A chi non ha il coraggio di firmarsi ma non si vergogna di offendere anche a chi non (?) lo merita.

Eventuali commenti a post di questo blog non verranno pubblicati sia se offensivi per l'opinione pubblica e sia se non sottoscritti dai relativi autori. Se non avete il coraggio di firmarvi e quindi di rendervi civilmente rintracciabili... siete pregati di tesorizzare il vostro prezioso tempo in modo più intelligente (se vi sforzate un pochino magari per sbaglio ci riuscirete pure).
* * *
Ricordo ad ogni buon file l'indirizzo di posta elettronica legata a questo sito/blog: pietroperri@alice.it

sabato 27 agosto 2022

L'AUTORE: San Fili... un amore antico.



Nella foto a sinistra: San Fili, piazza san Giovanni - il monumento ai caduti sotto la neve.

San Fili 1991.

Foto by Pietro Perri.

*     *     *

Si era agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso e qualcosa, seppure come al solito nessuno se ne accorgeva o si faceva in quattro per non accorgersene, stava cambiando per l'intera Società Italiana... incluso nel piccolo borgo di San Fili che, volenti o nolenti, fa parte della provincia di Cosenza, della regione Calabria e persino dello stato conosciuto da tutti come il Bel Paese.

Si chiudeva un’epoca agli occhi dei Sanfilesi… una tragedia culturale che li affratella alle piccole realtà delle comunità circostanti: l‘Europa del consumismo, della negazione delle minoranze e delle culture locali non ammetteva e non ammette ulteriori proroghe.

Queste pagine, nel pieno rispetto di quanto promesso nei succitati versi, mirano a salvare un po’ della memoria popolare della comunità sanfilese. Spero, con tale lavoro, di far cosa gradita a quanti, anche involontariamente, s’imbatteranno in questo piccolo scoglio pseudo-culturale del grande mare chiamato Internet. Giunti a questo punto credo sia opportuno dire cosa è San Fili: San Fili è una piccola cittadina in provincia di Cosenza (Italia). Attualmente conta poco meno di tremila abitanti.

E’ collegata al capoluogo di provincia dalla superstrada Cosenza-Paola. La sua posizione geografica è ottimale: 17 chilometri dal mare, 10 dal centro urbano di Rende, 10 dall’imbocco dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, 10 dalla stazione ferroviaria di Castiglione Cosentino. Vicinissima alla Sila, al di fuori del caos cittadino, ricca di sorgenti d’acqua, consigliata per l’aria salubre.

Notevole (almeno dall’anno 1000 in poi) è la sua presenza storica nei fatti che hanno interessato la Calabria Citeriore.

Era il 1982 quando, osservando la nascente zona (dal punto di vista edilizio) Frassino-Donnici, la musa della poesia m’ispirò questi versi:

 

Parlerò di San Fili

e della sua gente:

di gente che sa farsi amare

e al tempo stesso odiare...

di gente con cui piace stare.

 

Poggiato sul suo colle

guarda il fiume e la valle,

guarda Bucita e l’Italia in miniatura:

guarda lontano e spera.

 

Salirò s’un alto campanile,

abiterò fra rondini e colombe

e tra un tocco di campana e l’altro,

ritornerò a sognare.

 

San Fili e grande…

San Fili è bello

ma ricorda tempi migliori.

San Fili è unico… soffre:

San Fili muore.

 

Buona parte degli scritti riportati su questo spazio web, sono tratti da articoli pubblicati dal sottoscritto sul quindicinale a distribuzione gratuita "l'occhio":



Direttore Responsabile: Marisa Fallico

Redattore di San Fili (nell'ultimo periodo): Pietro Perri

Pubblicità e P.R.: Giancarlo Aspromonte

Edizione: La Vecchia Fonte

Presidente: Luigi Aiello

mercoledì 24 agosto 2022

Za Maria... l'ultima magara di San Fili?



San Fili 2005 - Chiesa Madre o dell'Annunziata. Foto di gruppo dopo una festa in onore di san Francesco di Paola. Nella foto (di cui non sono a conoscenza dell’autore)anche "za Maria" devotissima al santo patrono di San Fili. Il prete è don Franco Perrone.

*     *     *

Premessa d'obbligo dell'autore.

Il racconto che riporto di seguito, seppure con il nome cambiato del personaggio protagonista "za Maria", m'è veramente capitato nel mese di maggio 2002 o giù di lì. "Za Maria" nella realtà è la signora I., conosciutissima a San Fili e fuori San Fili per le sue doti "magiche" (profetiche e taumaturgiche). E' a lei, e a tutte le brave donne di una volta, che dedico di cuore il seguente racconto.

*     *     *

Za Maria era e continua ad essere famosa, tra i paesani e non solo, per le sue capacità divinatorie e taumaturgiche.

Tanto famosa che persino i pragmatici frequentatori, studenti e professori, dell’Ateneo sito nella vicina Arcavacata, l’Università della Calabria, alla fine si son dovuti accorgere della sua esistenza.

Dopotutto za Maria non era una personalità da nulla, dopotutto za Maria era e resta ormai per tutti una vera e propria istituzione: per lei, e per i suoi preziosi consigli e magici intrugli, prendeva il treno da tutta la provincia una moltitudine di persone.

Za Maria, è e resta l’ultimo baluardo di un mondo destinato a scomparire con il dissolversi della fantasia, dell’amore e della solidarietà tra gli esseri umani.

Lei rappresentava e rappresenta l’ultimo legame che lega la comunità sanfilese ad un passato che seppur non tanto remoto ormai non è più: un passato che affiancandosi alla medicina e alla religiosità ufficiale riusciva egregiamente a colmare i vuoti che queste due strane entità a volte lasciano tra loro e l’oggetto del loro esistere… l’uomo.

Za Maria aveva sempre è comunque pronta una risposta a tutto e per tutto, persino a quando le posero la comanda del come mai pur avendo aiutato e salvato tante persone da tanti mali oscuri e brutti, non fu in grado di salvare il marito da uno di questi mali: il cancro.

- Sta scritto che noi possiamo aiutare gli altri, ma non noi stessi e i nostri familiari: è l’amaro che dobbiamo pagare in cambio di questo stupendo dono.

Za Maria non sbagliava mai, ed io sono sicuro che tuttora non sbaglia, le sue previsioni, le sue diagnosi e le terapie che ella stessa indicava ai suoi clienti - pazienti… con l’arte antica e sapiente della scelta e della miscelatura delle magiche erbe.

Quella stessa arte che per essere raggiunta, alcuni dotti v’hanno impiegato una vita, e spesso con risultati inferiori, nei banchi dei vari livelli della scuola.

Dopotutto, questi, non sono stati né alunni di za Maria né alunni degli insegnanti di za Maria.

Mi dicono che quest’arte oggi la chiamano "erboristeria". Una volta si chiamava semplicemente magia e tante vite, il conoscerla e praticarla, è costata a tante giovani, anziane, colte e sapienti donne. Forse più vite di quante le stesse ne avevano salvate praticando questa magica arte.

Strega era il suo peccaminoso mestiere ed il rogo ne era la sua giusta punizione.

Za Maria non poteva e non può sbagliare, anche se lei dice che è da qualche anno che ha lasciato la "professione". Dopotutto za Maria è nata, cresciuta e vive nel paese delle magare: San Fili. E dopotutto tutti sanno che lei è una delle ultime detentrici del "libro bianco delle streghe buone".

Agli inizi di maggio 2002 mi è giunta una telefonata da una studentessa dell’Università della Calabria, diceva di essere iscritta al DAMS (un corso universitario speciale che, se ho capito bene, dovrebbe formare gli artisti, showman – attori – registi ecc., di domani). Disse di chiamarsi Alessandra e di essere di un comune attiguo a San Fili. Disse di aver navigato nelle pagine web del sito "San Fili by Pietro Perri" e d’averle trovate interessanti per un lavoro che stava realizzando assieme ad alcuni compagni di corso: un documentario sulle tradizioni contadine e popolari della nostra zona.

Mi chiese se potevo aiutarli in questo lavoro magari consigliandole qualche persona particolare di San Fili cui avrebbero potuto parlare di tutto ciò, ed in particolare di magia, magare e magarie.

Non potei fare a meno di pensare a za Maria… chi più di lei poteva, per così dire, tenere una lezione universitaria in merito?

Non vedevo za Maria ormai da tantissimo tempo, forse da più di un anno, il giorno successivo (sarà il caso o la magia di za Maria) eccotela venirmi incontro in modo, a parer mio, per niente casuale: con lei nulla può essere casuale.

- Za Mari’, ieri sera m’è successo questo e quello.

Le raccontai, in poche parole, la telefonata intercorsa tra me ed Alessandra.

