

A quadara chjina d’oroe autri tesori di santufilisi.

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San Fili, diciamolo pure, è strapieno di tesori (fantastici?) sotterrati… ma non chiedetemi “sotterrati, da chi?”, anche se potrei dare almeno due risposte in merito, forse non sbagliando in nessuno dei due casi ma sicuramente azzeccandola più nel secondo caso: 1) da qualche spirito malefico che fin dalla realizzazione del primo fabbricato si è impossessato del nostro territorio; 2) dalla saggezza popolare dei nostri avi.

I tesori, le ricchezze ed i soldi facili quasi sempre sono collegati (e ciò lo sapevano benissimo quanti ci hanno preceduto nel cammino della vita) a problemi, a dolori, a sciagure, a mali dell’umanità quali l’invidia, l’odio anche a carattere familiare, le guerre e chi più ne ha più ne metta.

Ovviamente se l’alternativa è la povertà assoluta (povertà intesa anche e soprattutto come dover sottostare alle angherie dei potenti ed il mancare persino dei beni elementari quali il mangiare sulla propria tavola e per i propri figli)… meglio la ricchezza.

Se la ricchezza infatti non dà la felicità… sicuramente la povertà non fa niente per alleviare i problemi che hanno dato vita all’infelicità.

L’ottimale, comunque, è e resta l’equilibrio in tutto: giusta ricchezza (benessere) e giusto distacco dalle cose terrene.

Ecco perché i nostri genitori (o, ormai più esattamente, i nostri nonni) con i loro racconti anche di tesori nascosti cercavano di insegnare, a loro modo, alle generazioni future principalmente ad apprezzare la propria vita e la vita dei propri cari (vero tesoro in tutto il loro “racconto del focolare”).

Il raggiungimento del proprio fine, il ritrovamento del tesoro “fatato” (o “stregato”?) infatti imponeva comunque, al raggiungimento dello stesso, la morte di se stessi o di un proprio caro: ne sarebbe valsa la pena?

Pensavo che avrei potuto concludere questa ricerca (questo “mio” scritto) su “a quadara chjina d’oro di santufilisi” raccontando l’avventura horror-goliardica capitata ad alcuni nostri compaesani nella prima metà del XX secolo… in quel “du canalicchiu” quand’ecco arrivarmi, tramite posta elettronica, un messaggio dal mio amico Joe (Giuseppe) Muto da Toronto in cui lo stesso mi narra di un altro tesoro presente nel territorio di San Fili… n’atru tesoru di santufilisi.

Non volendo entrare in merito alla realtà del racconto ovviamente cambierò nomi e collegamenti familiari. Si sappia comunque che la famiglia (o qualche familiare) interessata da tale racconto vive ancora a San Fili.

Ma passiamo al messaggio di posta elettronica (datato 12 Giugno 2010) trasmessomi dall’amico Joe (Giuseppe) Muto.

*     *     *

Ciao Pietro,

L'articolo che hai scritto, A quadara chjina d’oro di santufilisi, non è una fantasia.

Ecco la storia che (...) Francesca (..), mi ha raccontato tante volte.

“Una notte, dopo aver un fatto un sogno, é andata con suo marito Michele e suo figlio Gianni, di due anni circa, verso i Jizzi. Francesca ha cominciato a scavare dove il sogno gli aveva detto di scavare, quando sentì una cosa dura con la pala, ha notato che Gianni cominciava aver difficoltà a respirare. Subito Francesca ha fermato il suo lavoro di scavo e Gianni ha cominciato a respirare normale. Impauriti, sono ritornati a San Fili. Il giorno seguente sono ritornati a finire di scavare ma nel punto dove avrebbero dovuto trovare il tesoro hanno trovato solo un secchio di carboni. Francesca ha concluso che se avesse continuato a scavare, avrebbe trovato il tesoro però avrebbe sacrificato la vita di suo figlio”.

Quello che hai scritto è veramente interessante.

Ciao per adesso, da Peppino.

*     *     *

Ed è interessantissimo anche il racconto riferitoci dall’amico Joe Muto. Non per l’esistenza reale, cui ovviamente chi scrive non crede, del tesoro che dovrebbe trovarsi o in altri tempi si sarebbe trovato in contrada Jizzi di San Fili ma sia per il valore morale (educativo) del racconto stesso e sia per i punti in comune che ha tale racconto (leggenda?) con il racconto de “a quadara chjina d’oro di santufilisi”.

