Articolo
di Pietro Perri.
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Il
fico, frutto antico come il mondo antico era ben conosciuto ed apprezzato dai
Greci, dagli Asiatici e dagli stessi Ebrei dell'Antico Testamento.
L'origine
di San Fili più volte, seppur fantasiosamente (essendoci solo degli indizi e
non delle documentazioni comprovabili) l'abbiamo indirizzato verso un'origine
greca. Fantasiosamente ma fino ad un certo punto, se si considera che i comuni
circostanti sono tutti o quasi d'origine greca, ed alcune "arti" (ceramilari
ecc.) praticate dagli avi dei residenti discendono dalla scuola ellenica.
I
fichi, un frutto, nelle sue mille ed una varietà, di una squisitezza unica.
Presso
gli antichi, inoltre, il lattice del fico era utilizzato per la preparazione
dei formaggi e per intenerire la carne. Le foglie di fico, inoltre, sembra che
puliscano perfettamente pentole ed utensili diversi... comunque il loro
materiale residuo non inquina, così come succede con gli attuali detersivi.
Ricchi
di zucchero, proteine, lipidi, fosforo (questo, forse, giustifica
l'intelligenza dei sanfilesi dei bei tempi che furono), calcio e oligoelementi,
nonché vitamina PP e C associata a vitamina A e B: cosa si può chiedere di più
da un semplice frutto?
I
Sanfilesi dei bei tempi che furono (periodo ante 1970, visto che con l'avvento
di tale anno si chiude, non solo per San Fili, un'epoca) apprezzavano
moltissimo questo frutto, tanto da consumarlo e conservarlo in decine di modi
diversi, non ultimo i famosi fichi bianchi (ficu jianche) o secchi:
"appassulate ara chjanta e siccate aru sule supra nu cannizzu".
Vengono (o venivano) a tal punto appiattite per bene e quindi riposte in un
boccaccio o in un vasetto.
Ottime,
le ficu jianche sanfilesi, da mangiare direttamente.
Bollite,
una volta venivano utilizzate per ricavarne uno sciroppo naturale per la tosse.
Vere
e proprie leccornie, con l'utilizzo dei fichi secchi, a San Fili erano comunque
ottenute tramite la cottura in forno delle stesse: siamo in un periodo in cui,
nelle campagne sanfilesi, ogni abitazione rurale (ma a volte anche fabbricati
del centro abitato) aveva a sua disposizione un forno a legna costruito a
ridosso o all'interno della stessa.
Chi
non aveva un forno a disposizione, comunque, non aveva certo da preoccuparsi
molto, potendo utilizzare, dietro un giusto corrispettivo, uno dei tre forni
pubblici che c'erano nel paese.
Dal
forno uscivano le gustose "crucette" (quattro fichi aperte a
meta, opportunamente incrociate al cui interno venivano messe delle noci e
quindi infornate), le famose "jette" (fichi bianche infilate
in una listella di canna, bloccate ai margini della listella con un particolare
sistema ricavato da un pezzo della canna stessa e quindi infornate), i famosi
"paddruni de ficu" e gli stessi fichi bianchi cotti al forno
"ntra na lagna".
E'
opportuno sottolineare che per i "paddruni de ficu" e per i
fichi cotti al forno (per la serie "na vota un si jiettava nente")
si utilizzavano i fichi di scarto del "cannizzu" ossia quelli
che, dopo essiccati, presentavano qualche macchia esterna o risultavano
rovinati in modo rilevante dagli insetti o dagli uccelli (api e company).
Le
crucette venivano conservate per l'inverno in boccacci mentre ficu
'nfurnate e jette venivano riposte dentro casciuni o vancariaddri dove
prima si era sistemato un foglio di carta oliata. Tali prodotti, è bene
precisarlo, data la loro dolcezza era necessario mangiarli col pane.
A
cuocere dentro il forno a legna troviamo anche le famose "ficu scantate".
ossia il vero e proprio scarto dei fichi bianchi ovvero dei cannizzi. Si
tratta dei fichi piccoli e quindi non lavorabili diversamente. Tali fichi
venivano lasciate "a riposare" nel forno (quello stesso forno appena
utilizzato per le ficu 'nfurnate) per l'intera nottata.
Le
ficu 'nfurnate nel forno, a cuocere, c'erano state invece all'incirca
quattro ore.
E
poi diciamocelo pure: mangiare un bel fico appena colto dalla pianta, non
dispiace nemmeno. Attenzione però se salite sulla pianta per raccogliere i
fichi: copritevi bene le braccia... il suo latte, altamente irritante, non
perdona.