- Pietro, mi hanno già telefonato: un altro alunno con un professore, …

Non credevo, pensai tra me e me, che fosse famosa a tal punto.

- ... al professore gli ho già detto tutto, ma se lo reputi opportuno, parlerò anche con questa ragazza. Comunque non crederti che possa dirle granché, dopotutto io non ho fatto studi particolari e la mia magia nasce da qualche libro di erboristeria e da alcune ricette trovate su alcuni calendari di monaci del tipo "Fra Pace e Bene". E poi, come ti dicevo, è da tempo che non pratico più la "professione.

Feci finta di non capire (dopotutto io ero stato un discepolo della magia bianca e sapevo che stava mentendo… o almeno volevo crederlo).

- Za Mari’, però ieri sera ho cercato il vostro nome sull’elenco telefonico e non l’ho trovato. Che sia registrato a nome di qualcun altro?

- Petru’, supr’all’elencu nun mi cce truovi, ch’io tiegnu u telefoninu! Comunque, si pigli na carta e na pinna, ti dugnu u numeru e tu signi… ppe r’ogne necessitate!

Detto fatto, presi carta e penna, segnai il numero e me ne andai felice pensando tra me e me: hai capito un po’… non fa più la "professione", almeno così dice, e per giunta s’è fatta il cellulare.

Sarà, ma quello che io penso e che anche ‘e magar'e Santu Fili si sono adeguate ai tempi… restando pur sempre magare.

Una cosa però mi strugge il cervello: s’è vero che za Maria non fa più la "professione", cosa che io non credo… e lei lo sa bene…, che fine ha fatto il "libro bianco delle streghe buone" a cui dissero tenesse così caramente? Forse qualche altra magara sta prendendo forma all’orizzonte sanfilese?

*     *     *

In questi giorni (il 22 luglio 2002 per la precisione), tra l'altro, in un vicolo che collega via Rinacchio con corso XX Settembre (all'altezza dell'ex rifornimento di benzina), andando a trovare i miei anziani genitori mi sono imbattuto con l'amico Franco Crivaro, il nostro caro poeta locale.

- Ciao, Fra'... a quanto tempo! ... tutto bene?

- Sì, Pie': tutto bene.

- De ddrue sta veniennu?

- Sono andato un attimo ad accompagnare alcuni "stranieri" dalla signora I.

- Ed io vado a trovare cinque minuti i miei vecchietti. Ci vediamo più tardi, Fra'!

Voi che dite: ... che veramente "za Maria" ha appeso le proprie scarpe da tennis e la propria racchetta ad un chiodo e veramente non pratica più il suo stupendo "sport". Per quel che mi riguarda... se un giorno dovessi avere qualche delusione d'amore o qualche serio problema di salute, so bene a chi mi rivolgerò. Magari non mi risolverà il problema... ma perlomeno non me lo farà aggravare come fanno alcuni medici dell'era moderna con i loro "pazienti" pazienti.

Eppoi, dalle nostre parti, "nu bellu foraffascinu u gguasta mai! ... ccu tutti st'uocchi stuarti chi circolanu ppe re vie".


martedì 23 agosto 2022

Chin'ha vrusciatu l'acqua aru mulinu de Filibertu a Vucita?



(Foto a sinistra) San Fili - Frazione Bucita: i resti del mulino di Filiberto. Il mulino seppur ricordato da tanti come "u mulin'e Filibertu" in quanto questi ne è stato il gestore fino alla definitiva chiusura in effetti era di proprietà di Biagio de Lio detto "veramente". Filiberto Napolitano in ogni caso era genero di Biagio de Lio. Attualmente a gestire i resti di tale mulino è della l'amico Pietro Cribari di San Fili. Da sottolineare che la madre di Pietro Cribari era figlia di Biagio de Lio. Si ringrazia per parte di tali informazioni l'amico Tarcisio Cavaliere della frazione Bucita.

Foto Pietro Perri.

*     *     *

Se l'Olanda, più che per i tulipani, è diventata famosa in tutto il mondo per i suoi caratteristici mulini a vento, a pieno titolo San Fili potrebbe diventare altrettanto famoso per i suoi mulini ad acqua.

Non solo lungo il torrente Emoli ma anche nei pressi dei corsi d'acqua della frazione Bucita si possono ancora ammirare i resti dei mulini ad acqua che imperavano sull'intero territorio sanfilese.

Tutti ancora riportanti i nomi degli antichi proprietari o gestori di tali mulini (Custantinu, Filibertu, Crispini ecc.) e solo in pochissimi casi nomi legati a fantastici racconti di cui si è ormai persa ogni traccia nella memoria dei sanfilesi (u mulinu de fate).

Tra l'altro una zona di San Fili indicata agli avventori con più nomi ("u Curciu 'e Catalanu", "la villa degli emigranti", "a scis'e jumiceddre" ecc.), tra gli stessi annovera quello de "u chianu di mulini" (ad evidenziare la notevole presenza di un tempo di tali fabbricati produttivi nella zona medesima).

Ma la domanda base di quest'articolo è la seguente: come mai non si valorizza adeguatamente questo patrimonio storico del nostro paesino?

O più precisamente: come mai i mulini di San Fili, in ogni senso, non lavorano più?

O, ancor meglio: chine ha vrusciatu l'acqua ari mulini 'e Santu Fili?

Proprio così, perché volenti o nolenti, non ci si può non accorgerci, e magari far finta di niente, che acqua ai mulini (necessaria a dar vita all'ingranaggio che faceva muovere le grosse ruote in pietra che avrebbero trasformato il grano in farina) ormai non ce ne arriva da tantissimo tempo.

Una domanda questa che più volte mi ero posto da fanciullo, specie quando (presumibilmente non raggiungevo l'età dei sei anni) qualche scellerato molto più grande di me davanti al bar dell'amico Gigetto Sammarco, richiamando l'attenzione di tanti suoi coetanei, mi accusava senza ritegno d'avermi visto "vrusciare l'acqua aru mulinu 'e Filibertu a Vucita".

Inutile dire che io non c'entravo niente (e non c'entravo niente davvero), ad uno ad uno più d'una persona finiva per giurare d'avermi visto nei pressi del mulino di Bucita (un mulino di cui io, tra l'altro, ignoravo persino l'esistenza).

Qualche tempo dopo, non so per quale ricorrenza religiosa (forse per l'Addolorata, o per san Biagio o per santa Lucia) mi capitò d'andare con i miei a piedi alla frazione. Non so se fosse stata mia madre o se fosse stato mio padre ad indicarmi quello che un tempo fu il mitico mulino ad acqua di Filiberto.

Guardai nel canale... ed effettivamente acqua all'interno non ne scorreva: qualcuno, ma ve l'assicuro non sono stato io, aveva effettivamente "vrusciatu l'acqua aru mulinu"!

Che azione ignobile, che danno per l'intera comunità: perché qualcuno s'è divertito a fare ciò? Perché i carabinieri all'epoca non hanno fatto doverose indagini in merito? Perché questo lestofante doveva farla franca e perché innocenti come il sottoscritto dovevano essere accusati senza ragione d'una azione tanto vile?

Ne sono passati anni da quel triste giorno. Eppure ancora oggi nel rivedere di tanto in tanto il volto del mio primo accusatore, non posso fare a meno di provare un po' di disgusto nei suoi confronti.

Sarebbe bello che i mulini di San Fili tornassero in vita, che l'acqua tornasse a far muovere i loro magici ingranaggi. Sarebbe bello e, a parere di un ignorante in materia, potrebbe essere un modo come un altro per rilanciare turisticamente il nostro paesino: la città dei mulini ad acqua.

Ma questa volta, vi prego, se va in porto il progetto: mettete del personale a guardia dell'acqua dei mulini... non sarebbe giusto che qualche altro vandalo senza cuore si divertisse a bruciarla di nuovo (ridando magari la colpa al sottoscritto).

lunedì 22 agosto 2022

Il pane casereccio.


Foto a sinistra - San Fili (1950-1960): tipico contadino intento a "fare il pane". In altri tempi tutte le case di campagna sanfilese avevano il loro forno.

Foto archivio Francesco (Ciccio) Cirillo. Articolo by Pietro Perri.

*     *     *

Nel corso dei begli anni che furono (fino al 1960) troviamo diversi mulini operanti nel paese nel nostro paesino... e ce n'erano veramente tanti operanti sul territorio di San Fili (CS) e in quello della frazione Bucita. Ce n'erano tanti e tutti che sfruttavano la forza motrice che veniva elargita gratuitamente loro dallo scorrere perenne dei nostri torrenti.

A volte mi chiedo come facevano a sopravvivere tutti questi mulini in una comunità come quella sanfilese (seppure la nostra comunità in alcuni periodi della sua storia demografica abbia raggiunto le cinquemila unità): a volte mi chiedo, e non senza ragione, da dove veniva questa eccezionale offerta di materiale (grano, miglio, castagne ecc.) da far macinare, tanto da giustificare un tale numero di mulini operanti sul nostro territorio.

Ma forse sarebbe meglio se mi chiedessi come facevano una volta i sanfilesi, senza i pastifici nazionali o i panifici dei comuni confinanti, a procurarsi il pane e la pasta che, più o meno quotidianamente, sopperiva e sopperisce al loro fabbisogno alimentare.

Erano quelli gli anni in cui le brave massaie sanfilesi, col solo aiuto delle loro mani, facevano la pasta in casa (lagana, 'nchjonchiari, lasagne, “strangugliaprieviti”) e da sé facevano anche il pane che sarebbe servito al proprio nucleo familiare per i successivi dieci o quindici giorni. Erano quelli gli anni in cui la casa (spesso composta da una sola stanza adibita a più funzioni e da spartire con altri sette o più coabitanti) odorava di farina e di pane appena sfornato.

Una delle cose che i nostri predecessori sapevano, e dovevano, fare decisamente bene era certamente il "pane": quel delizioso, a volte oggigiorno sottovalutato, alimento che veniva prodotto con la farina ottenuta dal grano che loro stessi coltivavano nel corso dell'anno.

Il pane veniva fatto ogni volta per un consumo stimato (tenendo conto anche del numero dei membri della famiglia) tra i dieci e i quindici giorni. L'intera operazione iniziata la sera precedente con la preparazione della "levatina" (un pugno di farina, aggiunto ed impastato col lievito, ogni cinque chilogrammi di pane previsti) veniva completata nel giorno successivo con la cottura nel forno dell'intero preparato.

Siamo in un periodo in cui non si conoscevano tanto i vari lieviti industriali o il lievito di birra tra le famiglie sanfilesi, ma si faceva largo uso del più salutare, per quei tempi, lievito naturale.

Il lievito naturale era di fatto un po' di impasto lasciato al di fuori della panificazione: questo nel giro di pochi giorni irrancidiva ed il gioco era fatto. Il lievito, naturale in tutti i sensi, era pronto per preparare una nuova infornata di pane casereccio.

Per diventare lievito, la parte d'impasto lasciata per tale scopo, ci metteva all'incirca tre o quattro giorni ossia un tempo molto inferiore al tempo che trascorreva tra una infornata di pane e l'altra. Tenuto conto di ciò le varie massaie, per non rischiare di utilizzare lievito andato a male, finivano per passarselo l'un l'altra in tal modo mantenendo sempre fresco e pronto all'uso (in un periodo in cui certamente non si poteva parlare di frigoriferi o di conservanti vari) il prezioso elemento.

La mattina successiva la farina veniva impastata, assieme alla levatina e al sale necessario, nella “majiddra”, e il tutto si lasciava riposare (a crisce ovvero a lievitare) per un due o tre ore. Tale tempo era legato principalmente alla temperatura dell'ambiente in cui era lasciato a riposare l'impasto.

Diviso il tutto in piccoli pani, gli stessi li si lasciava lievitare per un ulteriore periodo coperti e posti in fila su una apposita tavola. Questa fase faceva in modo che il pane, uscendo cotto dal forno, non presentasse una crosta troppo spessa e dura.

Nel frattempo si era preparato opportunamente il forno: nel forno si era bruciato per un paio d'ore una consistente quantità di frasche e i mattoni interni dello stesso avevano preso la classica colorazione tendente al bianco fuoco.

Giunti a questo punto si toglieva la brace dal forno e quindi si passava a pulirne adeguatamente il letto “scupannulu” usando “pezze mbuse mbinte cu fiarru filatu a na piartica 'e castagna”... ossia “cu ru scupulu du furnu”. Tutto ormai era pronto per mettere a cuocere nel forno il pane.

Ad entrare nel forno prima di tutto erano le “pitte” (quasi a prova generale dell'intera operazione) successivamente eventuali “tortani” e il pane propriamente detto. Sulla parte superiore dei pani veniva incisa una croce con un affilatissimo coltello: ciò se da una parte ne garantiva una cottura ottimale (evitando, nel forno, un eccessivo rigonfiamento dello stesso e quindi una pessima cottura), da un'altra parte era di buon auspicio e comunque, in una comunità cattolica come la nostra, di ringraziamento al Signore Dio per averci benedetto in questo giorno di letizia.

E' anche e soprattutto per questo motivo se ancora oggi, dalle nostre parti, si considera "peccato" mettere la forma del pane capovolta sulla tavola... non ritenendosi giusto coprire il simbolo di Cristo.

Oltre “aru scupulu pe ru furnu” i nostri anziani in questa stupenda e profumata giornata, per la gestione delle varie fasi della preparazione del forno e della cottura del pane, utilizzavano diversi altri attrezzi quali “u furcune” (necessario per smuovere la brace all'interno del forno e quindi ravvivare con altre frasche la fiamma all'interno dello stesso), “u grastiaddru” (necessario per tirare la brace fuori dal forno), e la pala per infornare i vari pani, “pitte e “tortani”.

La bocca del forno, in fase di cottura del pane, veniva chiusa “cu ra purteddra”. Il pane nel forno restava il tempo adeguato per ottenerne una cottura ottimale. Tutto intorno si sprigionava, nel frattempo, un odore tanto stupendo quanto indescrivibile.

E com'era bello, appena sfornate le pitte, spaccarne una e addentarne un pezzo su cui si era precedentemente spalmato un po' di “scarrafuagli” (“salimora”, ciccioli). Così come indescrivibili nell'impareggiabile sapore erano quelle piccole “pitte” (o grandi taralli che dir si voglia) ottenute col residuo dell'impasto, raccolto nella “majiddra”, a cui si era aggiunto del grasso per ammorbidirlo e dell'aranzu per aromatizzarlo.

Sapori d'altri tempi che, statene certi, non ritorneranno mai più.

Il pane, cotto e quindi tolto dal forno, veniva riposto in apposite ceste in attesa d'essere portato in casa per adagiarlo, il secondo giorno, sulla “panera”.

Oggi addentare un pezzo di pane acquistato il giorno prima a molti di noi ci fa un po' senso così come ci viene un attacco di nervi quando ci rendiamo conto che il nostro fornitore ci ha fregati vendendoci per fresco un pane che, presumibilmente, gli era rimasto del giorno precedente. Tutto ciò, comunque, avviene nell'era del consumismo egoistico e sfrenato, dove la maggioranza di noi sta più o meno bene ed una ristretta minoranza (così come mi è capitato verso la fine degli anni ottanta di vedere a Milano) è costretta, per sopravvivere, a girare nei bidoni dei rifiuti dei vari ristoranti... senza che nessuno vi faccia caso e prenda opportune iniziative per debellare questo ennesimo scandalo della nostra società moderna e perbenistica.

Oggi addentare un pezzo di pane acquistato il giorno prima fa un po' senso: tanto tempo fa (neanche molto dopotutto), la famiglia media della nostra comunità dormiva con sopra la testa (opportunamente fissata al soffitto) la cosiddetta "panera" realizzata dai nostri falegnami (chi non aveva la "panera", si arrangiava cu nu cannizzu), particolare supporto in cui veniva riposto il prodotto, ormai raffreddato, dell'infornata. D'estate, inutile dirlo, era un continuo "crick-crock" che ti accompagnava per l'intera nottata.

Erano questi i tempi in cui in una stanza dormivano sette o otto persone, in cui i bisogni si facevano in un catino o all'aria aperta, in cui, nella stessa stanza in cui si dormiva, spesso si cucinava e vi si discorreva... erano, grazie a Dio, altri tempi. Ma non sarebbe bello se oggi, ricordandoci appunto di quello che siamo stati, apprezzassimo di più quello che siamo diventati?

Erano questi i tempi in cui il pane dei sanfilesi aveva un ottimo sapore anche se ci si limitava a condirlo con un po' d'olio, sale, origano e, ma questo solo per i buongustai, concludendo il tutto “cu na bella stricata d'agliu crudu 'ncoppa”.

Quindici giorni in cui, passati i primi due o tre, si bagnava il pane prima di portarlo a tavola e si benediceva il Signore per avercelo garantito... e dopo sei o sette giorni non si faceva neanche caso a quella caratteristica muffa verdastro azzurrognola che prendeva vita nelle sue cavità: era, di fatto, anche quella una medicina naturale. Buona parte, se non tutti, dei pani messi in commercio ai giorni nostri quella particolare muffa non la fanno neanche se li si lascia in un ripostiglio per due o tre mesi... chissà perché!

E chissà perché oggi si sente parlare sempre più, anche nella nostra piccola comunità, di tanti mali brutti ed innominabili!

sabato 20 agosto 2022

Domenica prossima... tutti al cinema.



