SAN FILI BY PIETRO PERRI BLOG: ARTIGIANATO E COMMERCIO A SAN FILI: Le cantine di San Fili.

A chi non ha il coraggio di firmarsi ma non si vergogna di offendere anche a chi non (?) lo merita.

Eventuali commenti a post di questo blog non verranno pubblicati sia se offensivi per l'opinione pubblica e sia se non sottoscritti dai relativi autori. Se non avete il coraggio di firmarvi e quindi di rendervi civilmente rintracciabili... siete pregati di tesorizzare il vostro prezioso tempo in modo più intelligente (se vi sforzate un pochino magari per sbaglio ci riuscirete pure).
* * *
Ricordo ad ogni buon file l'indirizzo di posta elettronica legata a questo sito/blog: pietroperri@sanfili.net

sabato 14 maggio 2022

ARTIGIANATO E COMMERCIO A SAN FILI: Le cantine di San Fili.

 

San Fili 1998 - Scesa de "Chiarieddru" (via Roma). Giovanni Calomeni (sulla destra) mi mostra i resti della mitica "Grotta Azzurra". Alla sua sinistra l'amico comune prof. Cesare Gentile.

Foto Pietro Perri.

Serie di articoli pubblicati sul quindicinale "l'occhio" tra gennaio e luglio 2000 firmati da Pietro Perri.

 

Premessa d'obbligo dell'autore

 

Lungi dal voler dare dell'ubriacone a qualche compaesano, mi è sembrato giusto trattare di un fenomeno sociale che fino agli anni sessanta (1960) inoltrati ha interessato la nostra comunità: l'imponente presenza delle cantine nell'area urbana di San Fili.

 

* * *

Accanto alla storia riportata dai libri, che parla di eroi sempre pronti a sguainare la spada per far valere i loro princìpi, o di pazzi invasati convinti di poter conquistare il mondo nel giro di poche decine di giorni... accanto a questa storia che si ricorda della gente solo per citarne l'enorme numero dei caduti in battaglia, c'è una storia molto più bella e come tale ineguagliabile: la storia popolare.

La storia popolare, spesso in buona parte frutto di fantasia (nata e deviata dal gioco del passaparola tra padre figlio e nipote), se è priva di una esatta e perfettamente individuabile datazione, è pur sempre ricca di sentimento, di calore umano, di voglia e piacere d'essere raccontata.

La storia popolare è di fatto la vera ed unica storia d'una comunità.

* * *

(...) questa volta voglio parlarti, amico lettore (se ci sei batti pure un colpo... evitando però di colpirmi alla testa), delle cantine che in altri tempi erano presenti nel nostro centro abitato. In altri tempi, in quanto parliamo di un periodo compreso all'incirca tra il 1850 ed il 1960.

Erano tempi, quelli dell'inizio del 1900, in cui a San Fili (ed il resto del mondo non era poi tanto differente) non si parlava ancora di bar propriamente detti (ricordate ancora la storica insegna "du Caffè 'e Sarvature Blasi" detto "u Bagnaruatu"? ... ricordate quant'era bella e caratteristica? ... altro che quelle deturpanti insegne luminose dei giorni nostri!), non si conosceva ancora la Coca (...) e i malefici coloranti presenti in tanti liquori ed in tante bibite gassate.

La stessa birra era alquanto lontana dal prendere il sopravvento nel quotidiano consumo bevande alcoliche leggere.

Al posto dei bar, all'epoca, avevamo le cantine. Tra l'altro qualche bar (vedasi il caso del bar Sammarco) nasceva come cantina e solo successivamente si tramutava nel bar gestito prima dal padre e successivamente dal nostro simpatico compaesano Gigetto.

Per molti anni, tra l'altro, dopo la nascita dei primi bar, all'interno degli stessi si poteva consumare, senza problemi, un buon bicchiere di vino.

C'è da dire inoltre che a San Fili esistevano cantine propriamente dette ma alcune di loro più che essere delle semplici cantine erano vere e proprie osterie o, per l'epoca, dei ristoranti necessari a rifocillare quanti dalla costa tirrenica dovevano raggiungere Cosenza e zone limitrofe (o viceversa).

San Fili era il punto di centro e se rammentiamo che per vedere autobus (truscia) e treni bisogna aspettare gli anni venti, possiamo ben capire cosa significasse la sua posizione geografica per i viaggiatori (appiedati, a cavallo o che facessero uso della diligenza).

 

Le cantine di San Fili: la "Grotta azzurra".

Erano veramente tantissime le cantine che operarono fino agli anni sessanta (1960) inoltrati nell'abitato di San Fili: un vero e proprio fenomeno sociale giustificato più che altro dall'epoca in cui li troviamo attive. Un'epoca (1900/1950) questa in cui non potevamo certamente parlare di bar così come oggi l'intendiamo e pertanto le cantine sopperivano all'assenza di questi ultimi e fungevano quindi da veri e propri centri di aggregazione sociale.

Nelle cantine, infatti, non c'era il semplice smercio di vino, ma tutta una serie di attività ricreative, di ristoro e di aggregazione sociale successivamente assorbite sia dagli attuali bar, dalle attuali pensioni che dagli attuali ristoranti.

Le cantine (...) erano sparse un po' per tutto il centro abitato di San Fili: ne troviamo infatti sul corso XX Settembre (certamente in numero maggiore) ma anche nella Chiazza ("Jiazza"?), sulla strada che conduceva alla stazione, in alcune caratteristiche viuzze (vineddre) e via dicendo.

