Un’immagine proiettata su un pezzo di muro alle spalle
(non ricordo più se alla sinistra) della dottoressa Vincenzina Scalzo nel corso
di quel convegno e nel corso del suo stupendo intervento, dicevo, mi riportò
magicamente alla mia infanzia ed ad un altrettanto stupendo “dejà vu”: quella
pallina l’ho già vista... e forse ne conosco anche il sapore. Quello che non
sapevo è che tale pallina fosse un simbolo di nuova (non so quanto disastrosa)
vita e di tant’altro.
* * *
Siamo agli inizi degli anni
Settanta del XX secolo... e, almeno nei miei scritti e tra i miei ricordi, Dio
volendo ci resteremo ancora tantissimo. Siamo sicuramente nel mese di ottobre o
al massimo di novembre: la raccolta delle castagne nei dintorni del nostro
amato/odiato paesino era al suo culmine.
Da “u chijan’e Miliddru” era facile raggiungere l’agognata meta: facile
ed accattivante per la galoppante, non sempre salubre, fantasia d’un fanciullo
della mia età. Nel mio mondo, all’epoca, c’era un po’ di tutto... sui Cozzi:
streghe, serpenti enormi (... u tiliu?),
lupi mannari, vampiri e chi più ne ha più ne metta.
Potevano sbucarti intorno
dappertutto ed in qualsiasi momento.
Potevano ucciderti o
semplicemente rapirti senza fartene neanche accorgere.
Raggiungevo “‘e castagne de ‘Ntonett’e Castellanu”,
ovviamente da “u chijan’e Miliddru” seguendo
uno stretto sentiero al limitare inferiore dello stesso... in un quasi
spettrale gioco di luci ed ombre prodotto dall’entrare e dall’uscire quasi
repentino d’alcuni gruppi di “cippate
di castagno da taglio”.
Era quella la “partita” del
prezioso frutto che i miei genitori stavano già raccogliendo fin dalle prime
ore di quella mattina.
Inutile dire che raccolto il
mio bel panaro (N.d’a.: a proposito, sapete che in italiano non esiste questo
termine? ... che sacrilegio!) di castagne, scelta una per una, svuotavo lo
stesso dentro un sacco di juta e, col panaro
vuoto, chiesta ed ottenuta l’autorizzazione di mia madre, mi recavo in una zona
sovrastante la partita di castagne che stavano raccogliendo... in cerca di
funghi: gaddrinazzi, siddri e lattarachi.
Quella zona di queste
squisitezze ne era particolarmente prodiga. Non chiedetemi se lo sia tutt’ora o,
cosa ancor più scioccante, se esista tutt’ora… quella zona.
Cadde quasi certamente in uno
di quei fantastici giorni... il giorno in cui m’imbattei in quelle che ho
definito, nel titolo di quest’articolo ed anche nel motivo (tema portante) per
cui l’ho scritto, nelle vespe italiani
ovvero nella preesistente riposta italiana alle cosiddette vespe cinesi (alias “cinipide
galligeno del castagno”), ovvero a quei dannosi insetti maldestramente
importati dai classici speculatori da quattro soldi che abbiamo nel nostro Bel
Paese e che tanto danno hanno sempre cagionato e continuano imperterriti a
cagionare ai nostri bei castagneti.
E la vespa italiana alternativa alla vespa
cinese? ... sottolineiamo che si tratta non dell’insetto che comunemente
chiamiamo “vespa” in questo caso ma... del “cinipide
galligeno della quercia”.
Quest’ultimo, gridiamolo ai
quattro venti, chi tra di noi ha vissuto e sempre più raramente la “stupenda
natura del nostro altrettanto stupendo policromatico - stagione permettendo -
territorio comunale” pur non sapendolo... lo amava già.
In poche parole l’insetto
“indigeno” (il succitato “cinipide
galligeno della quercia”) delle nostre zone pur essendo similare per la
tecnica all’insetto cinese il proprio attacco alle gemme degli alberi non lo fa
alle piante del castagno ma alle piante della quercia. Il tutto, però, in modo
non dannoso - quasi non invasivo - in quanto, col passare dei secoli, di fatti
ha trovato un suo giusto equilibrio con l’ambiente circostante.
Feci conoscenza del “cinipide galligeno della quercia” in una
di quelle lontane giornate autunnali d’inizio anni Settanta... ma l’avrei
saputo circa una quarantina d’anni dopo d’aver fatto quella straordinaria conoscenza.
Quel giorno guardando ad un
ramo di una quercia relativamente giovane (dopotutto la manica di un decenne
qual io ero riusciva benissimo a toccarlo) notai, attaccata in un punto dello
stesso, una strana pallina di legno. Un qualcosa tra l’altro che ero sicuro di
non aver mai visto prima.
Poco più in la, sempre sullo
stesso alberello, un altro ramo con un’altra pallina simile alla prima e via
dicendo. Nel men che non si dica in una tasca dei miei pantaloni si ritrovarono
non meno si cinque o sei di quelle strane palline.
Inutile dire che una delle
stesse, ancor prima di far vedere il mio nuovo tesoro ai miei genitori, era già
finita sotto i miei denti: poteva anche essere un ottimo frutto e nel dubbio...
meglio assaggiare.
Non era un frutto... era solo
legno: uno stupendo scherzo della natura ma solo e semplice legno.
Quelle palline, che ci
crediate o no, erano uno dei frutti (... cancri delle gemme?) nati e
sviluppatisi grazie all’intervento parassitario del “cinipide galligeno della quercia”.
Le vespe italiane, non quelle
cinesi, noi a San Fili... le amavamo già!
(continua).
* * *
Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro
affezionato Pietro Perri.
... /pace!
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