A sinistra: piazza san Giovanni con il cinema teatro di San Fili negli anni Settanta del secolo scorso.

Foto archivio Francesco Ciccio Cirillo.

Articolo by Pietro Perri.

*     *     *

Tra i vari ricordi della mia fanciullezza (primi anni settanta), di tanto in tanto prendono forma anche le immagini di quando, con i miei compagni di scuola e di giochi, a Piazza San Giovanni, sulla scala di quello che fu il "Cinema Teatro comunale di San Fili" (ora semplicemente Teatro), l'uno addosso all'altro, ci si spingeva affannosamente verso l'entrata in quanto prima si entrava e meglio si poteva scegliere il proprio posto a sedere.

Era una battaglia esasperata e spesso anche disperata, che iniziava intorno alle tredici e un quarto e finiva intorno alle quattordici di ogni domenica: i posti migliori, da noi bambini erano considerati quelli delle prime file in quanto non si correva il rischio che qualcuno seduto davanti a noi, leggermente più alto di noi, ci disturbasse col suo testone la visuale.

Era una battaglia che conservava un non so che di magico in tutto il suo svolgersi, persino nei fischi e nelle grida a squarciagola "Orario!!! ... orariooo!!!" nei confronti degli operatori e degli addetti alla vigilanza se questi tardavano di appena un minuto nell'aprire la porta del cinema.

Dopo pochi attimi si vedeva uscire Gigino Luchetta o Pietro Cribari che ci intimavano di calmarci, magari minacciandoci la non proiezione in programma o assicurandoci dell'immediata apertura della cassa. Pochi attimi ancora ed eccoci autorizzati ad entrare, pochi per volta, nell'atrio del cinema dove si pagavano i biglietti (esattamente dove adesso è posizionata la toilette per il pubblico).

Fatto il biglietto (mi sembra costasse agli inizi degli anni settanta cento o al massimo centocinquanta lire) si proseguiva avanti verso l'entrata della platea per farci staccare la "madre" dalla "figlia" (la parte di biglietto che veniva rilasciato dal cassiere allo spettatore, allora come oggi era diviso in due parti) dall'addetto di turno al controllo il quale trattenendone una, ci consigliava di tenere al sicuro l'altra parte per tutta la durata dello spettacolo in quanto potevano esserci dei controlli improvvisi e se venivamo trovati sprovvisti della parte rilasciataci saremmo stati costretti a pagare di nuovo il costo del biglietto.

Fischi e grida si sprecavano inoltre nei confronti degli operatori anche quando, nel corso della proiezione, si spezzava la pellicola (il che comportava qualche lungo minuto d'attesa per riparare il tutto) o semplicemente, con meno colpa per gli stessi, mancava la luce.

Ricordo gli stacchi tra il primo ed il secondo tempo, e ricordo che in quei pochi minuti di intervallo ad un lato del palcoscenico veniva allestito un piccolo punto vendita di patatine, pop-corn, bibite varie cui noi spettatori potevano rifocillarci. Inutile dire che ci si metteva d'accordo col proprio vicino di poltrona (che all'epoca erano in legno) con l'andare uno solo al punto vendita leccornie in quanto l'altro avrebbe dovuto assicurare che nessuno ci avrebbe fregati nel frattempo i posti.

Considerato che i posti a sedere superavano di poco il centinai, infatti, molte persone restavano in piedi ad inizio spettacolo e non perdevano occasione, nel momento in cui si accorgevano che ti stavi alzando per un qualsivoglia motivo, per occupare il tuo posto. Al ritorno, magari eri andato semplicemente alla toilette, inutile provare a farti restituire il maltolto. La toilette, se così si poteva chiamare, si trovava dietro il pannello di proiezione.

Erano altri tempi anche questi, tempi pieni di fascino e che quindi, malgrado le rinunce dell'epoca, meritavano d'essere vissuti pienamente.

Come dimenticare le varie pellicole dei nostri miti di quegli indimenticabili anni quali Tarzan, Zorro, Sansone (da noi definito "l'eroe di cartone"), Maciste (l'eroe di cartapista) e via dicendo? Come dimenticare i giganteschi animali, cui noi facilmente ci affezionavamo, quali Godzilla, King Kong, Katango? ... come dimenticare i western di Sergio Leone, le avventure dei pirati o i film di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia? ... come dimenticare i film di karate dell'altrettanto indimenticabile Bruce Lee!

Ricordo che con i miei compagni di scuola e di giochi, si scendeva le scale del cinema di San Fili, all'uscita d'uno spettacolo d'avventura, tanto carichi d'adrenalina pura, da metterci subito a gridare (facendo appropriate gesta con le mani): "In guardia, io sono Zorro, difenditi!", o battendoci i pugni sul petto (ed emettendo il proverbiale urlo o ruggito) se avevano appena visto un film di Tarzan o di King Kong, il che faceva lo stesso.

Quando iniziai a frequentare il cinema di San Fili (all'incirca il 1970), era un’epoca in cui il cinema non era negato neanche più alle ragazzine (così come, lo racconteremo in qualche altro articolo, lo fu, per la morale pubblica, all'epoca in cui lo stesso vide i suoi albori... il 1926 per quanto riguarda il nostro paese).

In compenso restava ancora un po' d'astio tra noi ragazzi di San Fili e i ragazzi della frazione Bucita: bastava un niente nella sala per offenderci in malo modo ed in altrettanto malo modo rischiare di andare alle mani.

Di cartelloni pubblicitari, che ci dicevano che film si sarebbe proiettati e quando, a San Fili ce n'erano due: uno sulla facciata principale del Cinema Teatro di San Fili ed un altro "mmianzu u Puantu" dove fa angolo il muro della storica "chjianca 'e compa Giuvanne Calomeni".

Ricordo con simpatia che all'epoca i liquidi nelle mie fanciullesche tasche lasciavano a desiderare, e così la domenica oltre alla quota parte che mi davano i miei genitori ero costretto a fare anche il giro di cognizione dai miei nonni materni e da qualche mio zio. Alla fine del giro non solo avevo raggranellato il necessario mancante ma, a conti fatti, mi sarebbe restato in tasca anche qualche spicciolo da giocare a calcio balilla o a flipper bel bar di Cenzino Passarelli, di Teresa Scarpelli o nel circolo dei fratelli Romano e Franco Zuccarelli (i juventini storici nonché veraci del nostro paese).

Il dramma, in tale tragitto, era che oltre ad aver già pranzato dai miei, non potevo fare a meno, essendo in orario di pranzo, per non offendere il tavolo di mettere nella pancia anche un po' di secondo dai miei zii e, come se non bastasse, visto che spesso e volentieri dal Rinacchio raggiungevo via sant'Antonio Abate a recuperare il mio compagno di scuola Giuseppe Pinuzzu Storino (col quale saremmo andati assieme al cinema)... come fare, senza offenderla, a rifiutare di assaggiare qualcosa cucinata dalle mani d'oro della madre Carmelina?

Erano altri tempi: tempi in cui malgrado la mia tenera età e (almeno fino a poco tempo prima di conoscere mia moglie) la mia proverbiale magrezza, non solo riuscivo a mettere in pancia tanto ben di Dio senza dar vita ad un proporzionale aumento di peso, ma in un così poco tempo da essere comunque puntuale alla puntuale ressa che c'era alle tredici e trenta davanti all'entrata del cinema di San Fili.

"A finisci d'ammutta'? ... s'unna finisci d'ammutta' ti fazz'avvide io!", "Parla pa', ca pue ni vidimu all'esciuta du cinema!", erano frasi abituali sia nella ressa per fare il biglietto che all'interno della sala cinematografica. Frasi abituali e senza alcun seguito: appena usciti ci si era ormai dimenticati di tutto ed ognuno andava per la sua strada.

E c'erano, raramente ma c'erano, pure i controlli per vedere se tra il pubblico si era intrufolato qualche clandestino, ossia qualcuno che non aveva pagato il biglietto. In occasione di uno di questi controlli mi ci trovai pure io... e per quanto girassi nelle tasche non riuscivo a trovare la ricevuta del mio biglietto (che comunque ero sicuro d'aver pagato). A dirigere il controllo era un certo zu Franciscu (?), che era l'incaricato della Curia alla Gestione del Cinema Teatro (la Curia infatti ne deteneva la proprietà) di San Fili. Venne in mio soccorso Gigino Luchetta il quale disse di ricordarsi d'avermi visto pagare il biglietto (che sicuramente mi era caduto per terra) ... specificando tra l'altro che il "figlio del sacrestano del Carmine" non era il tipo di entrare illegalmente in sala.

