Nella foto a
sinistra (by Pietro Perri): Semi di mais o granturco. Il mais era una pianta che veniva
coltivata con una certa regolarità dagli agricoltori sanfilesi almeno fino alla
fine degli anni Sessanta. Non era una delle colture principali ma serviva
comunque a dare un guadagno marginale a chi coltivava la terra. Dai semi di
mais si ricavava la farina che veniva usata sia per fare il pane che per fare
la polenta o per fare la deliziosa ‘mpigliolata santufilise.
Spesso,
nell’impaginare il nostro Notiziario Sanfilese, mi è capitato di avere più materiale
a disposizione di quello che mi servisse in quel determinato momento.
Tale
materiale mi veniva gentilmente inviato da alcuni, preziosi seppur saltuari,
collaboratori.
Ho
ritenuto sempre e comunque giusto dare spazio a questi collaboratori penalizzando
a volte o di volta in volta alcuni miei scritti fiume e come tali programmati a
puntate.
Uno
di questi è sicuramente quello relativo alla ‘mpigliolata. Le prime due
puntate dedicate alla ‘mpigliolata le ho pubblicate sul Notiziario
Sanfilese dei mesi di febbraio e di marzo del 2018. E siccome il tema è
particolarmente “gustoso”, per quanto riguarda la nostra Comunità, e visto che
in questo periodo ho un po’ di tempo e spazio in più a disposizione, credo sia
opportuno chiudere il cerchio su questo tema.
Oltretutto
mia madre era un’artista nel preparare l’impasto, nell’infornare e nello
sfornare la ‘mpigliolata. Un’artista come gran parte delle nostre
anziane madri o delle nostre stupende nonne made in San Fili.
A
tutte loro, non solo a mia madre, è dedicato questo mio scritto ricco di
profumi, di sapori e di incancellabili ricordi.
Articolo
pubblicato sul Notiziario Sanfilese del mese di marzo del 2021... by Pietro
Perri.
* * *
Tra
i piatti tipici (o quanto meno “tipici” fino agli inizi degli anni Ottanta del
secolo scorso) della nostra comunità merita di essere ricordata la ‘mpigliolata.
Una vera e propria leccornia, frutto di esperimenti della cucina cosiddetta
“povera” (ma decisamente ed in alcune varianti stracolma di grassi non proprio
buoni per chi fa una vita d’ufficio o quantomeno sedentaria), di cui si
cibavano con una certa regolarità i nostri nonni.
Spulciando
su internet si riesce trovare anche qualche ricetta, reinventata e/o adattata
ai tempi moderni, della ‘mpigliolata sanfilese o quantomeno di qualcosa
cui si può avvicinare alla stessa. Un qualcosa tipo, ad esempio, la pizza di
farina gialla o farina di mais o di granturco che dir si voglia.
Ma,
credetemi, con queste ricette (varianti) la ‘mpigliolata dei nostri
nonni o dei nostri bisnonni ha ben poco a che dividere. Anche perché alla
realizzazione di tali ricette mancano degli ingredienti che, in alcuni casi
anche per ‘ncriscienza, difficilmente riusciremo a mettere assieme.
Provo
ad elencare alcuni di tali ingredienti di non facile (per non sottolinearne a
volte anche l’impossibilità) reperibilità: il granturco coltivato nelle nostre
zone, la realizzazione della farina di granturco tramite i mulini che
utilizzavano macine in pietra, la povertà (che fa apprezzare il poco che si ha
a disposizione), alcuni ingredienti realizzati con metodi antichi quali la salimora
(ciccioli o cicoli o scarafuagli che dir si voglia), le
foglie secche di castagno raccolte nel periodo della casculata (queste
rientrano nell’ambito della ‘ncriscienza ad andare a raccoglierle),
l’amore (nel realizzare certe cose) delle madri o delle nonne per i propri
figli o per i propri nipoti, il forno a legna.
La
capacità di trasmettere tali ricette da madre in figlia. Infatti quando alle
nostre nonne chiedevi quale erano le dosi per realizzare tali prelibatezze la
risposta di queste assassine (mi si conceda questo francesismo almeno in questo
caso) era quasi sempre la stessa: nu pizzicu, nu cucchiaru abbondante,
quantu sinne piglia, ppe tri puni minteccenne, io aju fattu sempre ad
uocchiu...
Quindi
se proprio volete provare a rileggere le ricette “non scritte” delle nostre
nonne o delle nostre bisnonne (per quelli di noi che ancora hanno la fortuna di
averne qualcuna in casa) dimenticatevi di trovarvi difronte a grammi,
millilitri, frazioni di comparazione ed altre diavolerie di pesi e misure dei
nostri tempi.
A
proposito, ho citato le foglie di castagno che, inutile dirlo, non vanno
certamente frullate e messe nell’impasto della ‘mpigliolata. Le foglie
di castagno, infatti, selezionate una per una nel periodo della raccolta delle
castagne e lasciate essiccare sotto la pressa magari di qualche giornale (o
sistemate a mo’ di pacco ed opportunamente legate assieme di modo che col tempo
prendevano comunque una forma quasi piatta) sostituivano in tale frangente la
carta forno da posizionare sulla teglia (‘a lagna?) su cui si sarebbe
posto il prezioso impasto prima di passare il tutto in forno. In poche parole
le nostre nonne e le nostre bisnonne non solo avevano anticipato l’avvento
nelle nostre zone della carta da forno ma avevano fatto tutto ciò nel massimo
rispetto che si potrebbe rendere alla natura stessa.
Meno
inquinamento (in quanto la carta forno è un prodotto tutt’altro che facile da
riciclare) e meno alberi da tagliare (magari dei castagni) per realizzare la
carta forno stessa.
Cosa
si potrebbe desiderare di più?
Nulla!
Eppure
qualcosa in più le foglie di castagno all’intruglio che avrebbe dato in seguito
vita al prodotto finito (la ‘mpigliolata appena sfornata) ce l’avrebbero
dato e con tutto il cuore.
Grazie
alle foglie di castagno, o per meglio dire al tannino (qualcuno mi corregga
pure se sbaglio) in esse contenuto, infatti la ‘mpigliolata riusciva a
prendere un aroma in più che, mischiato al resto degli ingredienti, la rendeva
veramente unica.
Finché
è stata viva ed attiva mia madre, ovvero fino 2016 o al 2017 non mancava anno
in cui la stessa non ci facesse gradito dono almeno un paio di volte all’anno
di questo suo stupendo alchemico intruglio. Un intruglio che risvegliava tutti
i nostri sensi.
(continua).
* * *
Un
caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.
...
/pace ma... “si vis pacem para bellum”!
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