Nell’uno e nell’altro caso i Sanfilesi devono aspettare il sogno premonitore (u spirdu du tesoru) che gli apra la strada verso l’eterna terrena ricchezza… oltre alle porte dell’inferno.

*     *     *

Nell’uno e nell’altro caso ci sarà comunque la morte di una persona cara (normalmente un figlio) se non di se stessi (n.d’a.: come nel caso del racconto hard surriportato).

Nell’uno e nell’altro caso siamo nei pressi di un trivio (l’incontro di tre strade) e forse anche di un albero particolare o quanto meno secolare. “Ara scisa du canalicchiu” ad esempio c’erano delle gigantesche querce. Ricordo che, prima d’incrociare la casa degli eredi di Carmine Arturi ce n’era una decisamente accattivante, per noi fanciulli, sia per la sua maestosità di tale quercia e sia per il fatto che la stessa presentava l’interno del tronco completamente cavo.

Tramite tale cavità noi fanciulli potevamo facilmente raggiungere il punto di sviluppo dei rami principali dell’ammaliante quasi materna quercia… ed era subito avventura.

Quante stupende avventure ci permetteva di vivere, decisamente sottocosto, a noi ragazzi degli anni Sessanta (e a quanti ci avevano preceduto), la natura circostante.

Quella quercia oggi (dopo aver tanto dato a noi Sanfilesi), inutile dirlo, non c’è più. Ad ucciderla comunque non sono stati gli anni ma solo l’irriconoscenza umana, le assordanti motoseghe e la, dulcis in fundo, speculazione edilizia.

Per ritornare al filo conduttore di queste pagine, comunque, non mi meraviglierei di trovare nei pressi di contrada Jizzi qualche vecchia quercia, qualche superbo noce o qualche accattivante pigna.

In tutti i casi (racconti dei tesori presenti nel sottosuolo del territorio del nostro paese) la fine comunque è uguale: nessun morto, nessun arricchimento facile… tanta saggezza in noi fanciulli che ascoltavamo, decisamente presi dal racconto, tali stupende storielle.

La vita di un figlio, la vita un caro amico e/o la propria vita valgono sicuramente molto di più… “de na quadara chjina d’oro”.

Non credete a quest’ultima affermazione? … allora non vi resta che affidarvi “a ru spirdu du tesoru”, dopo averlo convinto a venirvi in sogno, e recarvi, nell’ora (mezzanonte in punto?) ed accompagnati da colui che il demone vi indicherà. Dove? ... nel punto in cui vi ho rivelato che è sepolto, ormai da tempo immemore, “u tesoru du canalicchiu”.

Da parte mia una sola richiesta: non chiedetemi di accompagnarvi… ci tengo alla mia vita (e non vorrei che “u spirdu du tesoru” vi abbia detto che la vittima da sacrificare si chiama… Pietro Perri)!


domenica 14 luglio 2024

LEGGENDE SANFILESI: U purceddhruzzu de sant'Antonu.


Falena (foto dal web).

San Fili e i Sanfilesi sono molto legati aru purceddhruzzu de sant'Antonu.

U purceddhruzzu de sant’Antonu”, diciamolo a scanso d’equivoci ed a priori, non è un maialino (appunto “nu purceddhruzzu”) ma è una bellissima, si fa per dire (in quanto di bello ha ben poco) farfalla… casalinga.

E’ una farfalla pelosa, grossa, buffa e goffa che non disdegna, a differenza dei propri simili, neanche avere contatti ravvicinati col genere umano.

Non raramente si rischia di trovarcela, oltre che dentro casa, sui nostri vestiti e persino sulle nostre mani.

Secondo i nostri padri “u purceddhruzzu de sant’Antonu” era (e per alcuni di noi ancora è) portatore di buone notizie.

Quando lo si trovava dentro casa, infatti, si pensava fosse venuto per comunicarci il prossimo arrivo di soldi (più o meno aspettati) o comunque di buone notizie (magari la realizzazione, quasi in modo miracoloso) di un desiderio risolutore del nostro terreno calvario.

Guai ad ucciderne, volontariamente, una o semplicemente a cacciarla fuori di casa: la maledizione può colpirci da un momento all’altro.

*     *     *

Questa breve paginetta la dedico a mio padre Salvatore Perri (passato a miglior vita, a circa 85 anni, il 17 settembre 2003... era un mercoledì, un mercoledì della Madonna del monte Carmelo).

