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Copertina della raccolta di commedie TAL QUALE di PEPPE ESPOSITO. |
Recita de 'A NOTTE di PEPPE ESPOSITO. Teatro comunale di San Fili. 2 settembre 2018. |
Il Blog di Pietro Perri dedicato a San Fili (uno dei più bei paesi della provincia di Cosenza) e ai Sanfilesi nel Mondo.
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Copertina della raccolta di commedie TAL QUALE di PEPPE ESPOSITO. |
Recita de 'A NOTTE di PEPPE ESPOSITO. Teatro comunale di San Fili. 2 settembre 2018. |
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Strana combinazione di segnaletica al bivio di villa Miceli a San Fili (CS). |
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San Fili: ponte/viadotto Emoli I. |
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Lettera rassicurazione ANAS. |
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Sopra: la copertina della rivista I
l Gattopardo (edizione della
Calabria) del mese di settembre
2018.
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Nella foto a sinistra
(ripresa dal web): Pianta del miglio. A San Fili spesso usiamo chiamare “farina
miglinu” (quella che utilizziamo per fare la polenta o la stessa “mpigliolata
santufilise” la farina di mais. Eppure la pianta del miglio è una pianta
che ha ben poco a dividere con la pianta del mais... o forse, per quanto
riguarda anche noi sanfilesi, no?
Articolo pubblicato sul
Notiziario Sanfilese del mese di marzo del 2018... by Pietro Perri.
E se la farina utilizzata per fare la ‘mpigliolata
o “u pane miglinu” non fosse farina di miglio? Sarebbe un bel guaio,
vero?
E invece no! ... anche perché la farina
che a San Fili ancora oggi chiamiamo familiarmente “farina di miglio o miglina”
in effetti tutto è tranne che “farina di miglio”.
Più precisamente è farina di mais o farina
di granturco.
Un errore questo che sembra ci portiamo
ormai avanti da tempo immemore. Un errore che facevo anch’io... prima di
iniziare a scrivere quest’articolo sulla ‘mpigliolata.
A farmi aprire gli occhi in merito è stato
il nostro compaesano Achille Blasi, da tempo residente a Milano ovvero nella
capitale del popolo dei polentoni. Quindi chi meglio di lui poteva farmi capire
che c’è una bella differenza tra la pianta del miglio e la pianta del mais o
granturco che dir si voglia?
Un errore evidenziato persino da Luigi
Accattatis già alla fine del XIX secolo nel suo famoso, per noi cosentini in
particolare, “Dizionario del Dialetto Calabrese” (Cosenza 15 gennaio 1895/30
marzo 1898). In tale dizionario alla voce “migliu” infatti leggiamo:
* *
*
Migliu, s. m. Miglio; Pianta rada, pendente che fa un seme piccolo,
rotondo, lucido, gialliccio chiamato con lo stesso nome, e si adopera
specialmente per cibo di certi uccelli. E’ nota in botanica col nome di Panicum
miliareum, ed è originaria dell’India || Migliu chiamano
impropriamente anche il Granone o Granturco: Pane de -; Pane di
grano d’India, sebbene anche del miglio che noi coltiviamo, la gente povera
faccia delle focacce per isfamarsi.
* *
*
La domanda a tal punto sorge spontanea:
come mai i nostri nonni, i nostri padri e persino qualcuno di noi ancora oggi
chiamiamo miglio il mais?
Diciamo che il miglio ed il mais un po’
come pianta si somigliano (almeno a vederle su internet in quanto personalmente
a questo punto dubito di aver mai visto una pianta di miglio in vita mia). Ed
un po’ si somigliano anche come forma e colore del seme.
Non solo: anche il seme del miglio può
essere macinato e quindi dallo stesso si può ricavare anche una farina anche se
a conservazione decisamente ridotta. E da tale farina sembra si possano anche
ricavare delle pagnotte (l’originario pane miglinu?) e
presumibilmente la ‘mpiglionata di farina di mais o granturco non ha
fatto altro, in tempi a dir poco ormai remoti, che prendere il posto alla ‘mpigliolata
realizzata anticamente con farina di miglio.