Malgrado,
e a dispetto della fama che si era creato intorno al proprio nome, San Fili non
ha mai garantito una produzione ottimale di fichi, sia dal punto di vista
quantitativo che qualitativo. Eppure persino una delle contrade del nostro
paese, quasi certamente in onore a questo imparagonabile frutto, arriva a
prendere il nome di "Prufico".
I
fichi direttamente prodotti nelle zone più o meno umide (il vento e l'acqua a
San Fili grazie a Dio non ci è mai mancati... almeno finora!), infatti, sono
buoni più che altro per ricavarne miele, ficu 'nfurnate e similari:
tutto, cioè, tranne che fichi secchi o bianchi.
Le
piante di fico pur essendo, tramite le radici, veri e propri vampiri
insaziabili d'acqua, poco gradiscono sul loro frutto l'acqua piovana. Bastano
poche gocce, quando il frutto è quasi giunto a maturazione, per ottenere delle
pessime "ficu trisingate" (aperte a fiore) ovvero a
"vucca spalancata".
C'è
comunque da sottolineare che nel momento in cui noi parliamo di territorio di
San Fili (o dei sanfilesi), anche se i confini politici non ci sono del tutto
favorevoli, non possiamo, né potevamo in altri tempi, non considerare nello
stesso alcune località (appartenenti a comuni limitrofi al nostro) quali
contrada Cucchiano e parte del territorio di San Vincenzo la
Costa (zona "du Palazzieddru", dei "Gralati"
e via dicendo). Contrade queste in cui diversi nostri concittadini da secoli
hanno avuto proprietà terriere,
Buona
parte del territorio di San Vincenzo la costa (incluso le succitate), di fatto,
sono impareggiabili per questo e tanti altri tipi di piantagione (ulivi ecc.);
ed è proprio da tali zone che ci veniva garantita buona parte dei fichi che noi
sanfilesi (grazie più che altro alle fortunate vie di comunicazione che
attraversavano il nostro comune) lavoravamo e quindi commercializzavamo in modo
encomiabile.
Quanti
bei nomi di questo stupendo albero vanno via via perdendosi nella memoria dei
nostri anziani: ficu truiana, paravisu (ottima da mangiare appena colta
ma utilizzata anche per alimentare maiali e galline), culumbru, vajaneddra,
viscuvile e paulineddra. Ficu nivura, lattarula, cu ra lacrima, senza lacrima e
sanguinara. Fichi di primavera (profico o caprifico), d'estate e d'estate
inoltrata.
Un
bene inestimabile, quello della memoria storica (spesso semplicemente dal punto
di vista popolare), che se non facciamo qualcosa per recuperarlo al più presto,
della irreparabile perdita dovremmo farcene una colpa per l'intero resto della
nostra esistenza. Alla memoria storica dei nostri anziani, tra l'altro, è
legata la sopravvivenza della nostra stessa comunità in quanto, come mi piace
sempre più sottolineare, non può esistere una comunità o un popolo che dir si
voglia se allo stesso non gli si dà una valida ragione per esistere e tale
ragione non può che essere la propria memoria storica.
Un'altra
delle squisitezze che riuscivano a ricavare (usanza che non si è del tutto
persa) le mani d'oro dei sanfilesi dai fichi era il "miele" o, come
lo chiamano forse più giustamente i polentoni, il "vino cotto di
fichi".
Il
miele di fichi è alla base della tradizione dolciaria sanfilese, con esso
(amalgamandolo con la neve) si ottiene un gustosissimo gelato naturale chiamato
"scirubetta". Il miele di fichi lo troviamo a carnevale nella
"chjina", a Natale ci imbeviamo i "turdiddri"
(alcuni amano inzupparci persino i "cuddruriaddri" ancora
caldi) e in prossimità di San Giuseppe lo ritroviamo nei "mustazzuali"
(farina impastata col miele e quindi messa a cuocere in forno, di quest'ultimo
dolce comunque a San Fili si è un po' persa la memoria).
Per
fare il miele di fichi si utilizzano fichi bianchi e neri possibilmente in pari
misura (ne bastano quattro o cinque chili dell'uno e dell'altro tipo), ben
maturi e dolci. Possibilmente non aperti a fiore (a vucca spalancata),
ovvero non raccolti dopo una giornata di pioggia.