A proposito della significativa presenza delle cantine sul territorio di San Fili, vi racconto di seguito un aneddoto riferitomi da un caro e simpatico compaesano (... Mario Oliva, per intenderci)..

Si racconta di una famiglia che abitava alla periferia del paese, una famiglia cui non dispiaceva farsi il proprio bicchiere di vino quotidiano (nella vita di campagna, col lavoro nei campi, tra l'altro questo più che un piacere diventava quasi una necessità) e che, finita la propria riserva di vino, la moglie dicesse al marito: "Fatti n'esciuta 'ntru paise, gira ppe ncuna cantina, e du miegliu vinu ca truavi cumprane nu garrafùne".

Detto fatto, preso il suo contenitore il brav'uomo (cui eviteremo per ovvi motivi di fare il nome - dicono che si chiamasse Lisandru) si avventurò in quella che si dimostrò una vera e propria epica impresa... finita decisamente nelle ore piccole.

Rientrato a casa, ubriaco fradicio e con il contenitore del vino vuoto, alla richiesta di chiarimenti in merito rivoltagli dalla consorte, rispose: "Muglie', tutt'è diciuattu cantine 'e Santu Fili m'aju fattu e 'nta tutte e vippitu u quartu 'e vinu chi m'hannu datu ppe assaggiu. A dire u veru m'è sembratu tuttu buanu ed è statu impossibile sceglie qual'era u miegliu per u portare ara casa. Volia fare n'atru giru ppe tutt'e cantine, ma l'ura tarda un mi nna dat'u tiampu. Ce rituarnu duman'a sira... e vidi ca stavota ti puartu u garrafùne curmu curmu!".

Da questo aneddoto, tralasciando la dabbenaggine dei protagonisti, si capisce quante fossero, all'incirca, in un determinato periodo le cantine operanti a San Fili (che se non erano proprio diciotto, sicuramente non erano meno di quindici).

La più antica cantina operante a San Fili (accertata a memoria d'uomo... la ricerca storica, per non invadere un campo non mio, la lascio fare agli storici!) sembra sia stata quella dei baroni Miceli (già operante tra il 1600 ed il 1700). Tale cantina era, tra l'altro, l'unica cantina sanfilese ad avere uno spaccio di vino prodotto dagli stessi proprietari della cantina.

Inutile dire che San Fili, come già più volte ribadito, se si esclude la produzione di castagne e di pochissimi altri prodotti della terra, non eccelleva né eccelle in determinate coltivazioni e la vite rientra a pieno titolo in tale campo. Tale pianta, infatti, non predilige certamente le zone umide e piovose. C'è da dire però che l'uva fragola (dalla quale si ottiene un ottimo vino naturalmente aromatico) di San Fili è una vera delizia per il palato... peccato se ne siano dimenticati i sanfilesi!

La cantina dei Miceli, situata alla scesa di via Roma (Chiarieddru, per i sanfilesi d.o.c.!), una delle poche stupende ed impareggiabili scalinate realizzate in pietra di fiume ed ancora non completamente distrutte dai nostri laboriosi ed insostituibili amministratori trentennali (per la serie: "come hanno distrutto loro, non distruggono neanche i bombardamenti degli americani"!), conosciuta nell'ambiente degli intenditori per diversi decenni come "la Grotta", fu gestita dagli inizi del 1900 e fino al 1930 circa da un certo Ferdinando "Cacavineddra" .

Ferdinando "Cacavineddra" vendeva il vino dei Miceli ottenendone in cambio una percentuale sul guadagno. Dal 1930 in poi (esattamente fino al 1977) "la Grotta" sarà gestita da Salvatore Calomeni cui subentrerà successivamente il figlio Giovanni. Giovanni Calomeni non solo gestirà (seppure per un breve periodo, tenuto conto che il mondo iniziava tragicamente a cambiare) detta cantina ma finirà per acquistarne dai Miceli gli stessi locali.

Giovanni Calomeni inoltre affiancherà al nome di "Grotta" il qualificativo di "azzurra", dipingendone tra l'altro con tale colore l'accesso alla stessa.

Il nostro compaesano Giovanni Calomeni (persona affabile che noi ricordiamo anche per la sua ultradecennale macelleria 'mmianzu u puantu) tra l'altro volendo rompere la secolare tradizione d'acquistare il vino (o quantomeno il mosto) da vendere a San Fili nei paesi a ridosso di Cosenza (Zumpano, Donnici ecc.) così com'era sempre stato fatto dai gestori delle nostre cantine, ebbe la felice idea d'organizzare nei pressi di piazza Rinacchio (nei magazzini sottostanti dell'abitazione dei Palermo) un locale per la trasformazione, su larga scala, dell'uva in mosto (nu parmiantu). Uva che il Calomeni acquistava direttamente in Puglia. Tale parmientu fu operativo negli anni compresi tra il 1965 e il 1980.

Personalmente ancora ricordo (anche perché per un certo periodo tra queste vi furono i miei genitori) le numerose persone (donne e uomini) che vi lavoravano nel periodo della vendemmia. Era anche questo un modo come un altro per aiutare l'economia non sempre rosea di alcune famiglie della nostra comunità.

 

Le cantine di San Fili... le più gettonate.

Se la più antica cantina operante a San Fili si pensa fosse stata quella dei Miceli (ara scisa 'e Chiarieddru) l'ultima ad essere ricordata, attiva fino a poco tempo addietro, è certamente quella gestita dalla famiglia di Angiluzzu Cersosimo (a cantina 'e Bifarelli).

Quest'ultima cantina (più che cantina una vera e propria piccola osteria) aveva sede nei magazzini che in altri tempi ospitarono il celebre frantoio di Donn'Oscaru Gentile, e che si trovano al di sotto (in parte) della Chiesa del Carmine.

Prima del 1950 le cantine erano uno dei pochi svaghi offerti ai sanfilesi che per una intera giornata si erano dedicati anima e corpo al lavoro di braccia. Nei periodi in cui tra l'altro si lavorava anche e spesso solo per la gloria, alcuni compaesani dai padroni venivano pagati spesso e volentieri solo con tale moneta... ossia un buon bicchiere di vino nelle locali cantine.

(...) Il vino servito ai tavoli dai numerosi osti (cantinieri?) del paese era quasi esclusivamente rosso e decisamente alcolico: a volte (a seconda delle annate) raggiungeva persino i quattordici o quindici gradi. Tale vino, ancora mosto, veniva acquistato "a chira vann'e Crati" (Castiglione Cosentino, Zumpano, Donnici ecc.), messo in otri e trasportato a San Fili su carri trainati da muli.

I piccoli spacci di vino locali, comunque, spesso e volentieri più che acquistare mosto, periodicamente acquistavano da grossisti della provincia direttamente il vino necessario allo svolgersi della loro attività commerciale.

Parlando con alcuni compaesani di quella che fu la loro giovinezza in merito alle locali cantine (... inutile dire che nessuno di loro mi ha confessato se fosse stato o meno un buon bevitore ed un altrettanto buon frequentatore di tali pubblici esercizi), sono stati quasi tutti concordi nell'affermare che le migliori e più ricercate cantine del paese, senza nulla togliere alle altre, sono state quella dei Miceli e quella di Peppino Cesario ('Ntonapa).

Della prima (gestita tra l'altro da Salvatore e Giovanni Calomeni) ne abbiamo parlato in un precedente capitolo, della seconda c'è da dire che venne realizzata a San Fili agli inizi del 1900 da un certo Gerardo De Marco nei pressi della vecchia sede municipale del nostro comune (all'incirca di fronte all'attuale sede bancaria). Questi, originario di Zumpano, era imparentato con il nostro compaesano Peppino Cesario al quale successivamente cedette la licenza.

Peppino Cesario trasferirà la cantina in alcuni locali nei pressi di Piazza San Giovanni e quivi resterà fino alla chiusura della stessa gestita, nell'ultimo periodo (anni ottanta), da Micuzzu Sergi.

La cantina del Cesario era preferita alle altre anche per il fatto che non solo era alquanto strategica la posizione del locale (trovandosi non solo nei pressi di piazza San Giovanni e, per l'epoca, anche all'inizio del paese), ma anche e soprattutto per il luogo accogliente e riparato che permetteva a combriccole di amici di organizzare vere e proprie ciambotte.

Di tale periodo ancora oggi, in un angoletto seppur minuscolo della nostra memoria, ci restano i nomi di alcune misure utilizzate all'epoca nelle nostre (dico "nostre" in quanto volenti o nolenti fanno parte della "nostra cultura storica") cantine quali "a cannata" (boccale di terracotta con una capacità di circa un litro e mezzo), "a menzacannata", "nu quartu" (250 centilitri) e "u quartucciu" (circa un litro).

 

Le cantine di San Filisarache e gazzose.

L'hobby preferito dai frequentatori delle cantine sanfilesi oltre, s'intende, a quello di bere un buon bicchiere di vino con gli amici, era il gioco delle carte... non me ne vogliano pertanto alcuni compaesani quando affermo che il Centro di Aggregazione Sociale del paese più che fungere ad all'alta funzione per cui era stato istituito... altro non si è rivelato se non una cantina e per giunta anche di pessima qualità (tenuto conto che all'interno della stessa, malgrado si giochi a carte, non circola neanche del buon vino vino).

Una delle cantine, che tra l'altro ricordo anch'io (non per averle frequentate, in quanto troppo piccolo all'epoca), era quella di Cesario Raffaele (Ramagliu) che si trovava tra la casa del nostro collaboratore Franco (Ciccio) Gentile e l'attuale negozio alimentari del compaesano Minuzzu Urso (nei pressi di quell'opera, vanto dei Borboni e vergogna della Sinistra Sanfilese degli anni settanta, conosciuta come il "Muraglione"). Sull'entrata c'era una insegna (presumibilmente realizzata su un pezzo di masonite) riportante il disegno di un fiasco di vino e di fianco la scritta "osteria".

Collegato (con una porta intercomunicante) alla cantina, Raffaele Cesario aveva un piccolo negozio d'alimentari e pertanto i clienti dell'osteria potevano usufruire, delizia del palato, anche di quanto offriva loro tale negozio. Leccornia divina e certamente golosità ricercatissima dagli intenditori (ossia dagli esperti enologi sanfilesi) erano certamente, oltre agli alici e alle sarde salate, le famosissime "sarache" (ossia una specie di aringhe affumicate)... e di questo il negozio d'alimentari di Raffaele Cesario era ben fornito.

Le "sarache", ottimo alimento per accompagnare pane e vino, pungenti se mangiate crude ma decisamente assatanate se fritte o arrostite, ancora oggi dai nostri anziani vengono ricordate per il fatto che dopo essersene cibati abbondantemente, per un lungo tempo (specie di notte) costringono il buongustaio ad ingurgitare grosse dosi d'acqua.

Ancora oggi se si vede qualcuno bere acqua in continuazione non raramente sentiamo qualcuno dei nostri anziani dire nei confronti del povero assetato: "Ma cchi t'ha mangiatu, per casu t'avissi mangiatu sarache o sarde salate?".

... e si dice pure, nel gergo di quelli che furono i frequentatori delle locali cantine sanfilesi, la famosa frase "tri quarti e na gazzosa"... la gazzosa, inutile dirlo, è una bevanda che si miscela ottimamente con il vino (specie quello rosso) dando allo stesso quell'appropriato senso di frizzante ed una giusta correzione di sapore.

Domanda: potevano i Sanfilesi degli anni trenta (1930), con una tale presenza di ottime cantine sul proprio territorio, fare a meno delle gazzose? ... potevano rischiare di restare senza le loro necessarie gazzose o perdere tempo facendosele venire da qualche altro comune della provincia di Cosenza?

Certamente no! ... pertanto non deve meravigliarci se a San Fili (nella prima metà del 1900) ci fosse anche uno stabilimento che produceva ed imbottigliava "gazzose". Il proprietario, voce del popolo voce di Dio, era un certo Michele Noto e lo stabilimento si trovava nei magazzini, di fronte al Muraglione, posti al di sotto del vecchio edificio postale.

Le bottiglie erano di vetro e quale tappo utilizzavano non gli attuali tappi di latta (all'epoca sconosciuti) e neanche i classici tappi di sughero... utilizzavano una pallina (anch'essa di vetro) posta all'interno della bottiglia. Il gas presente nella "gazzosa" spingeva la pallina verso l'alto, questa raggiungeva lo stretto del collo della bottiglia e chiudeva ermeticamente il tutto. Per aprire la bottiglia e quindi berne il contenuto... bastava capovolgerla.

Le bottiglie di "gazzosa" sanfilese, vendute anche ai comuni limitrofi, erano di "un quarto" e assieme ai "tre quarti" di vino facevano esattamente un litro (ossia, complessivamente, il "quartuccio", che era una delle misure di capacità dei sanfilesi dei bei tempi che furono).

Alla fine di questo capitolo, scusate ma mi è d'obbligo, non posso fare a meno di lamentare il fatto che San Fili, precursore dei tempi su diversi aspetti... tra tutte le altre cose... s'è fatto fregare anche la sua bella "fabbrica di gazzose".

Anche questa era una dignitosa forma di occupazione... che oggi ci sarebbe stata certamente utile ai Sanfilesi!

A volte mi chiedo (senza ottenerne risposta plausibile alcuna) come mai a San Fili di tutto ciò che i Sanfilesi (e sottolineo "i Sanfilesi") facciamo d'intelligente... deve restarci in breve tempo tanto fumo e niente arrosto.

 

Le cantine di San Fili: vutti varrili e mianzi tummini.

Il vino, nelle cantine di San Fili, veniva conservato in botti di legno di castagno (pochissime anche in legno di quercia) che andavano da una capacità di cinquanta litri fino a raggiungere i dieci quintali. Intorno al 1970 le botti, per quanto riguarda le cantine sopravvissute al cambiare dei tempi, vennero sostituite da recipienti in vetroresina.

Le botti in alcuni casi (pochi a dire il vero) venivano costruite o comunque riparate da artigiani locali: a San Fili a lavorare vuttivarrilimianzi tummini ecc. ancora si ricorda un certo mastru Fiore (parliamo degli anni intorno al 1930). Questi aveva la bottega all'Airella presso l'abitazione (dove c'è stato ed ancora oggi c'è l'omonimo panificio) di Ottorino Perri.

... e qualcuno ricorda pure, impegnato a costruire varrili e mianzi tummini nei pressi di San Giovanni, un certo mastru Luigi u Peccatu.

Resta ancora il vivo ricordo, a volte un vero e proprio rimpianto, nella memoria dei nostri anziani tra le tante anche della cantina di Gen'e Guffredu (padre del compianto ed indimenticabile compaesano prof. Goffredo Jusi, maestro di vita, per tanti anni, della nostra comunità) aru Spiritu Santu e di Domenico Noto (Farchiottaara Jazza (ai piedi della scesa della Chiesa Madre). Quest'ultima passata prima al figlio Francesco e successivamente venduta a Raffaele Comande'. 

Raffaele Comande' trasferirà successivamente l'esercizio dalla Jazza al pianostrada del palazzo dei Miceli su corso XX Settembre e abbinerà, in quest'ultimo caso, un servizio di ristorante/pizzeria alla cantina stessa.

Come non ricordare poi la cantina di Peppino Cesario (Trotta) al Muraglione (dove attualmente c'è il distributore di benzina di Saverio Montoro, distributore gestito dalla moglie di quest'ultimo) e (tra la seconda metà del 1800 e l'inizio del ventesimo secolo) le cantine di Ghiennarone (all'incirca di fronte all'ex sede municipale di San Fili) nonché quella di Giovanni Gentile (Pasc-kaleddra) detto "u Ghieghiu" (nei pressi della Chiesa del Carmine)?