Non mi meraviglierei infatti che i nostri
trisnonni e/o i loro ascendenti conoscessero più la coltivazione del miglio
vero e proprio dalle nostre parti che quella del mais o granturco. Coltivazione
presumibilmente meno faticosa per quanto riguarda il lavoro e più proficua dal
punto del rendimento.
E venne l’era dei pop-corn.
Coltivazione sostituita quasi
completamente nel corso del XX secolo con quella del grano per la sua più
apprezzata (ma anche più dannosa, ce ne rendiamo tristemente conto oggi)
“farina bianca”.
Inutile dire, per quanto riguarda la
fruttificazione, che mentre con il mais siamo difronte ad una pannocchia con il
miglio siamo difronte ad una spiga.
A proposito: il granturco o mais in
dialetto (più nel dialetto dei nostri nonni, comunque, che nel nostro) è detto ‘ndianu
o ‘nniànu (abbreviazione di “grano indiano” o “grano turco” nel
senso di esotico).
Oggi il miglio, ormai quasi sconosciuto in
Italia, è coltivato in particolare nell’Europa orientale.
* *
*
Un caro abbraccio a
tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.
... /pace ma... “si vis pacem para bellum”!
Giulia Fresca, Franco Sangermano e Giuseppe "Peppe" Esposito. |
Copertina della raccolta di commedie "Il turno". |
Pubblico nella sala G. Iusi di San Fili domenica 8 luglio 2018. |
Nella foto a sinistra
(ripresa dal web): Patate 'mpacchiuse... ara santufilise. ‘E
patate ‘mpacchiuse (piatto povero ma decisamente gustoso) sono uno dei
piatti tipici santufilisi assieme a pochissime altre pietanze o dolci
quali ‘a ‘mpigliolata oggetto di quest’articolo. Foto dal web.
Articolo pubblicato sul
Notiziario Sanfilese del mese febbraio del 2018... by Pietro Perri.
*
* *
Non raramente sento chiedermi da gente non
sanfilese quali siano i piatti tipici della cucina del nostro stupendo...
amato/odiato borgo.
Credetemi, non è facile dare una risposta
a tale domanda. O almeno non lo è per lo scrivente (non ho mai messo in dubbio,
infatti, né ho intenzione di farlo d’ora in poi, la cultura a dir poco
superiore - confrontata alla mia - di tanti miei compaesani).
Certo se dovessi riferirmi ad un dolce
tipico non potrei fare a meno di nominare la nostra stupenda chjina (tipico
dolce sanfilese del periodo di carnevale, per chi non lo conoscesse o ne avesse
perso il ricordo) ma troverei grosse difficolta ad indicare un primo piatto, un
buon secondo o un contorno.
Intendiamoci: a San Fili, ovviamente
escludendo singoli casi e/o singoli periodi storici, così come in buona parte
del Meridione d’Italia (grazie anche e soprattutto alla nostra arte
d’arrangiarci col nulla) non siamo mai morti di fame riuscendo non raramente a
far diventare, in cucina, oro colato del semplice piombo.
Però... come rispondere al mio
interlocutore col classico “lagana e ceci” o, per i più sofisticati, “lagana
e cicerchie” o, per restare nel classico, dei fusilli (‘nchionchiari)
conditi con sugo d’agnello o lardo e costine di maiale? ... troppo banale,
troppo scontato, troppo... calabrese.
Diciamo la verità: a San Fili non siamo
stati in grado finora di “istituzionalizzare” una cucina tradizionale.
Ognuno di noi ne inventa, a giusta
richiesta di conoscenti “non sanfilesi”, di volta in volta una propria e spesso
una nuova che tutto ha tranne che di sapore e profumo... tradizionale (tipico
ed unico) sanfilese.
Qualcuna di tanto in tanto provo ad inventarla
anche io. E lo faccio ovviamente rifacendomi ai ricordi che sopravvivono in me
dai tempi in cui la mia famiglia abitava ancora in campagna in contrada
Volette, ovvero fino al 1968, o ai primi anni in cui, con la stessa, mi sono
trovato catapultato nella vita, decisamente meno bucolica di quella della
campagna, del paese.
La cucina della mia famiglia era, ed in
parte lo è tutt’ora, una cucina definibile “povera”. Ed ovviamente con “povera”
intendo una cucina in cui c’era, e c’è, poco da mangiare.
La cucina della mia famiglia era
caratterizzata da pasta fatta in casa, almeno la domenica, con ottimi “fusilli
realizzati col ferro” (‘nchionchiari... prima o poi troverò l’esatta
trascrizione di tale termine), gnocchetti senza patate (strangugliaprieviti
- strangola preti) o gnocchi con patate, uova cucinate in vari modi (tipo ‘mpurgatoriu
o ‘mprigatoriu) e via dicendo. Per secondo, essendo noi gente di
campagna (tengo a sottolineare che in quegli anni non era la campagna ad essere
periferia del centro urbano di San Fili ma esattamente il contrario), si
mangiava quello che la campagna stessa ci metteva a disposizione: carne da
animali da allevamento, latte, uova ecc. ecc.
Oltretutto per quanto riguarda i piatti
che si ricavava dall’uccisione e dalla lavorazione degli animali di allevamento
anche in questo caso qualcosa, qualche sapore di quei tempi - il progresso ce
lo impone - l’abbiamo perso. Qualcuno di voi infatti ricorda ancora per caso il
sangue del pollo bollito e fritto? ... o ‘e cuorduliddre (interiora
pulite ed intorcinate su rametti di prezzemolo e quindi cotte magari in un po’
di sugo di pomodoro)? ... lasciatemi dubitare.
E per contorno? ... patate e verdure.
Queste ultime non sempre frutto di coltivazione ma frutto di raccolte di erbe
spontanee quali i gustosissimi cardi (carduni) e cicorie selvatiche,
germogli di aneto (finuocchi ‘e timpa) e germogli di vitalba (vitarve).
Verdure queste, ma non solo queste, cui spesso ci si limitava a sbollentarle e
passarle successivamente in un tegamino dove si era messo a friggere un aglio
in un po’ d’olio o strutto (grasso di maiale).
I germogli di vitalba (qualcuno a San Fili
li raccoglie ancora... a volte anche io) dopo sbollentati non raramente li si
impastava con l’uovo sbattuto e vi si ricavava una gustosissima frittata. Una
frittata che poteva far concorrenza alla frittata con asparagi... ovviamente
selvatici ed altrettanto ovviamente delle nostre parti.
Persino le patate dalle nostre parti negli
anni precedenti gli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso avevano uno spazio
non indifferente nella nostra “cucina tipica sanfilese”... sempre con
riferimento alla mia famiglia.
Un esempio ne erano le cosiddette “patate
‘mpacchiuse” (patate tagliate a fette tonde e relativamente spesse e messe
a friggere - all’inizio con il coperchio - con qualche foglia di lauro e con
qualche spicchio d’aglio a più strati in una capiente padella o... frissura).
Tale pietanza è una delle poche che, stranamente, ha trovato un piccolo spazio
nella cucina dei ristoranti locali. All’interno della padella per diversificare
il sapore delle “patate ‘mpacchiuse” si poteva arricchire la cottura
aggiungendo alle stesse altri ingredienti quali punte di asparagi, broccoli
neri, cime di rapa, funghi porcini (siddri), cipolle e chi più ne ha più
ne metta.
Ottime, a quei tempi, erano anche le
patate cotte nella cenere.
Nel fare tra me e me quest’excursus della
cucina tipica locale in ogni caso non potevo non pensare a determinate pietanze
(piatti?) tipiche di quei tempi ma che oggi sembra siano quasi del tutto dimenticate
o comunque destinate all’eterno oblio.
In tale mio excursus gastronomico, inutile
dirlo, non parlerò della lavorazione della carne del maiale e dei suoi
derivati.
Un esempio? ... i taralli sanfilesi
(quelli realizzati immettendo nell’impasto il sempre più raro... saporitissimo
anice nero o aranzo che dir si voglia), la majatica (in alcune
zone del cosentino la chiamano ‘nchiambara... ma non è altro che un
gustosissimo fritto di farina relativamente liquida anch’esso diversamente
condito all’interno) o la (squillino le trombe)... ‘mpigliolata
santufilise.
Ma di questa deliziosa e quasi dimenticata
pietanza che ai nostri nonni al solo pensiero veniva l’acquolina in bocca... ne
parleremo quanto prima (...).
(continua).
* *
*
Un caro abbraccio a
tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.
... /pace ma... “si vis pacem para bellum”!