La dedico a mio padre in quanto mio padre... mi ha insegnato a credere...'ntru purceddhruzzu de sant'Antonu.

Pietro Perri.

*     *     *

Fermo restando che sulle farfalle in generale (nel modo in cui le consideravano quanti ci hanno preceduto) ci sarebbe tantissimo da dire e da scrivere... e chissà che un giorno non vi scriva sopra qualcosa.

*     *     *

N.B.: la presente pagina è stata ripresa dal "San Fili Blog by Pietro Perri". Brano pubblicato tra l'altro sul "Notiziario Sanfilese" del mese di Febbraio 2011.


domenica 8 ottobre 2023

La Chiesa dello Spirito Santo o di san Francesco di Paola di San Fili. Articolo del prof. Francesco Iantorno.



Nella foto a sinistra (foto by Pietro Perri): Particolare della facciata principale della Chiesa dello Spirito Santo di San Fili. La Chiesa, conosciuta anche col nome di Chiesa di san Francesco di Paola, si trova nel centro storico poco al di sotto della Chiesa Madre nel quartiere denominato Jazza.

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La Chiesa dello Spirito Santo di San Fili.

(Articolo pubblicato a firma del prof. Francesco Iantorno sul Notiziario Sanfilese – mensile dell’Associazione culturale Universitas Sancti Felicis di San Fili – del mese di giugno del 2007)

Sorge nell'omonimo quartiere, in pieno centro storico: ad unica navata, presenta all'esterno una facciata con portale tufaceo, sovrastato da un'ampia finestra con cornice mistilinea e da un timpano triangolare. Dedicata allo Spirito Santo fu eretta nel sec. XVII ed ampiamente rimaneggiata nella seconda metà del Settecento in forme tardo-barocche.

Le prime notizie sulla chiesa e su una Confraternita “sub Regulis Societatis Jesu” ivi operante risalgono all'anno 1666: dagli Atti della Santa Visita compiuta sotto il presulato di mons. Gennaro Sanfelice (1661-1694) emergono, infatti, dati preziosi sull'edificio e sullo stato degli arredi e dei paramenti sacri che erano conservati sotto chiave in un armadio ligneo, posto nei pressi dell’altare.

D. Francesco Amoruso provvedeva annualmente alla celebrazione di trentadue messe per un reddito annuo di 5 ducati derivante da elemosine e dalla rendita di un castagneto, sito nel luogo detto Santa Maria degli Angeli, legato dal quondam D. Andrea Formosa.

La Chiesa conserva al suo interno interessanti opere d'arte: busto ligneo di S. Francesco di Paola, opera seicentesca di scuola napoletana; statua di Cristo che va al Calvario (sec. XVIII) ed un pregevole dipinto di A. Granata raffigurante la Discesa dello Spirito Santo (1797), collocato sull'Altare Maggiore. Sulla volta cinque tele realizzate nel 1908 da Raffaele Rinaldi raffiguranti rispettivamente La fuga di Lot, Davide che mostra la testa di Golia, Giuditta ed Oloferne, Abramo e le tre figure angeliche, S. Francesco di Paola con la Madonna e lo Spirito Santo. Sulle pareti ed ai lati della zona absidale è un ciclo di affreschi del pittore S. Tancredi (1963) con scene tratte dal Vangelo e dalla vita di S. Francesco di Paola.

Degni di nota sono ancora gli stalli lignei dove sedevano i membri dell’Arciconfraternita dello Spirito Santo, realizzati nel ‘700 da maestranze locali, ed un antico confessionale in legno con raffigurazione di Cristo in croce.

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Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.

... /pace ma... “si vis pacem para bellum”!

 

sabato 7 ottobre 2023

Sacra reliquia ex cingolo san Francesco di Paola busto ligneo San Fili. (Articolo del prof Goffredo Iusi - breve nota di Pietro Perri).



Nella foto a sinistra (foto by Pietro Perri): Busto ligneo (opera napoletana del seicento) di san Francesco di Paola, santo protettore della Comunità Sanfilese, portato a spalla lungo il corso principale del borgo ed in tanti dei vicoletti che caratterizzano il pittoresco paesino di San Fili. Sul pettorale è incastonata una piccola teca conservante una reliquia del miracoloso santo.

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La reliquia di san Francesco di Paola conservata a San Fili nel busto ligneo del santo.

