SAN FILI BY PIETRO PERRI BLOG: RACCONTI DEL FOCOLARE A SAN FILI: Michel'e Saraca.

A chi non ha il coraggio di firmarsi ma non si vergogna di offendere anche a chi non (?) lo merita.

Eventuali commenti a post di questo blog non verranno pubblicati sia se offensivi per l'opinione pubblica e sia se non sottoscritti dai relativi autori. Se non avete il coraggio di firmarvi e quindi di rendervi civilmente rintracciabili... siete pregati di tesorizzare il vostro prezioso tempo in modo più intelligente (se vi sforzate un pochino magari per sbaglio ci riuscirete pure).
* * *
Ricordo ad ogni buon file l'indirizzo di posta elettronica legata a questo sito/blog: pietroperri@sanfili.net

giovedì 28 aprile 2022

RACCONTI DEL FOCOLARE A SAN FILI: Michel'e Saraca.

 

Contadini sanfilesi (anno 1915 circa).

Foto De Franco - Archivio Francesco Ciccio Cirillo.

Articolo realizzato in collaborazione tra Antonio Asta e Pietro Perri.

Avendo ampiamente parlato delle "cantine di San Fili" è giusto dedicare un capitolo, seppur breve, ai "grandi bevitori" o famosi frequentatori delle "cantine di San Fili". Tutto ciò, giustamente, senza offendere né gli interessati né tantomeno i discendenti di questi.

Come è possibile ottenere un tale risultato? ... semplicemente mettendo in rilievo non solo il fatto che una volta "bere del buon vino" più che un vizio era una necessità (agli inizi del secolo l'economia del nostro paese era prettamente agricola e nel lavoro della terra di calorie se ne consumano tantissime e, vista la povertà imperante, metodi per metterne in corpo, di calorie, ve n'erano veramente pochi) ed in tale necessità con argute risposte, con perspicaci riflessioni e in virtù delle sacrosante norme del reciproco rispetto... emergeva anche dal sommerso culturale (la dabbenaggine dei protagonisti delle nostre storie) un'immensa, sana ed insostituibile, sapienza popolare.

Detto ciò, non ce ne vogliano a male i discendenti di "Michele 'e Saraca" (Lio), ma ci siano riconoscenti per aver salvato questa "scena" del loro glorioso passato. Non ce ne vogliano se riportiamo un simpatico racconto di cui è stato protagonista (agli inizi del 1900) questo loro altrettanto simpatico ed impareggiabile avo.

*   *   *

Siamo intorno al 1900 e il barone in carica della casata dei Miceli, fatta abbattere qualche mese prima una secolare quercia all'interno dell'omonima villa di sua proprietà ai confini tra Rende e San Fili, contemplando i grossi ceppi (muzzuni) stagionati che n'erano scaturiti... non poteva fare a meno di pensare a quanto gli stessi gli sarebbero stati comodi, per la brutta stagione che ormai pressava all'uscio, nei vari caminetti delle sue abitazioni.

Inutile dire che il legno di quercia, per giunta stagionato, e alquanto duro da lavorare e come tale difficile da spaccare se non si ha una buona dose di muscoli e tecnica a disposizione. Agli inizi del '900, tra l'altro, si era ancora ben lontani dagli anni in cui verranno brevettati utensili quali motosega e affini).

Non trovando tra i suoi coloni (villici?) gente in grado di portare a termine tale lavoro (spaccare i summenzionati ceppi), chiese al suo fattore "zu Franciscu" d'individuare tra i suoi conoscenti qualche soggetto idoneo a fare ciò: il tutto a prezzo stabilito!

L'oculata scelta di "zu Franciscu" cadde su un certo Michele Lio detto anche "Saraca".

Erano le tre di notte del giorno successivo quando Michele, armato di una spaventosa scure (accetta) giungerà sul posto dove erano riposti i ceppi di quercia. Una spaventosa scure che, sembra, tanto era grossa e poco maneggevole, solo lui, o ben pochi, erano in grado di maneggiare nel circondario.

Ancora oggi qualche nostro anziano sanfilese nell'osservare qualche scure d'una certa stazza, non può fare a meno di citare l'ancor più proverbiale "'ccett'e Saraca"!

Non crei meraviglia l'ora in cui il Michele si recò a Villa Miceli... per quei tempi era cosa più che normale e comune a più d'una persona recarsi a certe ore sul luogo di lavoro (o quantomeno intraprenderne il viaggio)... si era ben lontani, all'epoca, dal peso che oggi devono sopportare i pubblici dipendenti costretti da un regime malsano, inumano e dittatoriale a presentarsi alle otto in ufficio.

Ritornando alla nostra storia, alle sette di mattina i "muzzuni" (che non erano certo quattro o cinque) erano tutti ben spaccati e la legna ottenutane debitamente accatastata. Poche ore e poche alzate di mano per iniziare e portare a termine da solo un lavoro dove sarebbero state necessarie una decina di braccia.

Dal canto suo Michele, con a fianco la sua mitica scure, seduto per terra con le spalle poggiate al suo lavoro, stava masticandosi in dolce e fresca tranquillità una manciata d'ottimo tabacco.

Così lo trovò, non molto tempo dopo, il barone Miceli giunto sul posto col suo calesse.

Il barone, meravigliato di quanto si mostrava ai suoi occhi, sforzandosi di far finta di niente, pagò il pattuito al nostro laborioso e simpatico personaggio regalando allo stesso, a mo' di riconoscenza (considerato quanto aveva risparmiato limitandosi a chiamare un solo insostituibile lavorante al posto di cinque o sei inutili braccianti), tra l'altro "nu pane casarulu 'e farina jianca, nu vuhjiu e na pezz'e casu".

Cosa certamente più apprezzata da Michele Saraca fu però l'autorizzazione che gli dette il barone ad andare alla cantina che i Miceli avevano al paese (ossia "a Grutt'e Chiarieddru") e dire al cantiniere di fargli bere alla sua salute quanto vino gli andasse in corpo... a pagare ci avrebbe pensato poi il nobiluomo.

"Baru'!", disse il Michele con voce scaltra ma servile, "... no ppe minde 'ndubbiu a parola 'e Vussuria, ma vui pensati veramente ca l'oste poni cride a chiru chi mi dicit'e cce riferire? ... mu facissiti, ppe riguardu, nu bigliettuzzu de cce cunsegnare a chiru siarvu vuastru?".

Avuto quanto richiesto al barone, Michel'e Saraca gettatasi sulla spalla la sua grossa ascia, assieme alla bisaccia dove aveva riposto il ben di Dio che gli era stato regalato, quatto quatto prese la via del ritorno al paese. La sua agognata meta, inutile dirlo, era esattamente la fornitissima cantina dei Miceli.

Non gli ci volle certo molto al nostro personaggio per raggiungere e varcare l'entrata "da Grutt'e Chiarieddru" (stiamo parlando di un uomo d'oltre due metri e con una corporatura da far paura anche ad un toro inferocito). Preso posto ad un tavolo in un angoletto, tolto dalla bisaccia il pane assieme al formaggio, fece segno all'oste d'avvicinarsi mostrando nel contempo allo stesso il biglietto autografo del barone.

Pochi minuti dopo l'oste, rispettando la media e non solo tirando le parti del padrone, posò sul tavolo dell'avventore "na cannata (circa due litri) curma curma 'e vinu", dicendogli: "Vìveti chissu e pue vatinne buanu buanu ara casa!".

Il Saraca prende il fatto a mo' di offesa personale: due soli litri di vino? ... eppure il barone aveva detto, senza giri di parole, "quanto vino gli andasse in corpo"? ... il barone l'aveva messo pure per iscritto tutto ciò e la parola del barone non poteva certo essere messa in discussione.

Due soli litri di vino, dopotutto, a Michel'e Saraca sarebbero bastati appena a inumidirgli la gola.

Bloccato il cantiniere per una mano, dirà allo stesso: "Compa'... va inchjia subitu u cannatune...", (un recipiente di circa una decina di litri), "... buanu buanu. Ppe piacire nun mi fa 'ncavulare, si'nno, a vi sa 'ccetta? ... ti fazzu a dui curmi cumu i muzzuni c'ajiu spaccatu stamatina 'nta proprietà du barune!!!".

*   *   *

"U cannatune" fu svuotato senza grossi sforzi, quel giorno stesso, dal nostro Michele. Dite che esageriamo? ... dite che non è possibile che un uomo, seppur di due metri e di dura corazza, possa bere da solo e in poche ore una decina di litri di vino? ... e se vi raccontassimo allora di quando Michel'e Saraca trangugiò nel men che non si dica "nu mianzu varrile 'e mustu" (circa 15 litri)?

Anche questo faceva parte, e lo diciamo con fierezza, dei racconti del focolare dei nostri nonni.

Nessun commento: