Le cantine di
San Fili: la "Grotta azzurra".
Erano
veramente tantissime le cantine che operarono fino agli anni sessanta (1960)
inoltrati nell'abitato di San Fili: un vero e proprio fenomeno sociale
giustificato più che altro dall'epoca in cui li troviamo attive. Un'epoca
(1900/1950) questa in cui non potevamo certamente parlare di bar così come oggi
l'intendiamo e pertanto le cantine sopperivano all'assenza di questi ultimi e
fungevano quindi da veri e propri centri di aggregazione sociale.
Nelle cantine,
infatti, non c'era il semplice smercio di vino, ma tutta una serie di attività
ricreative, di ristoro e di aggregazione sociale successivamente assorbite sia
dagli attuali bar, dalle attuali pensioni che dagli attuali ristoranti.
Le cantine
(...) erano sparse un po' per tutto il centro abitato di San Fili: ne troviamo
infatti sul corso XX Settembre (certamente in numero maggiore) ma anche
nella Chiazza ("Jiazza"?), sulla
strada che conduceva alla stazione, in alcune caratteristiche viuzze (vineddre)
e via dicendo.
A proposito
della significativa presenza delle cantine sul territorio di San Fili, vi
racconto di seguito un aneddoto riferitomi da un caro e simpatico compaesano
(... Mario Oliva, per intenderci)..
Si racconta di
una famiglia che abitava alla periferia del paese, una famiglia cui non
dispiaceva farsi il proprio bicchiere di vino quotidiano (nella vita di
campagna, col lavoro nei campi, tra l'altro questo più che un piacere diventava
quasi una necessità) e che, finita la propria riserva di vino, la moglie
dicesse al marito: "Fatti n'esciuta 'ntru paise, gira ppe ncuna
cantina, e du miegliu vinu ca truavi cumprane nu garrafùne".
Detto fatto,
preso il suo contenitore il brav'uomo (cui eviteremo per ovvi motivi di fare il
nome - dicono che si chiamasse Lisandru) si avventurò in quella che
si dimostrò una vera e propria epica impresa... finita decisamente nelle ore
piccole.
Rientrato a
casa, ubriaco fradicio e con il contenitore del vino vuoto, alla richiesta di
chiarimenti in merito rivoltagli dalla consorte, rispose: "Muglie',
tutt'è diciuattu cantine 'e Santu Fili m'aju fattu e 'nta tutte e vippitu u
quartu 'e vinu chi m'hannu datu ppe assaggiu. A dire u veru m'è sembratu tuttu
buanu ed è statu impossibile sceglie qual'era u miegliu per u portare ara casa.
Volia fare n'atru giru ppe tutt'e cantine, ma l'ura tarda un mi nna dat'u
tiampu. Ce rituarnu duman'a sira... e vidi ca stavota ti puartu u garrafùne
curmu curmu!".
Da questo
aneddoto, tralasciando la dabbenaggine dei protagonisti, si capisce quante
fossero, all'incirca, in un determinato periodo le cantine operanti a San Fili
(che se non erano proprio diciotto, sicuramente non erano meno di quindici).
La più antica
cantina operante a San Fili (accertata a memoria d'uomo... la ricerca storica,
per non invadere un campo non mio, la lascio fare agli storici!) sembra sia
stata quella dei baroni Miceli (già operante tra il 1600 ed il 1700). Tale
cantina era, tra l'altro, l'unica cantina sanfilese ad avere uno spaccio di
vino prodotto dagli stessi proprietari della cantina.
Inutile dire
che San Fili, come già più volte ribadito, se si esclude la produzione di
castagne e di pochissimi altri prodotti della terra, non eccelleva né eccelle
in determinate coltivazioni e la vite rientra a pieno titolo in tale campo.
Tale pianta, infatti, non predilige certamente le zone umide e piovose. C'è da
dire però che l'uva fragola (dalla quale si ottiene un ottimo vino naturalmente
aromatico) di San Fili è una vera delizia per il palato... peccato se ne siano
dimenticati i sanfilesi!
La cantina dei
Miceli, situata alla scesa di via Roma (Chiarieddru, per i sanfilesi
d.o.c.!), una delle poche stupende ed impareggiabili scalinate realizzate in
pietra di fiume ed ancora non completamente distrutte dai nostri laboriosi ed
insostituibili amministratori trentennali (per la serie: "come hanno
distrutto loro, non distruggono neanche i bombardamenti degli americani"!),
conosciuta nell'ambiente degli intenditori per diversi decenni come "la
Grotta", fu gestita dagli inizi del 1900 e fino al 1930 circa da un certo
Ferdinando "Cacavineddra" .
Ferdinando
"Cacavineddra" vendeva il vino dei Miceli ottenendone in
cambio una percentuale sul guadagno. Dal 1930 in poi (esattamente fino al 1977)
"la Grotta" sarà gestita da Salvatore Calomeni cui subentrerà
successivamente il figlio Giovanni. Giovanni Calomeni non solo gestirà (seppure
per un breve periodo, tenuto conto che il mondo iniziava tragicamente a
cambiare) detta cantina ma finirà per acquistarne dai Miceli gli stessi locali.
Giovanni
Calomeni inoltre affiancherà al nome di "Grotta" il qualificativo di
"azzurra", dipingendone tra l'altro con tale colore l'accesso alla
stessa.
Il nostro
compaesano Giovanni Calomeni (persona affabile che noi ricordiamo anche per la
sua ultradecennale macelleria 'mmianzu u puantu) tra l'altro
volendo rompere la secolare tradizione d'acquistare il vino (o quantomeno il
mosto) da vendere a San Fili nei paesi a ridosso di Cosenza (Zumpano, Donnici
ecc.) così com'era sempre stato fatto dai gestori delle nostre cantine, ebbe la
felice idea d'organizzare nei pressi di piazza Rinacchio (nei magazzini
sottostanti dell'abitazione dei Palermo) un locale per la trasformazione, su
larga scala, dell'uva in mosto (nu parmiantu). Uva che il Calomeni
acquistava direttamente in Puglia. Tale parmientu fu operativo
negli anni compresi tra il 1965 e il 1980.
Personalmente
ancora ricordo (anche perché per un certo periodo tra queste vi furono i miei
genitori) le numerose persone (donne e uomini) che vi lavoravano nel periodo
della vendemmia. Era anche questo un modo come un altro per aiutare l'economia
non sempre rosea di alcune famiglie della nostra comunità.
Le cantine di
San Fili... le più gettonate.
Se la più
antica cantina operante a San Fili si pensa fosse stata quella dei Miceli (ara
scisa 'e Chiarieddru) l'ultima ad essere ricordata, attiva fino a poco
tempo addietro, è certamente quella gestita dalla famiglia di Angiluzzu Cersosimo
(a cantina 'e Bifarelli).
Quest'ultima
cantina (più che cantina una vera e propria piccola osteria) aveva sede nei
magazzini che in altri tempi ospitarono il celebre frantoio di Donn'Oscaru Gentile,
e che si trovano al di sotto (in parte) della Chiesa del Carmine.
Prima del 1950
le cantine erano uno dei pochi svaghi offerti ai sanfilesi che per una intera
giornata si erano dedicati anima e corpo al lavoro di braccia. Nei periodi in
cui tra l'altro si lavorava anche e spesso solo per la gloria, alcuni
compaesani dai padroni venivano pagati spesso e volentieri solo con tale
moneta... ossia un buon bicchiere di vino nelle locali cantine.
(...) Il vino
servito ai tavoli dai numerosi osti (cantinieri?) del paese era quasi
esclusivamente rosso e decisamente alcolico: a volte (a seconda delle annate)
raggiungeva persino i quattordici o quindici gradi. Tale vino, ancora mosto,
veniva acquistato "a chira vann'e Crati" (Castiglione
Cosentino, Zumpano, Donnici ecc.), messo in otri e trasportato a San Fili su
carri trainati da muli.
I piccoli
spacci di vino locali, comunque, spesso e volentieri più che acquistare mosto,
periodicamente acquistavano da grossisti della provincia direttamente il vino
necessario allo svolgersi della loro attività commerciale.
Parlando con
alcuni compaesani di quella che fu la loro giovinezza in merito alle locali
cantine (... inutile dire che nessuno di loro mi ha confessato se fosse stato o
meno un buon bevitore ed un altrettanto buon frequentatore di tali pubblici
esercizi), sono stati quasi tutti concordi nell'affermare che le migliori e più
ricercate cantine del paese, senza nulla togliere alle altre, sono state quella
dei Miceli e quella di Peppino Cesario ('Ntonapa).
Della prima
(gestita tra l'altro da Salvatore e Giovanni Calomeni) ne abbiamo parlato in un
precedente capitolo, della seconda c'è da dire che venne realizzata a San Fili
agli inizi del 1900 da un certo Gerardo De Marco nei pressi della vecchia sede
municipale del nostro comune (all'incirca di fronte all'attuale sede bancaria).
Questi, originario di Zumpano, era imparentato con il nostro compaesano Peppino
Cesario al quale successivamente cedette la licenza.
Peppino
Cesario trasferirà la cantina in alcuni locali nei pressi di Piazza San
Giovanni e quivi resterà fino alla chiusura della stessa gestita, nell'ultimo
periodo (anni ottanta), da Micuzzu Sergi.
La cantina del
Cesario era preferita alle altre anche per il fatto che non solo era alquanto
strategica la posizione del locale (trovandosi non solo nei pressi di piazza
San Giovanni e, per l'epoca, anche all'inizio del paese), ma anche e
soprattutto per il luogo accogliente e riparato che permetteva a combriccole di
amici di organizzare vere e proprie ciambotte.
Di tale
periodo ancora oggi, in un angoletto seppur minuscolo della nostra memoria, ci
restano i nomi di alcune misure utilizzate all'epoca nelle nostre (dico
"nostre" in quanto volenti o nolenti fanno parte della "nostra
cultura storica") cantine quali "a cannata" (boccale di
terracotta con una capacità di circa un litro e mezzo), "a menzacannata",
"nu quartu" (250 centilitri) e "u quartucciu"
(circa un litro).
Le cantine di
San Fili: sarache e gazzose.
L'hobby
preferito dai frequentatori delle cantine sanfilesi oltre, s'intende, a quello
di bere un buon bicchiere di vino con gli amici, era il gioco delle carte...
non me ne vogliano pertanto alcuni compaesani quando affermo che il Centro di
Aggregazione Sociale del paese più che fungere ad all'alta funzione per cui era
stato istituito... altro non si è rivelato se non una cantina e per giunta
anche di pessima qualità (tenuto conto che all'interno della stessa, malgrado
si giochi a carte, non circola neanche del buon vino vino).
Una delle
cantine, che tra l'altro ricordo anch'io (non per averle frequentate, in quanto
troppo piccolo all'epoca), era quella di Cesario Raffaele (Ramagliu) che
si trovava tra la casa del nostro collaboratore Franco (Ciccio) Gentile e
l'attuale negozio alimentari del compaesano Minuzzu Urso (nei pressi di
quell'opera, vanto dei Borboni e vergogna della Sinistra Sanfilese degli anni
settanta, conosciuta come il "Muraglione"). Sull'entrata c'era una
insegna (presumibilmente realizzata su un pezzo di masonite) riportante il
disegno di un fiasco di vino e di fianco la scritta "osteria".
Collegato (con
una porta intercomunicante) alla cantina, Raffaele Cesario aveva un piccolo
negozio d'alimentari e pertanto i clienti dell'osteria potevano usufruire,
delizia del palato, anche di quanto offriva loro tale negozio. Leccornia divina
e certamente golosità ricercatissima dagli intenditori (ossia dagli esperti
enologi sanfilesi) erano certamente, oltre agli alici e alle sarde salate, le
famosissime "sarache" (ossia una specie di aringhe
affumicate)... e di questo il negozio d'alimentari di Raffaele Cesario era ben
fornito.
Le "sarache",
ottimo alimento per accompagnare pane e vino, pungenti se mangiate crude ma
decisamente assatanate se fritte o arrostite, ancora oggi dai nostri anziani
vengono ricordate per il fatto che dopo essersene cibati abbondantemente, per
un lungo tempo (specie di notte) costringono il buongustaio ad ingurgitare
grosse dosi d'acqua.
Ancora oggi se
si vede qualcuno bere acqua in continuazione non raramente sentiamo qualcuno
dei nostri anziani dire nei confronti del povero assetato: "Ma cchi
t'ha mangiatu, per casu t'avissi mangiatu sarache o sarde salate?".
E si dice
pure, nel gergo di quelli che furono i frequentatori delle locali cantine
sanfilesi, la famosa frase "tri quarti e na gazzosa"... la
gazzosa, inutile dirlo, è una bevanda che si miscela ottimamente con il vino
(specie quello rosso) dando allo stesso quell'appropriato senso di frizzante ed
una giusta correzione di sapore.
Domanda:
potevano i Sanfilesi degli anni trenta (1930), con una tale presenza di ottime
cantine sul proprio territorio, fare a meno delle gazzose? ... potevano
rischiare di restare senza le loro necessarie gazzose o perdere tempo
facendosele venire da qualche altro comune della provincia di Cosenza?
Certamente no!
... pertanto non deve meravigliarci se a San Fili (nella prima metà del 1900)
ci fosse anche uno stabilimento che produceva ed imbottigliava
"gazzose". Il proprietario, voce del popolo voce di Dio, era un certo
Michele Noto e lo stabilimento si trovava nei magazzini, di fronte al
Muraglione, posti al di sotto del vecchio edificio postale.
Le bottiglie
erano di vetro e quale tappo utilizzavano non gli attuali tappi di latta
(all'epoca sconosciuti) e neanche i classici tappi di sughero... utilizzavano
una pallina (anch'essa di vetro) posta all'interno della bottiglia. Il gas
presente nella "gazzosa" spingeva la pallina verso l'alto, questa
raggiungeva lo stretto del collo della bottiglia e chiudeva ermeticamente il
tutto. Per aprire la bottiglia e quindi berne il contenuto... bastava
capovolgerla.
Le bottiglie
di "gazzosa" sanfilese, vendute anche ai comuni limitrofi, erano di
"un quarto" e assieme ai "tre quarti" di vino facevano
esattamente un litro (ossia, complessivamente, il "quartuccio",
che era una delle misure di capacità dei sanfilesi dei bei tempi che furono).
Alla fine di
questo capitolo, scusate ma mi è d'obbligo, non posso fare a meno di lamentare
il fatto che San Fili, precursore dei tempi su diversi aspetti... tra tutte le
altre cose... s'è fatto fregare anche la sua bella "fabbrica di
gazzose".
Anche questa
era una dignitosa forma di occupazione... che oggi ci sarebbe stata certamente
utile ai Sanfilesi!
A volte mi
chiedo (senza ottenerne risposta plausibile alcuna) come mai a San Fili di
tutto ciò che i Sanfilesi (e sottolineo "i Sanfilesi") facciamo
d'intelligente... deve restarci in breve tempo tanto fumo e niente arrosto.
Le cantine di
San Fili: vutti varrili e mianzi tummini.
Il vino, nelle
cantine di San Fili, veniva conservato in botti di legno di castagno
(pochissime anche in legno di quercia) che andavano da una capacità di
cinquanta litri fino a raggiungere i dieci quintali. Intorno al 1970 le botti,
per quanto riguarda le cantine sopravvissute al cambiare dei tempi, vennero
sostituite da recipienti in vetroresina.
Le botti in
alcuni casi (pochi a dire il vero) venivano costruite o comunque riparate da
artigiani locali: a San Fili a lavorare vutti, varrili, mianzi
tummini ecc. ancora si ricorda un certo mastru Fiore
(parliamo degli anni intorno al 1930). Questi aveva la bottega all'Airella
presso l'abitazione (dove c'è stato ed ancora oggi c'è l'omonimo panificio) di
Ottorino Perri.
... e qualcuno
ricorda pure, impegnato a costruire varrili e mianzi
tummini nei pressi di San Giovanni, un certo mastru Luigi u
Peccatu.
Resta ancora
il vivo ricordo, a volte un vero e proprio rimpianto, nella memoria dei nostri
anziani tra le tante anche della cantina di Gen'e Guffredu (padre
del compianto ed indimenticabile compaesano prof. Goffredo Jusi, maestro di
vita, per tanti anni, della nostra comunità) aru Spiritu Santu e
di Domenico Noto (Farchiotta) ara Jazza (ai piedi della
scesa della Chiesa Madre). Quest'ultima passata prima al figlio Francesco e
successivamente venduta a Raffaele Comande'.
Raffaele
Comande' trasferirà successivamente l'esercizio dalla Jazza al
pianostrada del palazzo dei Miceli su corso XX Settembre e abbinerà, in
quest'ultimo caso, un servizio di ristorante/pizzeria alla cantina stessa.
Come non
ricordare poi la cantina di Peppino Cesario (Trotta) al Muraglione (dove
attualmente c'è il distributore di benzina di Saverio Montoro, distributore
gestito dalla moglie di quest'ultimo) e (tra la seconda metà del 1800 e
l'inizio del ventesimo secolo) le cantine di Ghiennarone (all'incirca di fronte
all'ex sede municipale di San Fili) nonché quella di Giovanni Gentile (Pasc-kaleddra)
detto "u Ghieghiu" (nei pressi della Chiesa del Carmine)?
Giovanni
Gentile viene tra l'altro ricordato dai nostri anziani in quanto da piccoli gli
stessi venivano simpaticamente minacciati da questo personaggio, nel loro
passare davanti alla sua cantina, (con un gesticolare di mano, dita e
coltellino) di... tagliar loro "u pingariaddru" se si facevano
vedere da quelle parti.
Chissà se
questo modo di fare, psicologicamente, in effetti non si sia dimostrato anche
un buon modo per diminuire i futuri frequentatori delle cantine sanfilesi!
Resta comunque
di fatto che se non si raggiungeva una certa età (compresa tra i quattordici ed
i sedici anni) era impossibile poter mettere piede in una cantina: la legge (ma
anche una severa morale dell'epoca) non transigeva eccezioni. L'oste rischiava la
licenza ed un bel paio di ceffoni, per non dire un calcio in qualche meritevole
posto, al giovane avventore non li negava nessuno. Pari sorte capitava al
giovane che oltrepassava la soglia di un qualsiasi tabacchino.
(...) Erano
altri tempi, erano bambini... e ci credevano, di conseguenza approfittavano
dell'assenza sulla porta della cantina de "u Gheghiu" per
sgattaiolare di corsa oltre la zona di pericolo.
Non c'era un
vero e proprio orario di apertura e chiusura delle cantine: le stesse restavano
aperte, in molti casi, senza problemi dalla mattina alla sera inoltrata.
Illuminate con lucerne ad uagliu buanu, prima dell'avvento
trionfale della luce elettrica (che, è bene ricordarlo, il nostro paesino è
stato tra i primi, ancor prima della stessa Cosenza, ad averla per le proprie
vie e nelle proprie case... siamo di fatto agli inizi del 1900) e con una concorrenza,
tra le diverse cantine del paese, basata principalmente sulla qualità e sulla
quantità del prodotto (a parità di prezzo) offerto alla propria clientela.
Le cantine di
San Fili: Gaetaneddra.
(...) ... la
cantina "da scisa 'e Chiarieddru", ovvero "La
Grotta" dei Miceli (successivamente "La Grotta Azzurra" dei
Calomeni), l'abbiamo detto in una precedente puntata di questa ricerca, a
memoria d'uomo è la più antica cantina di San Fili; non abbiamo finora detto
però che il dialettale "chiarieddru" (o
"chiariellu") in italiano si traduce con le parole "chiarello e
vinello".
E' vero che
noi Sanfilesi doc con l'appellativo di "Chiarieddru"
individuiamo una ben determinata zona "vasata da chiaria"
(punto in cui con una certa facilità nelle notti particolarmente fredde la
brina si trasforma in gelo), ma è anche bello collegare il luogo dove regnò
incontrastata "La Grotta" con il nome del divino elemento (seppure in
un diminutivo a volte dispregiativo) che l'ha caratterizzata.
Delle cantine
o più precisamente dei posti di ristoro del nostro paese se n'è giustamente
interessato anche Francesco Cesario nel suo libro "San Fili nel
tempo", in particolare nel paragrafo "Servizio postale -
Gaetaneddra (Gaetanella)".
Dopotutto un
amante della storia popolare della nostra comunità com'era il prof. Francesco
Cesario, non poteva non dare il giusto spazio nel suo capolavoro ad un fenomeno
sociale qual era quello del ristoro nel nostro comune agli inizi del ventesimo
secolo.
In tale
paragrafo leggiamo:
"(...) Il
cambio dei cavalli stanchi con quelli freschi avveniva al Muraglione
precisamente al largo dinanzi alla casa di Paolo Blasi, ove era sistemata la
stalla.
A pochi metri
la signora Gaetaneddra , nota ovunque come Zi Teresa a Napoli, gestiva una
famosa trattoria.
Qui i
viaggiatori sostavano circa un'ora, quanto bastava per gustare le specialità
Sanfilesi, costituite dalle tenere soppressate, dai profumati capicolli, dai
fusilli caserecci ('nghjùnghjari), dall'ottimo pecorino con la lacrima, il
tutto bagnato col gagliardo vino di oltre Crati.
(...) A pochi
passi dalla Trattoria di Gaetanella, facevano buoni affari due Ostarie
(Taverne). Erano frequentate dai conducenti dei carri, dei traini, delle
carrozze, dai viaggiatori di seconda e terza classe, e da qualche
Sanfilese".
Per la cronaca
la casa di Paolo Blasi sembra sia quell'edificio che fu della famiglia Lonetti,
di fronte a quello che fu il "Muraglione", dove oggi c'è tra l'altro
lo studio del dott. Giovanni Carbotti. Al pianterreno di questo palazzo oltre
al "cambio dei cavalli" doveva trovarsi anche la trattoria di
Gaetaneddra.
In alcuni
"catuoji" (dal greco = stanza al pianterreno) di edifici della
zona, oggi adibiti a garage, ancora oggi si può notare sul pavimento quel che
resta dei pozzi neri necessari, all'epoca, nei luoghi di ricovero degli
animali.
Oltretutto chi
si trova a passare nei pressi del locale distributore di benzina, può notare
sporgere dal muro degli strani semicerchi realizzati in pietra tufacea. Era
quello uno dei punti in cui a San Fili venivano momentaneamente legati i
cavalli.
Le cantine di
San Fili: quando c'erano i briganti.
A San Fili,
nei bei tempi che furono (all'incirca fino al 1970), vi erano una moltitudine
di cantine anche se non tutte cantine propriamente dette: alcune, infatti,
erano dei semplici spacci di vino, altre vere e proprie osterie ed in alcuni
casi delle pseudo locande.
Si racconta,
infatti, che i viaggiatori da Paola diretti a Cosenza e viceversa non avendo il
coraggio (in particolare questi ultimi) d'affrontare di notte il tragitto, gli
stessi si fermavano a San Fili (punto di mezzo) per passare la notte e
rifocillarsi un pochino.
Tutto ciò
accadeva quando a San Fili non c'era ancora il servizio ferroviario, che
comunque (grazie ai campioni della politica locale di questi ultimi decenni...
non faccio i loro nomi solo perché in questa pagina non c'entrerebbero tutti!)
non c'è neanche adesso, e quando non circolava per le nostre sgangherate strade
la famosa truscia... ma semplicemente la diligenza.
Scrive Rosario
Iusi nei suoi ricordi fanciulleschi dal titolo "Sangue non mente"
pubblicati sul "San Fili Fraternity Club of Westchester, inc.",
bollettino n. 1 di gennaio 1983: "(...) ci spingemmo più giù, sino
alla fermata della diligenza che veniva da Paola e andava a Cosenza. Qui,
avveniva lo scambio della Valigia Postale, la consegna all'incaricato locale
del pacco dei giornali di Roma e di Napoli, e fare lo scambio dei cavalli per
completare il tragitto. I viaggiatori, intanto, entravano in una di quelle
taverne locali, rustiche, ma note per la bontà delle vivande, per rifocillarsi.
Quel movimento di gente e di cavalli, quel parlar forte dei cocchieri e dei
mozzi di stalla, nuovo al mio orecchio, mi elettrizzavano (...)".
Rosario Iusi
all'epoca in cui scrisse tali ricordi aveva 92 anni (per cui gli stessi si
riferiscono ad un periodo ante 1900).
Agli inizi del
1900: non c'era la superstrada Cosenza Paola e passare il valico Crocetta o la
zona di Sant'Angelo (causa i briganti che la frequentavano) di notte era cosa
per niente igienica e salutare per la propria incolumità fisica. Era già andata
bene se i briganti del luogo, infatti, agli incauti avessero lasciata salva la
vita.
Tengo a
precisare che il termine "brigante" è usato in quest'articolo quale
sinonimo di delinquente singolo o affiliato a qualche clan dedito al crimine e
non come facente parte di quella stupenda (pur nella sua drammaticità) pagina
di storia meridionale da tutti conosciuta con l'appellativo di
"brigantaggio".
Si racconta
ancora, di qualcuno che dovette ritornarsene completamente nudo, a San Fili,
dopo essere stato derubato, tranne che del proprio onore e della propria vita,
di tutto ciò che aveva indosso. Questo signore (il cui ricordo è ancora vivo
nella memoria popolare) sembra facesse commercio tra San Fili ed i paesi della
costa tirrenica e così come altri commercianti nel passare col proprio carico
per le strade della catena paolana dovevano di fatto pagare "un
pedaggio" alle bande di malfattori che popolavano le nostre montagne...
non si sa se in quell'occasione volle fare il furbo o se effettivamente gli era
andata male la giornata, ma i briganti dal canto loro sembra non abbiano voluto
sentire giustificazioni.
A San Fili
c'era, per quanto riguarda il servizio di diligenza, anche il servizio di
cambio dei cavalli ed in alcune cantine/locande i proprietari mettevano a
disposizione per la notte, ai viaggiatori, una stanza ed un letto in cui
riposare.
All'inizio del
secolo (1900) si ricorda ancora nei pressi del bivio per Bucita (ara casa 'e
Catalanu) una ricercatissima cantina che serviva anche e soprattutto da
trattoria. Ed un'altra trattoria (quest'ultima chiusa all'incirca poco prima
dell'inizio della seconda guerra mondiale) la troviamo anche di fronte all'ex
Palazzo Giorno (quello che fino a pochi mesi addietro ha ospitato la locale
Stazione dei Carabinieri): era questa la trattoria di Mastr'Angelo Confessore,
meglio conosciuta come la cantina di Ros'e Cuasc-ku.
Ros'e Cuasc-ku, aiutata dai
numerosi figli, sembra preparasse dei succulenti pranzi (dai ricordi sanfilesi
degli anni '30 di Francesco Corigliano).
Le cantine di
San Fili: u mursieddru.
E all'incirca tra la Curva de Marrupietru e il bivio per Bucita
non possiamo fare a meno di menzionare (agli inizi del 1900) la cantina di
Sante Cesario. Sempre in tale zona, ma molto tempo più tardi, troviamo operante
una cantina aperta da Balduzzu Crescimone (detto titella)
e da un certo Amedeo u Riggitanu, successivamente gestita da Micuzzu Tramontana
e da Francesco Corrado (entrambi di Bucita).
Quest'ultima
cantina sembra fosse molto apprezzata dai giovani di Bucita che, recandosi a
San Fili magari la domenica per godersi un bel film al cinema comunale (...
prima dell'avvento dell'epoca d'oro della Spiga, non dimentichiamocelo mai, a
San Fili avevamo non solo l'ufficio di collocamento, la ferrovia, un buon
servizio di autobus, l'esattoria, la casa dei lavoratori... anche e soprattutto
un apprezzabile cinema), questi non mancavano di fermarsi una mezzoretta dai
loro "compatrioti" per rifarsi un po' la gola.
... ed una
cantina, all'incirca fino al 1930, è stata gestita da Rocco e Giovannina
Speziale, nonni dei nostri sempreverdi compaesani Marcello e Rocchino. Tale
cantina (con tanto di tavoli e suppellettili vari) aveva sede su corso XX
Settembre nell'edificio attuale residenza di questi ultimi.
I
frequentatori delle cantine si recavano nel loro luogo preferito di ritrovo con
in tasca, oltre ai soldi per la loro razione quotidiana del divino elemento,
anche con quanto di buono le scarne risorse della propria dispensa offriva
loro: un pezzo di salsiccia, un tozzo di pane, "'ncunu cuacciu d'alive
nivure e 'nfurnate" e via dicendo.
Il gestore
aveva comunque a disposizione (...) sarde, sarache, sarachiaddri ed
altri alimenti particolarmente salati da mettere a disposizione dei propri
clienti: tutta roba che ben si addiceva col vino, e che quindi aiutava lo
smercio dello stesso.
Un altro
alimento venerato dagli assidui frequentatori delle locali cantine erano senza
dubbio le famose "capuzze d'animali", portate dagli
stessi, spesso, già cotte da casa.
In una ricerca
di qualche anno addietro (...), parlando della caccia al cinghiale, mettevo in
evidenza come i nostri cacciatori al rientro di una trionfale caccia al
selvaggio animale, usassero ritrovarsi nelle cantine per mangiare in allegra
compagnia lo spezzatino di tale preda.
Il vino sfuso
comunque veniva venduto anche nei pochi bar che nella seconda metà del
ventesimo secolo fecero la loro comparsa nelle strade del nostro principale (ed
anche unico) corso (vedasi ad esempio il caso di Sarvature Blasi
- u Bagnaruatu) ed in alcuni negozi d'alimentari.
Un tale alto
consumo di vino per il nostro paese era giustificato non solo per il fatto che
San Fili era un punto obbligatorio di sosta per i viandanti impegnati nel
tragitto Paola Cosenza, ma anche e soprattutto per il tipo di vita che
conducevano i sanfilesi negli anni ante 1960. Il lavoro nei campi e tutti i
lavori manuali facevano bruciare tantissime energie non solo ai braccianti ed
agli operai, ma anche agli stessi "padroni".
(...) Il
lavoro nei campi tra l'altro in alcuni casi poteva significare percorrere,
ancor prima dell'alba, un certo numero di chilometri prima di arrivare a
destinazione (vedasi ad esempio il caso delle zone attigue alla Crocetta o a
Sant'Angelo, per non dire che alcuni nostri attuali compaesani partivano da
Cucchiano per raggiungere la zona di Macchialonga).
Erano questi i
tempi in cui orologi in circolazione se ne vedevano ben pochi (ed i pochi,
essendo ai polsi dei padroni, non erano di facile consultazione) e quindi si
regolava la durata della propria giornata lavorativa in base alla posizione del
sole nel cielo... e tale posizione, chissà poi perché?, non era mai a favore
della povera gente.
Il poco
sollievo, la mattina, che poteva in parte alleviare le pene e la fatica
prossima a venire dei nostri avi diretti alla "giornata" era, per chi
poteva permettersela, la "pezza" (con dentro "u mursieddru",
classica colazione della mattina) ed una piccola bottiglia di vino.
Le cantine di
San Fili: un problema sociale.
Se a San Fili
mancavano (nel XX secolo) veri e propri costruttori di botti (alcuni dei nostri
artigiani/falegnami più che altro li riparavano o realizzavano al massimo dei
varrili), non mancavano certamente le segherie per la produzione delle doghe
(ossia le strisce di legno con cui avrebbero preso successivamente vita le
botti). Tali doghe venivano "esportate" in più regioni d'Italia.
In questo
secolo ancora restano vive nella memoria dei nostri anziani la segheria di
Pappalardo (nei pressi dell'ex stazione), di Cesari'e Cartoccia (vicino
il mulino di Costantino o delle fate), di Francesco Blasi (u Peccatu),
di Ruffolo Antonio e di Giovanni Protopapa (queste ultime tre nei pressi
dell'attuale parrocchia).
* * *
Le famose
cantine di San Fili ormai sono state tutte pensionate e c'è da dubitare che
riapriranno e ritorneranno al loro vecchio fulgore... anche se, a dire il vero,
non sarebbe male pensare a lanciare sul mercato una bevanda a base di vino,
magari frizzante, tarata intorno ai 4 o 6 gradi alcolici. Il tutto ovviamente
con marchio "San Fili d.o.c.".
Se poi a tale
bevanda dessimo il nome di "Vino leggero di San Fili", credo che
oltre a fare trenta, saremmo riusciti a fare anche trentuno.
Dopotutto
credo sia inutile dire che il vino, così come l'acqua ed ogni cosa con cui
quotidianamente veniamo in contatto, se consumato razionalmente è anche un
toccasana per la nostra salute. Il vino rosso in particolare sembra che riesca
a prevenire anche alcune forme di cancro.
Ritornando
comunque al nostro discorso iniziale, ossia alla definitiva chiusura delle
cantine di San Fili, c'è da dire che gli anni compresi tra il 1960 ed il 1990
hanno avuto le loro vittime anche su questa sfaccettatura del commercio locale.
In tutto ciò
vi sono stati tanti lati positivi oltre che a tanti lati negativi: in effetti
era un po' vergognoso, ad una certa ora del giorno, trovare tanti ubriaconi
girare barcollanti per il nostro paesino. In alcune famiglie, tra l'altro, dove
vigeva un sistema patriarcale basato più sulla quantità di vino che si era
riusciti ad ingurgitare nel corso della giornata che non sulla effettiva (? ...
mi scusino le lettrici!) superiorità dell'uomo, per le donne e per i fanciulli
era un continuo dramma dover sottostare alle regole loro imposte da Bacco e
seguaci.
Non era
neanche una rarità sentir presentare all'epoca l'ultimo dei propri pargoli con
la dicitura "chistu è figliu du vinu!".
Ancora
ricordo, quando abitavo in campagna (ai tempi della mia fanciullezza),
rientrando con mia madre (che all'epoca lavorava saltuariamente nel ristorante
di don Gustino al Rinacchio) il caso d'una nostra vicina che alle undici di
sera la trovavamo ben distante da casa sua ad aspettare ore più fortunate per
rincasare.
Alla domanda
del perché si trovasse lì, la risposta era semplice: "Maritumma è
'mbriacu puru stasira e si trasu mi mina!".
Resta in ogni
modo emblematica la risposta che sembra sia stata data dal marito di questa
donna pochissimi anni fa (due o tre) quando, ricoverato d'urgenza in ospedale
per chissà quali problemi di salute. Avendogli riscontrato i dottori la
cosiddetta "acqua" non so più se nella pancia o nei polmoni, sembra
che questi abbia fatto notare agli incamiciati quanto fossero lontani da una
giusta diagnosi: "Duttu?!? ... guardati ca vi sbagliati: cumu faciti a
dire ca tiagnu acqua 'ncuaddru... s'io acqua unn'aju mai vippitu 'n vita mia?".
Per San Fili
fatti del genere (pessimi rapporti tra mogli e mariti a causa del vino) negli
anni cinquanta e sessanta non erano certamente casi sporadici, malgrado non
fossero la regola. Non bisogna dimenticarsi che a quei tempi ancora tante
famiglie più che nascere dall'amore tra due soggetti nascevano dalla necessità
economica dell'uno o dell'altro (e spesso la parte più debole, da questo punto
di vista, era proprio quella femminile).
Le cantine di
San Fili: si chiude un'epoca.
Poco o per
niente amanti delle cantine sanfilesi erano certamente le nostre donne, anche
perché le stesse, succubi, come già detto, fino agli anni sessanta d'una
concezione della famiglia basata sull'impostazione patriarcale, spesso pagavano
sulla loro pelle e nella loro dignità il peso d'avere un marito schiavo di
Bacco.
Non mancava
tra queste, comunque, chi non disdegnava di bere il suo bel quartuccio.
Alcune donne
(qui lo scrivo e qui lo nego!), ad esempio, mandate dal marito alla cantina ad
acquistare un fiasco di vino, non mancavano di farsi riempire dall'oste un bel
bicchiere col sacro nettare da bere sul momento... forse per paura che a casa
sarebbero rimaste all'asciutto.
Il più delle
volte, comunque, a riempire il fiasco nelle cantine venivano mandati i
fanciulli. Roba da telefono azzurro, a causa delle battute e dei pessimi
apprezzamenti che a questi venivano rivolti dagli ospiti della cantina o da
coloro che incontravano per strada.
A questo
punto, tenuto conto che siamo alle ultime battute di questa ricerca popolare,
viene giustamente da chiedersi: come mai non vi sono più cantine nel nostro
paese? ... forse perché i sanfilesi di botto se non sono diventati astemi poco
ci manca?
Se è per
questo motivo, devo dire che la questione non mi dispiace affatto.
Personalmente
bere un buon bicchiere di vino, specie se in buona compagnia (ed in particolare
lontano dalle donne... che sono una vera palla al piede quando ti vedono
sorseggiare un bel bicchiere di rosso... quasi fossero gelose della bottiglia
stessa) non mi è mai dispiaciuto
L'abbandono
delle campagne, l'abbandono di un certo tipo di economia prettamente agricola e
quindi basata sull'uso delle braccia, l'istruzione, le nuove norme fiscali, il
nuovo stile di vita sedentario... hanno contribuito tantissimo alla drastica
diminuzione dei grandi bevitori e quindi degli assidui frequentatori delle
cantine.
Dal punto di
vista occupazionale sono pochi, infatti, quelli rimasti a coltivare la terra o
a fare lavori faticosi e manuali, ed è proprio in questi soggetti che il vino
ha i suoi maggiori accoliti.
San Fili non è
più il San Fili degli inizi del XX° secolo o del 1950: non è più un punto
obbligato di passaggio e di sosta, né un centro abitato che deve ospitare e
provvedere al sostentamento di ben cinquemila anime.
San Fili oggi
è diventato... un paese dormitorio, i cui ultimi aneliti di vita reale e verace
li troviamo (speriamo ancora per molto tempo) in Piazza San Giovanni: un
ringraziamento di cuore, per la serie di articoli su "Le cantine
di San Fili" lo faccio agli amici compa' Giovanni
Calomeni, Sandro Cesario, Marcello Speziale, Giuseppe Saggio, Antonio
Asta, mastru Totonnu D'Agostino, Mario Oliva, mastru Michele
Leo e a quanti altri, non menzionati, mi hanno dato la possibilità di scrivere
un'altra bella pagina sulla nostra stupenda comunità. Un particolare grazie,
infine, lo rivolgo a te lettore per avermi sopportato per ben dieci puntate
(paragrafi)!