Giovanni Gentile viene tra l'altro ricordato dai nostri anziani in quanto da piccoli gli stessi venivano simpaticamente minacciati da questo personaggio, nel loro passare davanti alla sua cantina, (con un gesticolare di mano, dita e coltellino) di... tagliar loro "u pingariaddru" se si facevano vedere da quelle parti.

Chissà se questo modo di fare, psicologicamente, in effetti non si sia dimostrato anche un buon modo per diminuire i futuri frequentatori delle cantine sanfilesi!

Resta comunque di fatto che se non si raggiungeva una certa età (compresa tra i quattordici ed i sedici anni) era impossibile poter mettere piede in una cantina: la legge (ma anche una severa morale dell'epoca) non transigeva eccezioni. L'oste rischiava la licenza ed un bel paio di ceffoni, per non dire un calcio in qualche meritevole posto, al giovane avventore non li negava nessuno. Pari sorte capitava al giovane che oltrepassava la soglia di un qualsiasi tabacchino.

(...) Erano altri tempi, erano bambini... e ci credevano, di conseguenza approfittavano dell'assenza sulla porta della cantina de "u Gheghiu" per sgattaiolare di corsa oltre la zona di pericolo.

Non c'era un vero e proprio orario di apertura e chiusura delle cantine: le stesse restavano aperte, in molti casi, senza problemi dalla mattina alla sera inoltrata. Illuminate con lucerne ad uagliu buanu, prima dell'avvento trionfale della luce elettrica (che, è bene ricordarlo, il nostro paesino è stato tra i primi, ancor prima della stessa Cosenza, ad averla per le proprie vie e nelle proprie case... siamo di fatto agli inizi del 1900) e con una concorrenza, tra le diverse cantine del paese, basata principalmente sulla qualità e sulla quantità del prodotto (a parità di prezzo) offerto alla propria clientela.

 

Le cantine di San Fili: Gaetaneddra.

(...) ... la cantina "da scisa 'e Chiarieddru", ovvero "La Grotta" dei Miceli (successivamente "La Grotta Azzurra" dei Calomeni), l'abbiamo detto in una precedente puntata di questa ricerca, a memoria d'uomo è la più antica cantina di San Fili; non abbiamo finora detto però che il dialettale "chiarieddru" (o "chiariellu") in italiano si traduce con le parole "chiarello e vinello".

E' vero che noi Sanfilesi doc con l'appellativo di "Chiarieddru" individuiamo una ben determinata zona "vasata da chiaria" (punto in cui con una certa facilità nelle notti particolarmente fredde la brina si trasforma in gelo), ma è anche bello collegare il luogo dove regnò incontrastata "La Grotta" con il nome del divino elemento (seppure in un diminutivo a volte dispregiativo) che l'ha caratterizzata.

Delle cantine o più precisamente dei posti di ristoro del nostro paese se n'è giustamente interessato anche Francesco Cesario nel suo libro "San Fili nel tempo", in particolare nel paragrafo "Servizio postale - Gaetaneddra (Gaetanella)".

Dopotutto un amante della storia popolare della nostra comunità com'era il prof. Francesco Cesario, non poteva non dare il giusto spazio nel suo capolavoro ad un fenomeno sociale qual era quello del ristoro nel nostro comune agli inizi del ventesimo secolo.

In tale paragrafo leggiamo:

"(...) Il cambio dei cavalli stanchi con quelli freschi avveniva al Muraglione precisamente al largo dinanzi alla casa di Paolo Blasi, ove era sistemata la stalla.

A pochi metri la signora Gaetaneddra , nota ovunque come Zi Teresa a Napoli, gestiva una famosa trattoria.

Qui i viaggiatori sostavano circa un'ora, quanto bastava per gustare le specialità Sanfilesi, costituite dalle tenere soppressate, dai profumati capicolli, dai fusilli caserecci ('nghjùnghjari), dall'ottimo pecorino con la lacrima, il tutto bagnato col gagliardo vino di oltre Crati.

(...) A pochi passi dalla Trattoria di Gaetanella, facevano buoni affari due Ostarie (Taverne). Erano frequentate dai conducenti dei carri, dei traini, delle carrozze, dai viaggiatori di seconda e terza classe, e da qualche Sanfilese".

Per la cronaca la casa di Paolo Blasi sembra sia quell'edificio che fu della famiglia Lonetti, di fronte a quello che fu il "Muraglione", dove oggi c'è tra l'altro lo studio del dott. Giovanni Carbotti. Al pianterreno di questo palazzo oltre al "cambio dei cavalli" doveva trovarsi anche la trattoria di Gaetaneddra.

In alcuni "catuoji" (dal greco = stanza al pianterreno) di edifici della zona, oggi adibiti a garage, ancora oggi si può notare sul pavimento quel che resta dei pozzi neri necessari, all'epoca, nei luoghi di ricovero degli animali.

Oltretutto chi si trova a passare nei pressi del locale distributore di benzina, può notare sporgere dal muro degli strani semicerchi realizzati in pietra tufacea. Era quello uno dei punti in cui a San Fili venivano momentaneamente legati i cavalli.

 

Le cantine di San Filiquando c'erano i briganti.

A San Fili, nei bei tempi che furono (all'incirca fino al 1970), vi erano una moltitudine di cantine anche se non tutte cantine propriamente dette: alcune, infatti, erano dei semplici spacci di vino, altre vere e proprie osterie ed in alcuni casi delle pseudo locande.

Si racconta, infatti, che i viaggiatori da Paola diretti a Cosenza e viceversa non avendo il coraggio (in particolare questi ultimi) d'affrontare di notte il tragitto, gli stessi si fermavano a San Fili (punto di mezzo) per passare la notte e rifocillarsi un pochino.

Tutto ciò accadeva quando a San Fili non c'era ancora il servizio ferroviario, che comunque (grazie ai campioni della politica locale di questi ultimi decenni... non faccio i loro nomi solo perché in questa pagina non c'entrerebbero tutti!) non c'è neanche adesso, e quando non circolava per le nostre sgangherate strade la famosa truscia... ma semplicemente la diligenza.

Scrive Rosario Iusi nei suoi ricordi fanciulleschi dal titolo "Sangue non mente" pubblicati sul "San Fili Fraternity Club of Westchester, inc.", bollettino n. 1 di gennaio 1983: "(...) ci spingemmo più giù, sino alla fermata della diligenza che veniva da Paola e andava a Cosenza. Qui, avveniva lo scambio della Valigia Postale, la consegna all'incaricato locale del pacco dei giornali di Roma e di Napoli, e fare lo scambio dei cavalli per completare il tragitto. I viaggiatori, intanto, entravano in una di quelle taverne locali, rustiche, ma note per la bontà delle vivande, per rifocillarsi. Quel movimento di gente e di cavalli, quel parlar forte dei cocchieri e dei mozzi di stalla, nuovo al mio orecchio, mi elettrizzavano (...)".

Rosario Iusi all'epoca in cui scrisse tali ricordi aveva 92 anni (per cui gli stessi si riferiscono ad un periodo ante 1900).

Agli inizi del 1900: non c'era la superstrada Cosenza Paola e passare il valico Crocetta o la zona di Sant'Angelo (causa i briganti che la frequentavano) di notte era cosa per niente igienica e salutare per la propria incolumità fisica. Era già andata bene se i briganti del luogo, infatti, agli incauti avessero lasciata salva la vita.

Tengo a precisare che il termine "brigante" è usato in quest'articolo quale sinonimo di delinquente singolo o affiliato a qualche clan dedito al crimine e non come facente parte di quella stupenda (pur nella sua drammaticità) pagina di storia meridionale da tutti conosciuta con l'appellativo di "brigantaggio".

Si racconta ancora, di qualcuno che dovette ritornarsene completamente nudo, a San Fili, dopo essere stato derubato, tranne che del proprio onore e della propria vita, di tutto ciò che aveva indosso. Questo signore (il cui ricordo è ancora vivo nella memoria popolare) sembra facesse commercio tra San Fili ed i paesi della costa tirrenica e così come altri commercianti nel passare col proprio carico per le strade della catena paolana dovevano di fatto pagare "un pedaggio" alle bande di malfattori che popolavano le nostre montagne... non si sa se in quell'occasione volle fare il furbo o se effettivamente gli era andata male la giornata, ma i briganti dal canto loro sembra non abbiano voluto sentire giustificazioni.

A San Fili c'era, per quanto riguarda il servizio di diligenza, anche il servizio di cambio dei cavalli ed in alcune cantine/locande i proprietari mettevano a disposizione per la notte, ai viaggiatori, una stanza ed un letto in cui riposare.

All'inizio del secolo (1900) si ricorda ancora nei pressi del bivio per Bucita (ara casa 'e Catalanu) una ricercatissima cantina che serviva anche e soprattutto da trattoria. Ed un'altra trattoria (quest'ultima chiusa all'incirca poco prima dell'inizio della seconda guerra mondiale) la troviamo anche di fronte all'ex Palazzo Giorno (quello che fino a pochi mesi addietro ha ospitato la locale Stazione dei Carabinieri): era questa la trattoria di Mastr'Angelo Confessore, meglio conosciuta come la cantina di Ros'e Cuasc-ku.

Ros'e Cuasc-ku

, aiutata dai numerosi figli, sembra preparasse dei succulenti pranzi (dai ricordi sanfilesi degli anni '30 di Francesco Corigliano).

 

Le cantine di San Fili: u mursieddru.

... e all'incirca tra la Curva de Marrupietru e il bivio per Bucita non possiamo fare a meno di menzionare (agli inizi del 1900) la cantina di Sante Cesario. Sempre in tale zona, ma molto tempo più tardi, troviamo operante una cantina aperta da Balduzzu Crescimone (detto titella) e da un certo Amedeo u Riggitanu, successivamente gestita da Micuzzu Tramontana e da Francesco Corrado (entrambi di Bucita).

Quest'ultima cantina sembra fosse molto apprezzata dai giovani di Bucita che, recandosi a San Fili magari la domenica per godersi un bel film al cinema comunale (... prima dell'avvento dell'epoca d'oro della Spiga, non dimentichiamocelo mai, a San Fili avevamo non solo l'ufficio di collocamento, la ferrovia, un buon servizio di autobus, l'esattoria, la casa dei lavoratori... anche e soprattutto un apprezzabile cinema), questi non mancavano di fermarsi una mezzoretta dai loro "compatrioti" per rifarsi un po' la gola.

... ed una cantina, all'incirca fino al 1930, è stata gestita da Rocco e Giovannina Speziale, nonni dei nostri sempreverdi compaesani Marcello e Rocchino. Tale cantina (con tanto di tavoli e suppellettili vari) aveva sede su corso XX Settembre nell'edificio attuale residenza di questi ultimi.

I frequentatori delle cantine si recavano nel loro luogo preferito di ritrovo con in tasca, oltre ai soldi per la loro razione quotidiana del divino elemento, anche con quanto di buono le scarne risorse della propria dispensa offriva loro: un pezzo di salsiccia, un tozzo di pane, "'ncunu cuacciu d'alive nivure e 'nfurnate" e via dicendo.

Il gestore aveva comunque a disposizione (...) sarde, sarachesarachiaddri ed altri alimenti particolarmente salati da mettere a disposizione dei propri clienti: tutta roba che ben si addiceva col vino, e che quindi aiutava lo smercio dello stesso.

Un altro alimento venerato dagli assidui frequentatori delle locali cantine erano senza dubbio le famose "capuzze d'animali", portate dagli stessi, spesso, già cotte da casa.

In una ricerca di qualche anno addietro (...), parlando della caccia al cinghiale, mettevo in evidenza come i nostri cacciatori al rientro di una trionfale caccia al selvaggio animale, usassero ritrovarsi nelle cantine per mangiare in allegra compagnia lo spezzatino di tale preda.

Il vino sfuso comunque veniva venduto anche nei pochi bar che nella seconda metà del ventesimo secolo fecero la loro comparsa nelle strade del nostro principale (ed anche unico) corso (vedasi ad esempio il caso di Sarvature Blasi - u Bagnaruatu) ed in alcuni negozi d'alimentari.

Un tale alto consumo di vino per il nostro paese era giustificato non solo per il fatto che San Fili era un punto obbligatorio di sosta per i viandanti impegnati nel tragitto Paola Cosenza, ma anche e soprattutto per il tipo di vita che conducevano i sanfilesi negli anni ante 1960. Il lavoro nei campi e tutti i lavori manuali facevano bruciare tantissime energie non solo ai braccianti ed agli operai, ma anche agli stessi "padroni".

(...) Il lavoro nei campi tra l'altro in alcuni casi poteva significare percorrere, ancor prima dell'alba, un certo numero di chilometri prima di arrivare a destinazione (vedasi ad esempio il caso delle zone attigue alla Crocetta o a Sant'Angelo, per non dire che alcuni nostri attuali compaesani partivano da Cucchiano per raggiungere la zona di Macchialonga).

Erano questi i tempi in cui orologi in circolazione se ne vedevano ben pochi (ed i pochi, essendo ai polsi dei padroni, non erano di facile consultazione) e quindi si regolava la durata della propria giornata lavorativa in base alla posizione del sole nel cielo... e tale posizione, chissà poi perché?, non era mai a favore della povera gente.

Il poco sollievo, la mattina, che poteva in parte alleviare le pene e la fatica prossima a venire dei nostri avi diretti alla "giornata" era, per chi poteva permettersela, la "pezza" (con dentro "u mursieddru", classica colazione della mattina) ed una piccola bottiglia di vino.

 

Le cantine di San Filiun problema sociale.

Se a San Fili mancavano (nel XX secolo) veri e propri costruttori di botti (alcuni dei nostri artigiani/falegnami più che altro li riparavano o realizzavano al massimo dei varrili), non mancavano certamente le segherie per la produzione delle doghe (ossia le strisce di legno con cui avrebbero preso successivamente vita le botti). Tali doghe venivano "esportate" in più regioni d'Italia.

In questo secolo ancora restano vive nella memoria dei nostri anziani la segheria di Pappalardo (nei pressi dell'ex stazione), di Cesari'e Cartoccia (vicino il mulino di Costantino o delle fate), di Francesco Blasi (u Peccatu), di Ruffolo Antonio e di Giovanni Protopapa (queste ultime tre nei pressi dell'attuale parrocchia).

* * *

Le famose cantine di San Fili ormai sono state tutte pensionate e c'è da dubitare che riapriranno e ritorneranno al loro vecchio fulgore... anche se, a dire il vero, non sarebbe male pensare a lanciare sul mercato una bevanda a base di vino, magari frizzante, tarata intorno ai 4 o 6 gradi alcolici. Il tutto ovviamente con marchio "San Fili d.o.c.".

Se poi a tale bevanda dessimo il nome di "Vino leggero di San Fili", credo che oltre a fare trenta, saremmo riusciti a fare anche trentuno.

Dopotutto credo sia inutile dire che il vino, così come l'acqua ed ogni cosa con cui quotidianamente veniamo in contatto, se consumato razionalmente è anche un toccasana per la nostra salute. Il vino rosso in particolare sembra che riesca a prevenire anche alcune forme di cancro.

Ritornando comunque al nostro discorso iniziale, ossia alla definitiva chiusura delle cantine di San Fili, c'è da dire che gli anni compresi tra il 1960 ed il 1990 hanno avuto le loro vittime anche su questa sfaccettatura del commercio locale.