Il Cinema Teatro di San Fili comunque ha una storia tutta sua, che non si limita certamente ai miei ricordi di fanciullo... una storia che inizia nel 1926 ad opera dell'indimenticabile, impareggiabile, instancabile Maestro (la "M" maiuscola non è un errore di stampa né di grammatica o ortografia!) Michele Rinaldi.

Un uomo questo che ha legato il suo nome a più di una cosa nella nostra comunità: la banda musicale, il Festival della Voce, il Festival della Neve, Miss San Fili e chi più ne ha più ne metta.


giovedì 18 agosto 2022

I barbieri di San Fili.

 

A sinistra: Martino Lombardo.

La foto fa parte dell'archivio Francesco (Ciccio) Cirillo.

(omissis).

Questa volta voglio parlare dei barbieri (quelli storici) che hanno fatto sfoggio dei loro magici arnesi a San Fili tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta.

Il mestiere di barbiere, diciamolo a scanso di equivoci, è sempre stata un’arte e non raramente i verbi tagliare e rasare sono andati a braccetto con i sostantivi igiene e salute.

Nei bei tempi che furono, infatti, quando San Fili contava cinquemila abitanti (intorno agli anni cinquanta) non raramente una bella rasata risolveva tanti fastidiosissimi problemi sulle teste dei nostri bambini.

Gli anni cinquanta: gli anni dei mastru Sarvature Ruffolo (mastru della spazzola che aveva il proprio salone ‘mmianzu ‘u puantu), Giovanni Parrinelli (di fronte al vecchio municipio), Davide de ‘Gnaziu (in via Destre), Noe (di fianco al negozio dei Calomeni sempre ‘mmianzu u puontu), ‘Ntonu de Milieddra ‘a monaca (aru Spiritu Santu), Martino Lombardo l’allievo d’Oscarinu Cosenza (‘mmianzu u puantu) Vittorio Blasi (a San Giovanni) e Michele Gentile (di fianco alla Chiesa del Carmine).

Oggi, di tutta una serie di maestri delle forbici storiche di San Fili, possiamo ancora scambiare qualche parola con gli amici Michele Leo, Mario Storino e Franco Napolitano

Quest’ultimo, Franco Napolitano ovvero mastru Francu de Focu, è l’unico rimasto ancora in piena attività, dopo trentacinque anni, nel suo salone di Piazza San Giovanni, ed è proprio nel suo salone che ho preso parte degli appunti che hanno dato vita al presente articolo.

Il taglio di capelli che andavano più di moda negli anni cinquanta e sessanta era di fatto il taglio a “spazzola” o “all’Umberto”, seguito a ruota dal taglio a zero (“cozza munnata fatta ‘ccu ru rasuaiu”). Si facevano molte barbe e gli shampoo erano praticamente sconosciuti (non tutti i saloni avevano all’epoca l’acqua corrente dentro).

Per aprire un salone, come ci dice lo stesso Franco Napolitano, bastava decisamente poco: una sedia, uno specchio, un rasoio, un pettine ed un paio di forbici. A questi attrezzi vi si aggiungevano in seguito la pietra per la molatura dei rasoi e la “strappa” (particolare cinghia di cuoio appesa al muro che serviva per l’affilettatura dei rasoi stessi). Molto più tardi farà la sua comparsa anche la famosa “macchinetta manuale a molla”.

Il mestiere dei barbieri a San Fili oggi si è praticamente perso: se si esclude il salone di Franco Napolitano, infatti, a San Fili troviamo un altro solo salone (di fronte alla Caserma dei Carabinieri) che comunque, pur essendo gestito da un bravo giovane, comunque non è gestito da un sanfilese. In compenso hanno fatto la comparsa per corso XX settembre anche i primi saloni per signora.

Ed hanno fatto la loro comparsa anche le prime macchinette per tagliare i capelli elettriche che seppure evitano perdite di tempo (quand’ero bambino ricordo che a volte quasi mi ci prendeva il sonno sullo sgabello nel salone de mastru Maruzzu Storino) ed errori del tipo “tagli a scalinata”, comunque fanno perdere buona parte della poesia intrinseca nell’operazione del taglio dei capelli col solo mezzo di un paio di forbici e di un pettine.

Una volta il salone dei barbieri a San Fili era anche e soprattutto, per i nostri giovani, una scuola d’arte (dove chi voleva poteva imparare un mestiere) e di educazione… (omissis).

*     *     *

I barbieri… di San Fili (2).

Fino agli anni sessanta inoltrati l’artigianato (con le sue varie botteghe, saloni ecc.) a San Fili era decisamente fiorente.

Le botteghe ed i saloni degli artigiani, non a caso qualificati a pieno titolo “maestri”, erano tra l’altro un’ottima scuola per le giovani leve non solo di un prezioso mestiere (per la serie “impara l’arte e mettila da parte”) ma anche e soprattutto una scuola di vita.

Alla base di una società priva di tante cose, difatti, non poteva che essere al primo posto l’educazione, l’onestà ed il rispetto che una persona doveva avere verso un’altra persona e verso sè stesso.

I saloni dei tanti barbieri presenti a San Fili in quegli anni adempievano perfettamente a tale scopo. Il mestiere di “barbiere” s’imparava direttamente sul campo di battaglia e il “maestro barbiere” finiva di fatto per completare l’istruzione che la mattina avevano iniziato gli insegnanti sui banchi di scuola.

Si trattava, di fatto, di un vero e proprio “doposcuola”: erano gli stessi genitori che portavano i propri figli al salone e pregavano il barbiere di “tenerselo a scuola” sia per togliere i propri figli dal pericoloso mondo della strada (sicuramente meno pericoloso di oggi) e sia con la lontana speranza che il figlio si appassionasse a quel mestiere e non finisse, come il padre, a lavorare la terra sotto padroni o a cercare di sbarcare il lunario in mille ed uno altri modi.

e si fani u cretinu, nu paru de scaffi dunaticceli puru ‘ccu ru permessu miu!”, era l’ultima frase che il genitore diceva al barbiere nel momento in cui si apprestava ad uscire dal salone.

Nel salone s’aggiravano non meno di cinque o sei “discepoli” del “maestro barbiere”, tutti pronti a scattare quando un cliente entrava nel salone, ossequiosi e riverenti, tutti pronti a scattare quando il cliente usciva dal salone, sempre ossequiosi e riverenti.

Prima si doveva fare un lungo tirocinio guardando, con quattro o sei occhi, come si faceva una barba, osservando minuziosamente come il rasoio saliva e scendeva sul volto del cliente, come sfiorava (per non dire “baciava”) la delicata pelle del cliente, come evitava ogni minimo ostacolo… una sola goccia di sangue o una piccola scalfitura sul volto del cliente erano decisamente imperdonabili per quei tempi.

Poi si passava all’insaponatura del volto e solo dopo tantissimo tempo si dava finalmente in mano al ragazzo il famoso “rasoio a mano libera”.

I maestri barbiere (più o meno ostentatamente) erano alquanto severi nei confronti dei propri discepoli, e dagli stessi pretendevano il massimo della correttezza e dell’educazione: il salone dei barbieri di San Fili erano una vera e propria scuola di comportamento.

Il ragazzo entrando nel salone aveva l’obbligo di salutare e di non mostrare atteggiamenti lesivi alla propria immagine di persona retta e corretta: chi dimenticava di salutare era pregato di uscire fuori dal salone, rientrare e salutare così come avrebbe dovuto fare fin dall’inizio… e guai a chi non salutava correttamente il cliente!

Qualsiasi rifiuto a tali regole poteva significare ritornarsene a casa e non rientrare più in quel salone.

*     *     *

I barbieri… di San Fili (3).

I saloni dei barbieri di San Fili, fino agli anni sessanta inoltrati, erano, di fatto un’eccellente scuola di comportamento: anche e soprattutto per questo i genitori erano felici se qualche “maestro barbiere” prendesse i propri figlioli “a scuola” nel proprio salone.

Mille ed una erano le raccomandazioni che facevano i “maestri barbieri” ai propri allievi quando mandavano gli stessi in qualche abitazione del paese a fare qualche servizio: siate ossequiosi, non fatemi fare brutta figura, non toccate niente, mi raccomando il saluto e via dicendo.

Un ottimo insegnante sembra sia stato, a detta di chi l’ha conosciuto, “mastru Sarvature Ruffolo”.

Di “mastru Sarvature Ruffolo” si racconta che lo stesso per mettere alla prova l’onesta dei propri allievi, usasse mettere agli angoli del salone qualche monetina (stiamo parlando di tempi in cui le monete era difficile persino vederle in televisione… anche perché la televisione in Italia, e quindi a San Fili, faceva la propria comparsa proprio in quei tempi).

Trovandosi in un momento in cui nel salone non c’erano clienti, invitava qualcuno dei suoi allievi a dare “na bella scupata ‘nterra” e quindi faceva finta di addormentarsi su qualche sedia del salone.

Cosa avrebbe fatto il ragazzo nel momento in cui trovava le monete per terra? … l’avrebbe presa e consegnata al maestro o se la sarebbe messa in tasca?

Teniamo a sottolineare che a quei tempi gli allievi non venivano certamente pagati, se non con l’arte che veniva loro insegnata!

Erano quelli, appunto, altri tempi: tempi in cui di monete in circolazione se ne vedevano ben poche e ciò, spesso e volentieri, non solo per gli allievi ma anche e soprattutto per gli stessi maestri.

I barbieri, infatti (malgrado siamo in un periodo che la popolazione sanfilese sfiorasse le cinquemila unità), non raramente vedevano pagata la loro opera non con soldi ma in natura… e siccome la fame imperava, un paio d’uova, un chilo di farina ed un po’ di patate comunque non erano da biasimare.

Si racconta che qualche signora andasse a prendere qualche chilo di pasta a credito (erano i tempi della “libretta”) per pagare il barbiere per i capelli fatti ai propri figlioli. In periodi di carestia, può sembrare strano, ma a stare meno male, di fatto, non è chi sta nei centri abitati a lavorare da artigiano o a giornata, bensì chi sta in campagna… considerato che almeno qualcosa sotto i denti la mette.

Non mancavano in quegli anni di stenti anche le magre che per risparmiare qualche lira tagliavano direttamente loro i capelli ai propri figlioli.

Alcuni barbieri di San Fili, in quei magri anni, non raramente per racimolare qualcosa in più andavano a fare il giro delle campagne e tanti altri si avventuravano persino nella vicina Falconara a fare qualche taglio di capelli.

Devo dire inoltre che personalmente ho conosciuto i figli di “mastru Sarvature Ruffolo” Aldo, Carmine e la figlia Maria. Tutti e tre noti per la loro squisitezza di modi, educazione, intelligenza, amore per il paese che ha dato loro i natali e lo spirito altruistico a tutta la comunità sanfilese… buon sangue non mente! … della signora Maria sono stato alunno per i cinque anni delle elementari: devo a lei il 50 per cento della mia preparazione, anche se ancora avverto il dolore sulle mani di qualche staffilata ricevuta in più.

Ieri come oggi, comunque, il salone del barbiere a San Fili non è solo un luogo dove semplicemente ci si taglia la barba o i capelli, ma è innanzitutto un luogo di ritrovo tra amici che vogliono scambiare qualche parola di sport, politica e anche cultura.

Personalmente non posso negare che non mi dispiace a volte avvicinarmi al salone di mastru Francu Napolitano ad ascoltare quanto si dice tra i suoi affezionati frequentatori… e in quel punto che ancora oggi posso godere di un po’ della veracità dei miei amati odiati compaesani.

… e poi in quel salone non raramente si può apprezzare l’ottima chitarra di mastro Franco, di Eliuzzu Satinu, il magico mandolino di Giorgino Curatolo e la stupenda voce del nostro sempreverde Mario Oliva.

*     *     *

I barbieri… di San Fili (4).

Indubbiamente San Fili e i sanfilesi, come il resto del mondo, fino agli anni sessanta inoltrati, economicamente non se la passavano certamente bene ed anche chi aveva un mestiere, una professione o un’arte in mano non era esente da tale problema.

Alcuni barbieri di San Fili sia per arrotondare le loro entrate, facendo concorrenza ai dottori del paese (e, sembra, facendo pagare qualcosa in meno di questi... dicono le solite malelingue) avevano attrezzato il proprio salone anche per la professione di cavadenti. Era questo, ad esempio, il caso del grande mastru Sarvature Ruffolo, preferito dai sanfilesi, si dice, allo studio del dottore Adolfo Mauro per quanto riguarda il costo dell'estrazione, ma tra l'altro consigliato ai propri pazienti dallo stesso dottore Giuseppe Crispini (il quale sembra non praticasse con piacere tale operazione nel proprio studio).

E si racconta pure che lo stesso Marsico, successivamente dentista di una certa notorietà, subì... le pinze del bravo mastru Sarvature Ruffolo.

Una vera e propria operazione, questa, consistente nello scarnare il dente e quindi estrarlo con una apposita pinza. A questo punto provate un po’ a considerare il tutto nell’ottica che all’epoca non si sapeva neanche cosa fosse l’anestetico, oggi che ci facciamo fare l’anestesia locale anche per toglierci una spina di rose piantata in un dito.

Mastru Sarvature Ruffolo (nato il 1899 e morto il 1976) a soli quattordici anni era partito a Napoli a frequentare un corso di sei mesi per imparare quella professione che tanto tempo dopo necessiterà, oltre alla professionalità, un diploma di laurea: il dentista. A Napoli però resterà ben poco (circa due mesi) in quanto sarà richiamato dal padre al paese.

Il padre, infatti, aveva paura di quel che si diceva circa quanto a tempi brevi stesse per accadere in Europa: siamo di fatto, alle soglie della prima guerra mondiale.

Al paese il padre, quasi a ripagarlo del forzato rientro, gli aprirà un salone di barbiere (in una stanza a piano strada del palazzo ancora oggi conosciuto da tanti come il "Palazzo di Donna Vienna Gentile").

Mastru Sarvature Ruffolo, comunque, c’è da dire che seppure è stato l’ultimo “barbiere cavadenti” di San Fili, certamente non è stato il primo e come tale non era l’eccezione bensì la regola. Nel libro del prof. Francesco Cesario “San Fili nel tempo” al paragrafo “calzolai e barbieri” infatti leggiamo:

I barbieri erano abili, oltre che nel loro mestiere, anche nel cavare i denti ed applicare le sanguisughe (sanguette) per abbassare la pressione sanguigna. Mastro Paolo Caruso, dalla solenne barba bianca e mastro Achille Salerno, anch’egli grigio barbuto, ostentavano la loro valentia esponendo ogni mattina all’ingresso della bottega, accanto al piatto ovale di ottone - emblema dei barbieri - un capace vaso di vetro contenente le centinaia di denti cavati”

Siamo agli inizi del 1900, e questo era un modo come un altro per attirare clienti.

*     *     *

Finora, caro lettore, in quella che sembrava una semplice passeggiata nei mestieri dei nostri avi e nell’arte dei barbieri di San Fili, in parte volutamente (non bisogna dimenticare che la mia fonte principale, per quanto riguarda le notizie, è la memoria dei nostri anziani), in parte perché preso il lavoro un pochino alla leggera, è stata fatta qualche briciola di confusione in merito ai periodi in cui doveva essere inquadrato un determinato nome di barbiere del paese o la stessa professione da questi praticata: dopotutto fare lo storico non la professione di chi scrive su queste pagine, visto che scrive per semplice hobby e… paga, con la moneta del piacere di scrivere, per essere letto.

In effetti sarebbe stato giusto parlare de “i barbieri di San Fili” inquadrandoli nel periodo ante guerra 1915-1918, nel periodo dell’era fascista (1920-1945), nel periodo post seconda guerra mondiale, nel periodo del boom economico italiano (anni sessanta), fino ad arrivare al periodo compreso tra il 1970 ed oggi. In tali periodi, infatti, il mestiere del barbiere a San Fili non solo ha subito forti modifiche per quanto riguarda il mestiere stesso, ma ha subito forti modifiche anche dal punto di vista del ceto economico sociale da cui vengono reclutate le nuove leve (ossia i discepoli dei mastri barbieri).

Essendo questo però un concetto di una certa importanza (anche per le altre arti e mestieri praticati nei vari periodi nel nostro paese) è giusto che rinviamo il discorso a qualche altra puntata.

*     *     *

I barbieri… di San Fili (5).

Figure caratteristiche, in ogni tempo, quelle dei barbieri sanfilesi, così come caratteristico, diciamolo pure, dopotutto è ogni sanfilese (importato e non). Ognuno con le sue convinzioni, ognuno con le sue fisime e peculiarità. Si racconta di un barbiere di tanti e tanti anni fa, un certo “mastr’Achille” (presumibilmente il “cavadenti” ricordato dal prof. Francesco Cesario nel suo libro “San Fili nel tempo”), che s’irritava facilmente se a qualche cliente capitasse d’addormentarsi mentre lui gli faceva la barba o i capelli.

Si racconta ancora oggi d’un cliente di mastr’Achille che si svegliò. col viso ancora mezzo insaponato alle storiche imprecazioni del barbiere il quale brandendo minaccioso l’affilato rasoio urlava verso il malcapitato: “… e su’nna finisci mo’ de runcigliare, ti fazzu dorme io na vota ‘ppe sempre!”.

Erano anni, quelli del dopoguerra, tutti particolari, quando anche nei saloni di barbiere di San Fili s’iniziavano a vedere le prime poltrone meccaniche di metallo della famosa fabbrica siciliana “la Scuderi”. Prima di queste poltrone, le stesse, pur avendo all’incirca le identiche funzioni, erano realizzate (per quanto riguarda lo scheletro) in legno.

Oggi le une e le altre, nei saloni che si vanno ad allestire le giovani leve, vengono sostituite da normali poltroncine (o semplici sgabelli) e a differenza di quei tempi, quando sedendosi su una di queste poltrone non ci si alzava più se prima non si era fatto barba, shampoo e capelli, ai giorni nostri dal “coiffeur” (anche la parola “barbiere” è stata pensionata) esiste la zona lavaggio capelli, la zona taglio ed asciugatura e via dicendo.

In poche parole oggi il cliente, entrando nel salone, viene sbattuto da un angolo all’altro dello stesso e spesso stenta a capire quello che i vari addetti ai lavori gli dicono.

E quanto era bello quel tempo in cui ci si sedeva sulla sedia ed il barbiere iniziava a tagliarti i capelli senza chiederti “come li facciamo?”: all’epoca esisteva quasi esclusivamente il taglio “spazzola” ovvero “all’Umberto”. Oggi quanto ti pongono questa domanda, finisci per vergognarti persino di dire il nome del taglio in modo sbagliato, quando non dai delle indicazioni di difficile comprendonio e finisci quasi sempre o per dire la solita stupidità (… corti e tutti dietro?) o per dire al mastro barbiere (che spesso e volentieri tale non è - parlo delle nuove leve e non certamente delle nostre impareggiabili storiche forbici sanfilesi)… “fate un po’ voi… purché… !”.

Erano altri tempi quelli, erano i tempi in cui esistevano nei saloni dei mastri barbieri di San Fili persino i “clienti abbonati”, ossia quei clienti “affezionati” che si mettevano d’accordo col barbiere (in cambio d’uno sconticino sul servizio) per farsi tagliare la barba due o tre volte regolarmente a settimana, i capelli una volta al mese e così via.

Luoghi soprattutto, ed in ogni tempo, di ritrovo, i saloni dei barbieri di San Fili: ognuno con le sue caratteristiche, la sua “selezionata clientela” e le sue peculiarità. In alcuni casi vere e proprie sezioni politiche (scherzosamente parlando) tanto che persino oggi il salone di mastru Franco Napolitano viene additato come uno dei luoghi principali di ritrovo dei “rossi”; quello del compianto e simpatico Martino Lombardo, per la sua indiscutibile fede politica, era familiare ai “neri” (si dice che nel salone conservasse, opportunamente celata agli occhi dei più, una foto del Duce) e, andando più a ritroso, il salone di Oscarino Cosenza (maestro del Martino, che ne sarà di fatto l’erede) per quanto riguarda i repubblicani.

Nel salone di Salvatore Ruffolo (siamo intorno al 1935) un’orchestrina composta da amici ogni sera teneva il suo piccolo concerto.

Quasi tutti i saloni dei barbieri di San Fili, e negli anni non sono stati certamente pochi, avevano sede nel tratto di corso XX Settembre compreso tra il bar di Cenzino Passarelli e quello di Gigetto Sammarco. Era in questo tratto, dopotutto, che in quest’ultimo secolo si svolse la stessa vita della comunità sanfilese.

*     *     *

I barbieri… di San Fili. (6)

Il problema del barbiere, ovvero del parrucchiere, inutile dirlo che a quei tempi per le donne a San Fili non esisteva. Tutte le donne si crescevano i capelli e tutte le donne li raccoglievano “a tuppu” sulla testa. Si faceva semplicemente, di tanto in tanto, una leggera spuntatina ai capelli direttamente in casa. I capelli all’epoca erano anche e soprattutto un buon investimento per le donne del nostro paese (inutile dire che la mia è una storia popolare e come tale si rivolge alla generalità delle persone e non ai singoli casi quali possono essere nobildonne e similari).

I capelli che venivano raccolti con la pettinatura, infatti, venivano conservati in attesa che per le vie ed i vicoli del nostro paesino non si sentisse la voce dello storico e ormai dimenticato “capiddraru”.

U capiddraru” era un “ambulante” che in cambio di una matassa di capelli, a seconda della grandezza della stessa, dava, alle nostre madri o alle nostre nonne, aghi, spingole e, se la matassa era abbastanza grande, persino qualche pettine.

I capelli raccolti de “u capiddraru” venivano commercializzati nella città e con gli stessi, sembra, vi venivano ricavate delle parrucche.

Si era agli inizi degli anni settanta e chi scrive si sentiva dire spesso (il tempo tra una ritoccatina e l’altra dei capelli passava decisamente in fretta) dalla madre: “se vai a tagliarti i capelli, ci sono cento lire anche per te!”.

Dire all’epoca quanto costasse un taglio di capelli (oggi che si va dalle diecimila alle quindicimila per i tagli più economici) non è per niente facile: cento lire comunque erano una bella sommetta per un ragazzino di dieci anni. Per entrare al locale cinema si pagava 150 lire ed una partita a calcio balilla (ai bar di Cenzino Passarelli e Teresa Scarpelli o nel circolo juventino dei veraci Romano e Franco Zuccarelli) costava dalle venti alle venticinque lire.

Diversa era la frase che veniva detta “aru mastru varviere”: “Mastru Maru’, no’ caerusati… ma na bella accurciata facimuccela”!

Il taglio era, per noi ragazzini, regolarmente all’Umberto (sfumati dietro e a spazzola davanti): erano poche le famiglie che facevano tagliare a zero i capelli ai propri figlioli o che glieli facessero tenere a caschetto. In questi tre modi di tagliare i capelli potevamo benissimo distinguere i tre ceti economici (spesso anche culturali) presenti nel paese: i ricchi (a caschetto), i meno poveri (all’Umberto) e i poveri (a zero). A zero venivano tagliati, spesso per necessità igieniche, anche i capelli di ragazzini che abitavano nelle campagne.

Negli anni settanta, ma ciò solo per chi aveva una certa età, s’iniziò a parlare a San Fili anche del taglio alla “Napoleone” (lunghi dietro e corti davanti) e dei famigerati (per l’epoca) capelloni.

Per quel che ricordo, il primo a tagliarmi i capelli fu Mario Storino (che aveva il salone di fronte il bar Sammarco), successivamente passai sotto le forbici di Veruzzu (Saverio Marino) che operava nel salone che fu di Salvatore Ruffolo, ed infine di Pasquale Carpanzano, successore di Martino Lombardo.

In questa ricerca popolare sui barbieri sanfilesi che nel ventesimo secolo hanno avuto il loro salone a San Fili, qualche nome sarà scappato (uno fra tutti quello del bravo Piero Tenuta), ma non per colpa, completa, di chi scrive… non rientravano in un’epoca di ricordi… una stupenda epoca che non ritornerà, purtroppo, mai più sui suoi passi!

Uno sistema fiscale sempre più a servizio di chi economicamente sta meglio degli altri (anche nel commercio), la diffusione capillare dell’automobile (che ha convinto, per vari motivi, molti compaesani ad andare a farsi tagliare i capelli da barbieri dei comuni confinanti), la diminuzione demografica della popolazione sanfilese, la messa in commercio delle macchinette elettriche (di facile uso ed alla portata di tutti), gli enormi costi di gestione di un salone (fitto, luce, ragioniere per la contabilità, acqua ecc.) ed in parte, diciamolo pure, l’ignoranza (ma anche il poco coraggio) sulle opportunità che lo stato offre agli artigiani che riescano a garantire determinati requisiti (che non è solo il riuscire a prendere la luna nel pozzo, ma spesso e volentieri semplicemente il “rispettare le regole”)… hanno fatto in modo che il mestiere di barbiere, tra i sanfilesi, venisse quasi definitivamente perduto.

*     *     *

I barbieri… di San Fili (7).

Oggi, per come li abbiamo conosciuti quelli della mia generazione, i barbieri (di San Fili e non) non sono più quelli di una volta. Con tale affermazione, ben me ne guardo e spero di non essere (come al solito) frainteso, non voglio dire che non siano più bravi come quelli dei tempi che furono: inutile, infatti, citare il detto che “il discepolo supera sempre il maestro”, ma non posso certamente negare che più di una cosa, in questo mestiere, nel corso degli anni sia drasticamente cambiato (e continui a cambiare tutt’oggi).

E’ cambiata la clientela: certamente più “popolana” (segno che i tempi nostri, per un certo verso, sono migliori dei tempi che furono) di quella che frequentava i saloni dei barbieri sanfilesi degli inizi del 1900. A quei tempi, infatti, il popolino più che con la barba o con i propri capelli era costretto a combattere col quotidiano problema del pane da mettere sotto i denti.

In tal modo, quasi a far da specchio a Figaro’, il famoso “Barbiere di Siviglia”, a frequentare il “laboratorio d’arte” dei vari mastru Sarvature Ruffolo ed Oscarino Cosenza, troviamo una clientela più che altro benestante, titolata o quantomeno legittimata nel nobiliare “don, donnu” e via discorrendo. La stessa apertura di un salone, a dir poco costosa, era limitata a membri di famiglie, per l’epoca, più o meno benestanti e come tale era considerato un mestiere per gente di un certo ceto socio economico.

Stiamo parlando di un periodo storico in cui a San Fili, come nel resto d’Italia, non era certo considerata una vergogna ritrovare persino il barone Amedeo Miceli a servire i sanfilesi nella farmacia gestita dallo stesso… e pertanto (malgrado all’epoca per fare il farmacista bastava un patentino e non una laurea) la professione del farmacista veniva negata alla gente che, spesso e volentieri più intelligente di alcuni sapientoni dell’epoca, trovava i propri natali in famiglie appartenenti  a ceti “inferiori”.

Il popolino (prettamente rurale) in tale ottica, dal canto suo, finiva per frequentare il salone dei barbieri di San Fili più per farsi cavare qualche dente che per farsi curare l’estetica. Per quanto riguarda l’insegnamento del mestiere alle nuove leve, i genitori di questi ultimi dovevano persino pagare il “maestro” che prendeva a lezione i propri figlioli (i garzoni del salone).

Passa qualche anno (siamo intorno al 1910) e per San Fili e i sanfilesi qualcosa inizia a cambiare: viene ad alimentare nuova gente il nostro già rigonfio alveare (non era difficile trovare ad abitare all’epoca in una sola stanza sette o otto persone) grazie ai lavori della costruenda tratta ferroviaria Cosenza Paola; rientrano i primi emigranti… in poche parole inizia a circolare più danaro liquido e s’inizia a mettere quasi definitivamente da parte il libero scambio del baratto.

I mestieri, in tale concetto, iniziano ad aprirsi a quei ceti economico sociali finora lasciati ai margini dell’intera società (nelle campagne si lavorava a terzadria, ossia due parti al padrone ed una al lavorante, a volte anche a meno di questa) e contemporaneamente tante arti e mestieri a San Fili finivano per scomparire nell’arco di pochi anni (vedasi il caso, ad esempio, dei locali, famosi ed impareggiabili, costruttori di campane: gli Apuzzo).

E qualcosa cambia ulteriormente con l’avvento dell’era fascista (siamo intorno al 1920) non perché l’avvento dell’era fascista sarà tutta rose e fiori (anche se oggi in tanti la stanno rivalutando), ma, dando a Cesare quel che è di Cesare, qualcosa di buono comunque l’aveva fatto: aveva istituito il famoso “sabato fascista” e imposto, non solo sulla carta, l’obbligo scolastico (anche se non sempre gli alunni superavano la terza elementare… che comunque valeva quanto un secondo superiore di oggi)!

Aveva, cioè, costretto persino i “cafoni” e i “villici” (così erano chiamati all’epoca i contadini) a partecipare a forme di aggregazione sociali (seppure con finalità legate all’ideologia imposta dal regime). In tale modo, volenti o nolenti, lo scambio di opinioni avrebbe finito per porre un’ulteriore pietra sul pensionamento del feudalesimo locale. E ridicolo pensare che alle soglie del duemila, in piena democrazia, a San Fili, in questi ultimi anni si stia facendo esattamente il contrario: lavorare scrupolosamente affinché la gente non si aggreghi e quindi non parli “dei veri problemi”: alcuni baroni, i nuovi baroni, (e non mi riferisco ai Miceli o ai Vercillo, veri signori e non dei semplici “poveri arricchitisi”) si stanno finemente organizzando!

*     *     *

I barbieri… di San Fili (8).

Già tra gli anni quaranta e cinquanta (periodo in cui entrare in un salone per barbiere faceva quasi soggezione, al popolino, per la bellezza in cui ci si addentrava, il mestiere del barbiere (… l’artigianato locale in generale) s’iniziava a vedere non più come un qualcosa di superiore (… il servizio, spesso anche di confidente, del nobile e dei signori locali) ma come un vero e proprio lavoro e quindi un servizio non sempre piacevole.

Il tempo del “lavoro in quanto missione” era terminato, il piacere del barone che ti pregava di fare un salto al suo palazzo per fargli la barba non apparteneva più ai nostri tempi, la stessa professione “accessoria” di cavadenti doveva essere espletata rispettando alcune regole igienico sanitarie e quindi non era più concepibile praticarla all’interno di un salone per barbieri.

Il dio denaro (espresso spesso e volentieri in dollari americani), ancor prima della seconda guerra mondiale, stava prendendo il sopravvento e nessuno poteva negare anche ad alcuni figli di “cafoni” e “villici” il piacere di farsi tagliare i capelli dalle mani d’oro dei barbieri di San Fili… e ciò fece anche in modo che non solo gli appartenenti ad un ceto socio economico medio alto intraprendessero tale mestiere ma anche semplice gente del popolo.

Aumentavano i clienti, aumentava il liquido, aumentavano le esigenze dei singoli soggetti appartenenti ad una comunità e, conseguentemente, non poteva che aumentare anche la domanda di persone che facessero tale mestiere.

In quegli anni, iniziando a diminuire le braccia nelle campagne, nascevano come funghi, per corso XX Settembre, botteghe di falegnami, saloni di barbieri, negozi di alimentari, macellerie e chi più ne ha più ne metta.

L’enorme e più che giusta offerta di servizio, nel giro di pochi anni avrebbe finito per superare la domanda di un tale servizio: negli anni sessanta, infatti, in pieno boom economico italiano i barbieri operanti sul territorio di San Fili, iniziano a sentire la crisi del settore. Il nostro paese dai circa cinquemila abitanti registrati negli anni quaranta e cinquanta, scendeva drasticamente verso le tremila unità. Se prima era quasi impossibile emigrare in quanto era difficile comprarsi il biglietto della nave, oggi i pochi fortunati dei primi tempi richiamavano all’estero i propri congiunti e parenti pagando agli stessi il biglietto del viaggio.

Parlando con mastru Franco Napolitano, quando intrapresi l’avventura di questa ricerca popolare sui barbieri di San Fili, questi mi disse tra l’altro che loro (e non solo loro a San Fili), in quei magri anni sessanta, toccarono il settimo cielo quando iniziarono i lavori  della realizzazione della superstrada Cosenza Paola: per la seconda volta nel giro di poco più di cinquant’anni, l’economia sanfilese veniva salvata dalle realizzazione di una linea provinciale di comunicazione (la prima, all’inizio del secolo, fu la tratta ferroviaria),

Bastava una semplice barba o un semplice taglio di capelli ad uno degli operai impiegati in tale opera, per racimolare, in un colpo solo, l’intera entrata di una giornata lavorativa.

In quegli anni, pensando che la storia dovesse durare in eterno, i saloni dei barbieri di San Fili pullulavano di garzoni.

I dipendenti delle ditte di costruzione (una mi sembra si chiamasse “Salci”) per qualche anno si sistemarono nel nostro paese (qualcuno sposò persino qualche nostra compaesana) pagando profumatamente non solo i servizi offerti loro dai locali barbieri, ma anche alloggi e servizi vari. Tutti, nobili e meno nobili, entrarono nel calderone di questo grandissimo giro economico.

Come tutti i giochi belli però, anche questo durò poco. Alla fine degli anni sessanta (il 1968 o il 1969 circa) il più dei lavori della superstrada Cosenza Paola sono terminati e per risollevare il morale delle tasche degli artigiani locali bisognerà aspettare l’apertura dell’Università della Calabria (dove ben tre barbieri sanfilesi troveranno occupazione… ma non certamente nella professione della loro arte), del Consorzio di Bonifica (l’università dei forestali della provincia) e della stessa “Legnochimica”.

Cambia la società (col proliferare dell’automobile in tanti abbiamo optato per le forbici, e non solo per le forbici, di altri lidi), aumentano le tasse, i costi d’esercizio e… spariscono i barbieri di San Fili: un’epoca, con l’avvento degli anni ottanta, ha definitivamente calato il sipario ai nostri occhi.

Con questa puntata si conclude la pubblicazione della ricerca popolare sui barbieri di San Fili e non posso fare a meno di ringraziare non solo a quanti hanno collaborato con il sottoscritto per la stesura della stessa, ma anche e soprattutto a te, amico lettore, che hai avuto la costanza (e la pazienza) di continuare a leggermi.