(Breve nota di Pietro Perri)

L’Associazione culturale Universitas Sancti Felicis di San Fili in occasione del quinto centenario della morte di san Francesco di Paola ha voluto onorare lo stesso riportando sul Notiziario Sanfilese (il bollettino mensile della stessa) nei mesi di aprile e maggio del 2007 un brano a suo tempo pubblicato sul bollettino n. 4 del 27 aprile 1987 del “San Fili Fraternity club”. L’articolo era firmato dall’indimenticato prof. Goffredo Iusi.

Considerando alquanto prezioso per la Comunità Sanfilese e per i fedeli del santo protettore dei Calabresi e dei naviganti tutti tale documento affinché tale non vada perso per sempre ho ritenuto far cosa gradita ai più pubblicarlo in questo mio spazio web.

Invitando ovviamente quanti avranno il piacere se non l’onore di poter ammirare lo stupendo busto ligneo di san Francesco di Paola conservato nella chiesa dello Spirito Santo di San Fili di guardare con occhi diversi lo stesso. Ed in particolare osservando con più attenzione e sacra devozione la piccola teca che si trova incastonata nel pettorale del busto stesso.

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SACRA RELIQUIA EX CINGOLO SANCTI FRANCISCI DE PAULA CONFESSORIS.

(Brano tratto dal "San Fili Fraternity club" bollettino n. 4 anno 27 aprile 1987. Da un articolo firmato dal prof. Goffredo Iusi)

Quando, fanciulli, nella Chiesa dello Spirito Santo, guardavamo San Francesco di Paola, che, dalla nicchia alta della piccola cappella incombeva su di noi, gli occhi nostri, più che sul volto, che ci appariva sempre accigliato, si fermavano sulla posta in mezzo al petto.

"E' il suo cuore" - diceva qualcuno - Ma non ne aveva la forma, né il colore rosso, ed era troppo piccolo per essere un cuore.

Era grande, per noi fanciulli, il cuore di San Francesco, per la carità, che ebbe, per i poveri e per la forza, che dimostrò, ai potenti.

Ognuno di noi sentiva raccontare i miracoli del Santo: le sere d'inverno, attorno al focolare, in ogni casa, la vecchia della famiglia diceva dell'albero tagliato a mezzo, della moneta che grondò sangue, dell'asino che gettò i ferri, del mantello fatto barca, dell'agnello che uscì dalla fornace, della pietra fermata sul costone del monte.

Zia Monaca leggeva a me le pagine di un grosso libro quasi cantando le parole. Chiudevo gli occhi e vedevo quel mondo di uomini, case, terre, animali e sentivo le voci; il Santo mi appariva grande con la barba lunga e bianca: la fantasia, che si accendeva alle parole, creava la vita d'un tempo lontano, ma non diverso dal nostro, se i nonni e i padri, dicevano che ci voleva ancora un San Francesco con il bastone ad umiliare i potenti e con la carità a consolare i poveri.

Scopriamo che non era il suo cuore, quando guardammo, da vicino, la statua sul sacello ligneo processionale: era una piccola teca ovale composta in mezzo al petto; la linea d'oro spiccava sul nero della tonaca e, sotto il vetro, su campo rosso si staccava un grumo nero.

Don Antonio, il sacerdote che celebrava messa nella Chiesa dello Spirito Santo, ci disse del reliquario, del pezzetto di cordone, dell'Arciconfraternita dello Spirito Santo: una storia di fede dei padri, quando, nel tempo antico, la religione era amore ed opere.

*     *     *

Di recente, provvedendosi alla sistemazione dell'Archivio della Chiesa dello Spirito Santo, è stato rinvenuto il documento che attesta l'autenticità della reliquia, che riporta il nome del Frate cui fu donata, che descrive la custodia d'oro, che indica le norme di uso.

La reliquia, ottenuto con elargizione da Frate Angelo, fu ceduta dal laico professo di Aprigliano ad un monaco di San Fili, certamente del convento di Santa Maria degli Angeli.

Le ricerche nell'Archivio della Chiesa dello Spirito Santo non hanno portato, fin'ora, al ritrovamento di altri documenti; le notizie e le date riportate nella "lettera" e nelle annotazioni consentono di proporre la probabile storia della reliquia.

Ai primi del 1700 era stata creata, nella Chiesa dello Spirito Santo, la cappella di San Francesco dì Paola, in cui fu posta la statua del Santo, una scultura lignea di scuola napoletana di notevole pregio artistico.

L'Arciconfraternita dello Spirito Santo la adornò dell'aureola, del bastone e del fastoso medaglione di argento. Certamente, progettò anche di consacrare la statua con una reliquia del Santo.

E, sicuramente, l'Arciconfraternita si rivolse ai monaci del convento di Santa Maria degli Angeli, che, per i rapporti con le molte comunità dell'Ordine Minorita della Calabria e delle altre province religiose del regno di Napoli, potevano assicurare la ricerca e la donazione della reliquia.

Il convento di Santa Maria degli Angeli, costruito nei primi anni del 1600, era allora uno dei più importanti e famosi della Calabria.

Le date riportate nel documento (30 gennaio 1734 o 1736: donazione della reliquia; 14 gennaio 1737: presa d'atto della Diocesi di Cosenza) e l'attestazione della consegna della reli­quia (senza data, ma da supporre nello stesso mese di gennaio 1737, probabilmente nello stesso giorno 14) al Padre del convento di Santa Maria degli Angeli, provano che Frate Angelo di Aprigliano ottenne la reliquia non per incarico dell'Arciconfraternita dello Spirito Santo; ne è conferma la mediazione del Padre del convento di Santa Maria degli Angeli, che, ricevuta la reliquia dal confratello, la cedette al Priore dell'Arciconfraternita dello Spirito Santo.

Non è scritto se Frate Angelo di Aprigliano, che ottenne la reliquia con elargizione dal Vicario del cardinale Francesco Pignatelli, sia stato ricompensato dal confratello del convento di Santa Maria degli Angeli.

Con altra grafia, per lungo, sulla parte inferiore del documento, è scritto: "cingolo di San Francesco di Paula"; il Priore dell'Arciconfraternita della chiesa dello Spirito Santo, conservandolo nell'Archivio, donò un titolo al documento.

*     *     *

TRADUZIONE DEL DOCUMENTO ORIGINALE IN LATINO

 

FRANCESCO

per misericordia divina Vescovo di Ostia,

Cardinale di Santa Romana Chiesa

Pignatello

Arcivescovo di Napoli, Decano dello stesso Sacro Collegio

Vicario Generale per la Diocesi di Ostia

Marco Antonio Malfitano, Vicario del detto e Protonotario

Apostolico

 

A tutti ed a ciascuno, che vedranno le presenti lettere, facciamo indubbia fede ed attestiamo che, essendoci mostrate moltissime Sacre Reliquie, le abbiamo riconosciute estratte da luoghi autentici con lettera autentica e munite di sigillo, da cui abbiamo estratto la presente particella dal cingolo di San Francesco Confessore, che abbiamo collocato reverentemente in un piccolo reliquario di oro lavorato, ornato di figure, chiuso da un solo cristallo nella parte anteriore e lo abbiamo legato con una funicella di seta di colore rosso e segnata con impresso il nostro sigillo su cera rossa spagnola per l'indubbia identità di esso, e riposto, a maggior gloria di Dio ed a venerazione dei suoi Santi abbiamo donato, e siamo stati ricompensati, a Frate Angelo di Aprigliano, laico professo dell'Ordine dei Minori Riformati di San Francesco, perché la presente Sacra Reliquia tenga per se' o doni ad altri o sia esposta alla venerazione pubblica in qualunque Chiesa, Oratorio e Cappella.

In fede di ciò comandammo di preparare queste presenti (lettere) sottoscritte di nostra mano e confermate dal nostro sigillo.

Fatto a Roma, fuori della porta di Ostia, in questo giorno 30 del mese di gennaio 1734 (o 1736).

 

Marco Antonio Amalfitano Vicario

*     *     *

Nella parte scritta a mano, sull'altra metà del foglio, alcune parole sono di difficile interpretazione.

Dal contesto risulta che "nel giorno 14 gennaio 1737, la Diocesi di Cosenza prende atto che la Sacra Reliquia è stata donata a Frate Angelo di Aprigliano con la facoltà di tenerla per se', di donarla ad altri, di esporla alla venerazione dei fedeli in qualunque Chiesa o Oratorio".

L'atto è firmato dal Vicario Diocesano.

Di seguito si legge: "E' da detto Frate Angelo di Aprigliano data al Padre ………. da San Fili per poterne disporne a suo modo ".

 

Firmato ……... Cancelliere.

 

A margine del foglio, per lungo, è scritto con altra grafia: "cingolo di San Francesco di Paula".

 

Goffredo Iusi

*     *     *

Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.

... /pace ma... “si vis pacem para bellum”!