I
fichi vanno tagliati a metà e quindi messi, coperti d'acqua, a bollire in un
pentolone (na quadara) per circa cinque o sei ore a fuoco lento e
rimestando quasi ininterrottamente.
Giunti
a questo punto bisogna colare il tutto in un secondo pentolone filtrando la
parte liquida con l'aiuto di una tela di garza (una volta si usava, per
quest'operazione, mettere il magico intruglio in un sacco di tela di lino),
così facendo si separa la parte liquida dai semi e dalle bucce.
Si
rimette il tutto sul fuoco, si fa asciugare un paio d'orette ed ecco ottenuto
il tanto desiderato "mele 'e ficu".
Per
la serie "tutto si produceva e nulla si gettava" nella laboriosa cittadina
di San Fili ai bei tempi che furono, c'è da dire che il residuo della
lavorazione del miele di fichi (semi e bucce) finiva in pasto ai maiali ed alle
galline (quando lo stesso, passato al forno, non finiva nelle bocche dei nostri
anziani).
Per
quanto riguarda il lino poi, seppure in minima quantità, lo stesso veniva
coltivato dai contadini sanfilesi.
Poco
utilizzata, e quindi prodotta dalle nostre massaie, era la marmellata di fichi.
Fichi
e olive nere erano alla base, negli anni antecedenti il periodo del boom
economico italiano, delle colazioni degli scolari (e non solo di loro)
sanfilesi.
I
fichi bianchi, frutto della pianta di fico denominata "ficottata",
necessitavano di non poco lavoro ed attentissima cura: appena colti erano posti
ad asciugare al sole su un particolare piano denominato "cannizzu"
in quanto ottenuto con un minuzioso intreccio di canne. Su tale "cannizzu"
i fichi venivano quasi costantemente girati su se stessi finché non prendevano
completamente la loro caratteristica colorazione "bianca".
A
parte ciò c'è da rilevare che i "cannizzi" con sopra i fichi
erano lasciati all'aperto anche di notte, stando in ogni modo attenti che non
venisse a piovere in quanto la pioggia avrebbe danneggiato l'intero prodotto.
Al primo sentore di ciò il bracciante (coltivatore o colono che fosse) doveva
scattare giù dal letto e mettere a riparo il prodotto.
Resta,
a conclusione di questa breve ricerca sulla storia popolare del nostro paese,
da fare un breve ma doveroso cenno sull'industria della lavorazione dei fichi a
San Fili: quello stupendo, per niente breve, periodo che ha reso tanto famosi i
nostri (?) fichi.
Gestita
fino alla fine degli anni sessanta dalla famiglia Lio, ancora oggi l'industria
della lavorazione dei fichi di San Fili è ricordata con sommo piacere. Lo
stabilimento si trovava sotto lo stesso Palazzo Lio (quel
fabbricato che costeggia la "Rampa". In tale stabilimento, dove per
conto della ditta "La Vittoria" di Cosenza, i fichi bianchi,
pervenuti dalle campagne circostanti il territorio sanfilese, venivano scelti,
appiattiti e messi in cestini (formette di legno rivestite all'interno
da carta oleata), ulteriormente pressati, in quantità di circa mezzo chilo.
Alle
dipendenze dei Lio lavoravano, limitatamente al periodo
interessato dal commercio dei fichi bianchi, all'incirca una quarantina di
persone. Molte di queste erano donne e tantissime erano signorine impegnate più
che altro a... farsi il corredo.
C'erano
anche delle persone che giravano per le campagne circostanti il nostro paese
all'incetta di fichi bianchi per conto degli stabilimenti di trasformazione di
San Fili. A Cucchiano (anni '50, anni '60) c'era, a raccogliere i fichi
bianchi nei vari poderi, per conto della ditta "La Vittoria", ad
esempio, un certo Pietru 'e Santu.
Una
storia non tanto breve, dicevo, anche e soprattutto perché pur essendo la
famiglia Lio l'ultima famiglia a commercializzare i fichi di San
Fili, certamente non fu la prima.
Un'altra
famiglia rimasta famosa a San Fili per tale commercio fu la famiglia Giorno,
proprietaria all'epoca dello stabile dove attualmente alloggia la locale
stazione dei Carabinieri.
Nelle
stanze a piano terra del loro stabile, i Giorno avevano i locali adibiti
allo stabilimento e per la lavorazione (impacchettamento ecc.) delle varie
leccornie che a San Fili venivano prodotte con l'utilizzo dei fichi.
Tale
famiglia, per la bontà del prodotto posto sul mercato, fu nominata
"fornitrice ufficiale", di fichi lavorati, della reale Casa Savoia.
Un'onorificenza questa che dava il diritto all'illustre famiglia sanfilese di
riportare tale dicitura sull'etichetta applicata sulla confezione del prodotto
stesso.
Da
sottolineare che i cestini in cui venivano riposte le varie delizie del palato,
venivano prodotti "in loco" con verghe di castagno intrecciate dalle
mani d'oro dei nostri antenati.
Purtroppo,
se fino a qualche tempo fa in un negozio di Corso Mazzini a Cosenza potevo
notare, ridendoci sopra (consapevole che al nostro paese tale "tradizione
secolare" era completamente scomparsa da circa un ventennio), su alcune
confezioni di fichi lavorati una strana e dubbia etichetta riportante la
scritta "fichi di San Fili" non posso fare a meno di dirti, caro
amico lettore, come mi sia venuto un groppo in gola qualche mese addietro,
facendo una gita nei pressi di Scalea... notai, in un bar, delle etichette, su
confezioni di fichi conservati, che ricordavano con una certa violenza
d'immagine il passato glorioso della nostra cittadina.
Su
tali confezioni di fichi, infatti, non compariva più il nome di San Fili ma
quelli di Scalea e zone limitrofe: un vero schiaffo non solo alla memoria
storica di San Fili ma anche alla nostra "incapacità" di creare nuove
e reali forme d'occupazione. Quello che la gente San Fili, amministratori in
prima linea seguiti a ruota libera dai benpensanti locali, si sforza di
dimenticare (forse considerando il tutto un passato tragicamente inglorioso)
per altre comunità calabresi sta diventando la soluzione naturale ad uno dei
peggiori drammi dei nostri anni: la disoccupazione.
Era
giusto concludere questa breve carrellata su "i fichi di San Fili"
dando il meritato spazio ad una leccornia ottenuta con la lavorazione degli
stessi: i famosi "paddruni 'e ficu".
Ottenuti
facendo asciugare nel forno fichi, precedentemente infornati, racchiusi in
foglie della stessa pianta a mo' di pallone... i "paddruni 'e ficu"
vengono tutt'oggi ricordati, assieme ai locali capiccuaddri, vinu
uagliu buanu e sazizze, oltre che per la loro bontà, anche
e soprattutto per il fatto che quando si doveva "jire a trovare 'ncunu"
si sapeva che erano sempre e comunque bene accetti.
Parliamo
giustamente d'altri tempi, così come d'altri tempi parla l'amico Gigino
Aloe nella sua poesia "palloni de ficu", poesia di
seguito riportata:
Ogni
paisi tena pe tradizione
i
cunserva' i prodotti di stagione.
Chini fa
l'uva chini fa i pircochi
San Fili
da millanni fa ri ficu.
I sicca a
ru suli cu i cannizzi
e pue li
mburna pe li da bellizza.
I fa a
crucette cu i nuci i l'annu prima
pue li
cunfeziona e i manda intr'i cestini.
Si ficu
fannu u giru i tuttu u munnu
e l'annu
dopu i circanu i rivonnuu.
Quannu a
San Fili vena n'emigratu
sinn'inchia
i valigie c'ha purtatu.
Quannu
finita a festa si ricoglia
iddru
s'ammuccia e i caccia pe na voglia.
Fatti a
palluni ntri foglie ammucciati
hannu
sarvatu studenti e malati.
Pe putiri
raggiungia nu traguardu
quannu li
mandi aumenta lu riguardu.
Un c'è
chirurgu c'un l'ha ricevuti
pe
sarvare nu poveru malatu.
Cumu
rigalu custa pocu o nenti
però è
assai graditu di la genti.
Quannu ti
fa nimicu u capufficiu
quattru
paddruni i ficu e ci fa paci!
Erano
questi i tempi del libro "Cuore" del De Amicis, oggi se non sganci la
"mazzetta", non solo il chirurgo non t'opera... rischi persino di non
entrare in ospedale (qualcosa comunque dicono stia iniziando a cambiare,
speriamo non in peggio!). La "mazzetta" serve per il posto di lavoro
e il capufficio (spesso figlio di poveri arricchiti, razza tanto odiata da
Bertoldo, dimentichi delle proprie origini) non s'addolcisce certo con quattro
"paddruni 'e ficu"... non gliene basta na camionata!
... ma forse alcuni personaggi della nostra epoca gradirebbero di più una balla
di fieno, bestie quali sono!
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