Contadini
sanfilesi (anno 1915 circa).
Foto
De Franco - Archivio Francesco Ciccio Cirillo.
Avendo
ampiamente parlato delle "cantine di San Fili" è giusto dedicare un
capitolo, seppur breve, ai "grandi bevitori" o famosi frequentatori
delle "cantine di San Fili". Tutto ciò, giustamente, senza offendere
né gli interessati né tantomeno i discendenti di questi.
Come
è possibile ottenere un tale risultato? ... semplicemente mettendo in rilievo
non solo il fatto che una volta "bere del buon vino" più che un vizio
era una necessità (agli inizi del secolo l'economia del nostro paese era
prettamente agricola e nel lavoro della terra di calorie se ne consumano
tantissime e, vista la povertà imperante, metodi per metterne in corpo, di
calorie, ve n'erano veramente pochi) ed in tale necessità con argute risposte,
con perspicaci riflessioni e in virtù delle sacrosante norme del reciproco
rispetto... emergeva anche dal sommerso culturale (la dabbenaggine dei protagonisti
delle nostre storie) un'immensa, sana ed insostituibile, sapienza popolare.
Detto
ciò, non ce ne vogliano a male i discendenti di "Michele 'e Saraca"
(Lio), ma ci siano riconoscenti per aver salvato questa "scena" del
loro glorioso passato. Non ce ne vogliano se riportiamo un simpatico racconto
di cui è stato protagonista (agli inizi del 1900) questo loro altrettanto
simpatico ed impareggiabile avo.
* * *
Siamo
intorno al 1900 e il barone in carica della casata dei Miceli, fatta abbattere
qualche mese prima una secolare quercia all'interno dell'omonima villa di sua
proprietà ai confini tra Rende e San Fili, contemplando i grossi ceppi (muzzuni)
stagionati che n'erano scaturiti... non poteva fare a meno di pensare a quanto
gli stessi gli sarebbero stati comodi, per la brutta stagione che ormai
pressava all'uscio, nei vari caminetti delle sue abitazioni.
Inutile
dire che il legno di quercia, per giunta stagionato, e alquanto duro da
lavorare e come tale difficile da spaccare se non si ha una buona dose di
muscoli e tecnica a disposizione. Agli inizi del '900, tra l'altro, si era
ancora ben lontani dagli anni in cui verranno brevettati utensili quali
motosega e affini).
Non
trovando tra i suoi coloni (villici?) gente in grado di portare a termine tale
lavoro (spaccare i summenzionati ceppi), chiese al suo fattore "zu
Franciscu" d'individuare tra i suoi conoscenti qualche soggetto idoneo
a fare ciò: il tutto a prezzo stabilito!
L'oculata
scelta di "zu Franciscu" cadde su un certo Michele Lio detto
anche "Saraca".
Erano
le tre di notte del giorno successivo quando Michele, armato di una spaventosa
scure (accetta) giungerà sul posto dove erano riposti i ceppi di quercia. Una
spaventosa scure che, sembra, tanto era grossa e poco maneggevole, solo lui, o
ben pochi, erano in grado di maneggiare nel circondario.
Ancora
oggi qualche nostro anziano sanfilese nell'osservare qualche scure d'una certa
stazza, non può fare a meno di citare l'ancor più proverbiale "'ccett'e
Saraca"!
Non
crei meraviglia l'ora in cui il Michele si recò a Villa Miceli... per quei
tempi era cosa più che normale e comune a più d'una persona recarsi a certe ore
sul luogo di lavoro (o quantomeno intraprenderne il viaggio)... si era ben
lontani, all'epoca, dal peso che oggi devono sopportare i pubblici dipendenti
costretti da un regime malsano, inumano e dittatoriale a presentarsi alle otto
in ufficio.
Ritornando
alla nostra storia, alle sette di mattina i "muzzuni" (che non
erano certo quattro o cinque) erano tutti ben spaccati e la legna ottenutane
debitamente accatastata. Poche ore e poche alzate di mano per iniziare e
portare a termine da solo un lavoro dove sarebbero state necessarie una decina
di braccia.
Dal
canto suo Michele, con a fianco la sua mitica scure, seduto per terra con le
spalle poggiate al suo lavoro, stava masticandosi in dolce e fresca
tranquillità una manciata d'ottimo tabacco.
Così
lo trovò, non molto tempo dopo, il barone Miceli giunto sul posto col suo
calesse.
Il
barone, meravigliato di quanto si mostrava ai suoi occhi, sforzandosi di far
finta di niente, pagò il pattuito al nostro laborioso e simpatico personaggio
regalando allo stesso, a mo' di riconoscenza (considerato quanto aveva
risparmiato limitandosi a chiamare un solo insostituibile lavorante al posto di
cinque o sei inutili braccianti), tra l'altro "nu pane casarulu 'e
farina jianca, nu vuhjiu e na pezz'e casu".
Cosa
certamente più apprezzata da Michele Saraca fu però l'autorizzazione che gli
dette il barone ad andare alla cantina che i Miceli avevano al paese (ossia
"a Grutt'e Chiarieddru") e dire al cantiniere di fargli bere
alla sua salute quanto vino gli andasse in corpo... a pagare ci avrebbe pensato
poi il nobiluomo.
"Baru'!",
disse il Michele con voce scaltra ma servile, "... no ppe
minde 'ndubbiu a parola 'e Vussuria, ma vui pensati veramente ca l'oste poni
cride a chiru chi mi dicit'e cce riferire? ... mu facissiti, ppe riguardu, nu
bigliettuzzu de cce cunsegnare a chiru siarvu vuastru?".
Avuto
quanto richiesto al barone, Michel'e Saraca gettatasi sulla spalla la sua
grossa ascia, assieme alla bisaccia dove aveva riposto il ben di Dio che gli
era stato regalato, quatto quatto prese la via del ritorno al paese. La sua
agognata meta, inutile dirlo, era esattamente la fornitissima cantina dei
Miceli.
Non
gli ci volle certo molto al nostro personaggio per raggiungere e varcare
l'entrata "da Grutt'e Chiarieddru" (stiamo parlando di un uomo
d'oltre due metri e con una corporatura da far paura anche ad un toro
inferocito). Preso posto ad un tavolo in un angoletto, tolto dalla bisaccia il
pane assieme al formaggio, fece segno all'oste d'avvicinarsi mostrando nel
contempo allo stesso il biglietto autografo del barone.
Pochi
minuti dopo l'oste, rispettando la media e non solo tirando le parti del
padrone, posò sul tavolo dell'avventore "na cannata (circa due
litri) curma curma 'e vinu", dicendogli: "Vìveti chissu e
pue vatinne buanu buanu ara casa!".
Il
Saraca prende il fatto a mo' di offesa personale: due soli litri di vino? ...
eppure il barone aveva detto, senza giri di parole, "quanto vino gli
andasse in corpo"? ... il barone l'aveva messo pure per iscritto tutto ciò
e la parola del barone non poteva certo essere messa in discussione.
Due
soli litri di vino, dopotutto, a Michel'e Saraca sarebbero bastati
appena a inumidirgli la gola.
Bloccato
il cantiniere per una mano, dirà allo stesso: "Compa'... va inchjia
subitu u cannatune...", (un recipiente di circa una decina di litri),
"... buanu buanu. Ppe piacire nun mi fa 'ncavulare, si'nno, a vi sa
'ccetta? ... ti fazzu a dui curmi cumu i muzzuni c'ajiu spaccatu stamatina 'nta
proprietà du barune!!!".
* * *
"U
cannatune" fu svuotato senza grossi sforzi, quel giorno stesso, dal
nostro Michele. Dite che esageriamo? ... dite che non è possibile che un uomo,
seppur di due metri e di dura corazza, possa bere da solo e in poche ore una decina
di litri di vino? ... e se vi raccontassimo allora di quando Michel'e Saraca trangugiò
nel men che non si dica "nu mianzu varrile 'e mustu" (circa 15
litri)?
Nessun commento:
Posta un commento