In tutto ciò vi sono stati tanti lati positivi oltre che a tanti lati negativi: in effetti era un po' vergognoso, ad una certa ora del giorno, trovare tanti ubriaconi girare barcollanti per il nostro paesino. In alcune famiglie, tra l'altro, dove vigeva un sistema patriarcale basato più sulla quantità di vino che si era riusciti ad ingurgitare nel corso della giornata che non sulla effettiva (? ... mi scusino le lettrici!) superiorità dell'uomo, per le donne e per i fanciulli era un continuo dramma dover sottostare alle regole loro imposte da Bacco e seguaci.

Non era neanche una rarità sentir presentare all'epoca l'ultimo dei propri pargoli con la dicitura "chistu è figliu du vinu!".

Ancora ricordo, quando abitavo in campagna (ai tempi della mia fanciullezza), rientrando con mia madre (che all'epoca lavorava saltuariamente nel ristorante di don Gustino al Rinacchio) il caso d'una nostra vicina che alle undici di sera la trovavamo ben distante da casa sua ad aspettare ore più fortunate per rincasare.

Alla domanda del perché si trovasse lì, la risposta era semplice: "Maritumma è 'mbriacu puru stasira e si trasu mi mina!".

Resta in ogni modo emblematica la risposta che sembra sia stata data dal marito di questa donna pochissimi anni fa (due o tre) quando, ricoverato d'urgenza in ospedale per chissà quali problemi di salute. Avendogli riscontrato i dottori la cosiddetta "acqua" non so più se nella pancia o nei polmoni, sembra che questi abbia fatto notare agli incamiciati quanto fossero lontani da una giusta diagnosi: "Duttu?!? ... guardati ca vi sbagliati: cumu faciti a dire ca tiagnu acqua 'ncuaddru... s'io acqua unn'aju mai vippitu 'n vita mia?".

Per San Fili fatti del genere (pessimi rapporti tra mogli e mariti a causa del vino) negli anni cinquanta e sessanta non erano certamente casi sporadici, malgrado non fossero la regola. Non bisogna dimenticarsi che a quei tempi ancora tante famiglie più che nascere dall'amore tra due soggetti nascevano dalla necessità economica dell'uno o dell'altro (e spesso la parte più debole, da questo punto di vista, era proprio quella femminile).

 

Le cantine di San Fili: si chiude un'epoca.

Poco o per niente amanti delle cantine sanfilesi erano certamente le nostre donne, anche perché le stesse, succubi, come già detto, fino agli anni sessanta d'una concezione della famiglia basata sull'impostazione patriarcale, spesso pagavano sulla loro pelle e nella loro dignità il peso d'avere un marito schiavo di Bacco.

Non mancava tra queste, comunque, chi non disdegnava di bere il suo bel quartuccio.

Alcune donne (qui lo scrivo e qui lo nego!), ad esempio, mandate dal marito alla cantina ad acquistare un fiasco di vino, non mancavano di farsi riempire dall'oste un bel bicchiere col sacro nettare da bere sul momento... forse per paura che a casa sarebbero rimaste all'asciutto.

Il più delle volte, comunque, a riempire il fiasco nelle cantine venivano mandati i fanciulli. Roba da telefono azzurro, a causa delle battute e dei pessimi apprezzamenti che a questi venivano rivolti dagli ospiti della cantina o da coloro che incontravano per strada.

A questo punto, tenuto conto che siamo alle ultime battute di questa ricerca popolare, viene giustamente da chiedersi: come mai non vi sono più cantine nel nostro paese? ... forse perché i sanfilesi di botto se non sono diventati astemi poco ci manca?

Se è per questo motivo, devo dire che la questione non mi dispiace affatto.

Personalmente bere un buon bicchiere di vino, specie se in buona compagnia (ed in particolare lontano dalle donne... che sono una vera palla al piede quando ti vedono sorseggiare un bel bicchiere di rosso... quasi fossero gelose della bottiglia stessa) non mi è mai dispiaciuto

L'abbandono delle campagne, l'abbandono di un certo tipo di economia prettamente agricola e quindi basata sull'uso delle braccia, l'istruzione, le nuove norme fiscali, il nuovo stile di vita sedentario... hanno contribuito tantissimo alla drastica diminuzione dei grandi bevitori e quindi degli assidui frequentatori delle cantine.

Dal punto di vista occupazionale sono pochi, infatti, quelli rimasti a coltivare la terra o a fare lavori faticosi e manuali, ed è proprio in questi soggetti che il vino ha i suoi maggiori accoliti.

San Fili non è più il San Fili degli inizi del XX° secolo o del 1950: non è più un punto obbligato di passaggio e di sosta, né un centro abitato che deve ospitare e provvedere al sostentamento di ben cinquemila anime.

San Fili oggi è diventato... un paese dormitorio, i cui ultimi aneliti di vita reale e verace li troviamo (speriamo ancora per molto tempo) in Piazza San Giovanni: un ringraziamento di cuore, per la serie di articoli su "Le cantine di San Fili" lo faccio agli amici compa' Giovanni Calomeni, Sandro Cesario, Marcello Speziale, Giuseppe Saggio, Antonio Asta, mastru Totonnu D'Agostino, Mario Oliva, mastru Michele Leo e a quanti altri, non menzionati, mi hanno dato la possibilità di scrivere un'altra bella pagina sulla nostra stupenda comunità. Un particolare grazie, infine, lo rivolgo a te lettore per avermi sopportato per ben dieci puntate (paragrafi)!


Nessun commento: