Foto
a sinistra: San Fili anni Quaranta (1930-1940) - le carcare a
Polveracchio.
Foto
del maestro De Franco - Archivio Francesco (Ciccio) Cirillo.
Il
patrimonio fotografico raccolto in decenni di preziosa esistenza dal compianto
Francesco (Ciccio) Cirillo è decisamente inestimabile sia per San Fili che per
la Calabria intera. Purtroppo di tale patrimonio se ne sono impossessati dei
privati e, come tante belle cos
e, sta finendo per sparire nel dimenticatoio generale.
Personalmente
quel poco di cui sono riuscito a venire in possesso lo sto mettendo a
disposizione di tutti... perché è un patrimonio di tutti.
Anche
per onorare la memoria del compianto amico Francesco (Ciccio) Cirillo.
Ed
ovviamente un grazie al maestro De Franco per aver consegnato la San Fili dei
primi del Novecento ai suoi posteri.
* * *
facilmente
raggiungibile dalla superstrada che congiunge Paola con Cosenza, ma fino ad una
cinquantina di anni orsono (quando ancora non era servito dalla "truscia"), le
cose decisamente non erano così semplici.
Se
da una parte ciò rendeva difficili gli interscambi (sia economici che
culturali) con le realtà urbane confinanti, da un altro punto di vista era
garantita la conservazione di alcune tradizioni e la comunità sanfilese era
costretta a rendersi il più autonoma possibile.
Prendiamo il caso dell'edilizia: San Fili era una vera e propria ricchezza nel campo. La calce, ad esempio, veniva prodotta in loco nelle famose "carcare" (restano ancora vivi i nomi di alcune zone come "u Carcarune", vicino i mulini ad acqua di Bruno e Costantino, oppure quella situata "sutta u girune de Panarieddru", vicino al bivio per Falconara, ed un'altra ancora è ricordata "ara petra da cavuce" nei pressi della località Macchia Posta).
Gli operai delle "carcare" cuocevano una pietra particolare per produrre la calce e la stessa veniva quindi venduta alle varie imprese edili.
Dette imprese la mettevano a bagno in grosse vasche
rudimentali (tale processo veniva detto "a spugnatura"). Si
aveva in tal modo la calce liquida, di colore bianco con striature marroncino (secondo
alcuni, migliore di quella di adesso). La calce in queste vasche bolliva ed era
decisamente pericoloso finirci dentro. A questa calce, in fase di uso, veniva
mischiato un cemento particolare detto "puzzolane".
"U
Carcarune" funzionò fino
agli inizi degli anni sessanta mentre "a petra a
cavuce" era già in disuso intorno agli anni 50. Queste
ultime due "carcare" appartenevano a Donn'Oscaru
Gentile mentre quella sita "sutta u girune de
Panarieddru" era di proprietà dei Miceli.
C'è
da dire infine che tale calce veniva usata anche per pitturare le abitazioni. I
contadini, inoltre, usavano dare "na manu de cavuce" anche
ai ricoveri degli animali considerandola un ottimo disinfettante,
insostituibile inoltre per bloccare in agricoltura per bloccare l'aumento di
alcuni parassiti di piante da frutto.
Dalle
varie "carcare" (così era chiamato l'altoforno in
cui per quarantotto ininterrotte ore era messa a cuocere la pietra), la calce
(in pietra cotta) veniva trasportata con i muli in sacchi di canapa.
La comparsa del trasporto su quattro ruote, con una maggiore economicità e praticità, distrusse l'industria della calce locale: il progresso iniziava a fare la sua entrata trionfale per le strade di San Fili.
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