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sabato 1 marzo 2014

Dal mulino delle fate aru tesoru du Canalicchiu (6/9): una stupenda passeggiata naturale tutta sanfilese.



Nella foto a sinistra (foto by Pietro Perri)… tramonto sanfilese. Sul versante destro dell’abitato di San Fili (lato “coste”), ovvero dove lo stesso si affaccia sul dirupo ai cui piedi scorre il torrente Emoli, troviamo un altro punto caro alla tradizione mistica locale: “u fuoss’e Stella”. Un punto decisamente meno famoso de “u zumpu d’a Fantastica” (sul lato sinistro del borgo) ma per alcuni anziani collegato anch’esso alla famosa leggenda che caratterizza San Fili.

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Per chi avesse perso le prime 5 (o qualcuna delle prime cinque) puntate di questo racconto… ricordo che siamo in un sabato degli inizi di Marzo 2013, che da poco si sono registrate due frane sul lato coste del nostro paesino (il lato che si affaccia sul torrente Emoli) ed io sto facendo una bella passeggiata lungo… u jum’e Santu Fili… nel tratto compreso tra la sorgente di Palazia e il ponte Crispini.

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Quando si è all’altezza del ponte di Crispini (o di crispino?) a San Fili, dopo aver ammirato una tra le tre stupende opere muraria che collegano - nel territorio comunale - le due sponde del torrente Emoli, non possiamo fare a meno di chiederci: è adesso che facciamo?

Mi spiego: siccome (nell’occasione di cui ho fatto ed in parte continuo a fare la cronistoria) già veniamo dalla fontana di Palazia dopo essere scesi da piazza san Giovanni e dopo aver percorso il tratto che da tale fontana ci ha portato in questo stupendo piccolo spiazzo e siccome già siamo risaliti all’altezza della superstrada (dove s’imbocca il bivio per Nogiano) e da qui siamo ridiscesi nel punto in cui ci troviamo adesso… che via vogliamo inforcare adesso per ritornare nel centro abitato di San Fili?

Corso XX Settembre ci attende ormai da un paio d’ore - qualche minuto per scambiare qualche parola con uno o due amici non guasta mai - e visto l’ora che segna il nostro orologio… anche la tavola imbandita di casa ci attende impaziente.

Eppure… la tentazione è forte. Potrei scendere ulteriormente lungo il percorso del torrente - camminando sulla sponda destra dello stesso - e raggiungere i piedi del ponte di “santa Venere” (o “santa Vennera”) e da lì salire verso il fabbricato diroccato conosciuto dai nostri anziani come “a turr’e Cucunatu” (in tale tragitto oltretutto potrei dare una breve occhiata all’edificio che ospita la centrale idroelettrica del paese… ed accertarmi che, malgrado i soldi pubblici investiti nella stessa, sia tutt’ora in funzione. Potrei risalire il torrente Emoli e raggiungere nuovamente piazza san Giovanni dal punto in cui sgorga la sorgente di Palazia o proseguire oltre fino al ponte delle jumiceddre e da lì risalire verso “u curc’e Catalanu”… e quindi ritrovarmi d’incanto su piazza san Giovanni (per la serie: tutte le strade di San Fili portano davanti al monumento ai caduti opera dello scultore toscano Leone Tommasi da Pietrasanta).

Potrei risalire la stupenda scalinata - o ciò che ne resta - in accattivante pietra di fiume ed antiestetico cemento che mi porta dritto dritto nella zona delle Volette al di sopra dell’imbocco della galleria ferroviaria… o di ciò che la stessa fu e che mai sarà più se non nei cuori dei pochi che ancora conservano qualche lontano ricordo della littorina che dalla stazioncina San Fili ci portava alla stazione di Cosenza o a quella di Paola.

Scelgo quest’ultima ipotesi che, dopotutto, non fa altro che portare a termine il mio progetto iniziale: una bella passeggiata che nel titolo includesse la fontana di Palazia e il tesoro de “u Canalicchiju”.

E così eccomi giunto all’inizio dell’ultima fatica (questa sì che è una vera e bella fatica) della stupenda passeggiata: intraprendere la salita che da una serie di scalini in cemento e pietra di fiume immediatamente seguita da un viottolo a più curve al cui intersecarsi con la strada che scendendo da piazza Rinacchio porta, in poco tempo e quasi sempre in discesa, nella zona conosciuta come contrada Profico.

Inutile contare i gradini: li avrò contati almeno una cinquantina di volte quand’ero piccolo e tempo di fare una decina di passi oltre questa scalinata… miracolo… già dimenticato il magico numero. Un’ultima occhiata al ponte di Crispini (… o di crispino che dir si voglia) ed al mulino ad acqua di Ottorino Perri (che tra l’altro ospitò anche una delle storiche centrali idroelettriche del nostro amato/odiato paesino) e… via, un passo dopo l’altro, eccomi ritrovarmi al punto in cui i miei occhi registrano sulla sinistra uno spettacolare strapiombo in cui la fanno da padrone delle affascinanti quasi secolari piante di quercia e sulla destra il casolare della proprietà di campagna che fu dell’insegnante Raffaele Perri… dalla fine degli anni Sessanta in poi.

Una proprietà, questa, che ricordo con piacere e che segnò anche parte della mia vita avendo mio padre per vari anni (dal 1970 in poi) coltivato quel prodigo appezzamento di terra.

Quasi un giardino, a quei tempi. Oggi?... meglio non parlarne.

Eppure a fermarmi di botto non furono i ricordi di un tempo che ormai da anni mi sono lasciato alle spalle. A fermarmi di botto fu un imprevisto e strano movimento che notai qualche passo più avanti, nei pressi di un foro nel muro in pietra che mi trovavo sulla sinistra a delimitazione, nella parte inferiore del succitato burrone.

Nu cursune?!?

Non era nero come me lo ricordavo ma era quasi grigio. Segno, secondo la mia ignoranza, che aveva appena fatto la muta primaverile (ovvero aveva cambiato pelle).

cursuni, lo so’ benissimo, non sono pericolosi: non sono velenosi e vivono nella costante paura d’imbattersi nell’uomo. Se proprio si subisce un morso da tali animali nostrani l’unica cosa consigliabile (nel dubbio) è quella di fare una bella antitetanica… giusto per dormire su due guanciali.

Eppure… sono decisamente brutti i… cursuni! … ed io non li digerisco tanto: chissà, magari qualcuno di loro potrebbe illudersi di essere una serpe velenosa ed attaccare. Ed io in quel momento in mano avevo solo la macchina fotografica… neanche un bastone per difendermi.

Quando il mio attuale compagno d’avventura s’accorse della mia presenza non ci pensò due volte a rintanarsi nel suo pertugio all’interno del muro, quello stesso pertugio da cui era appena uscito per godersi i primi raggi del sole pre-primaverile.

Constatato che la via era ormai libera, senza pensarci due volte (ma soprattutto con passo attento e veloce) ripresi il mio cammino verso l’agognata meta.

All’altro lato del casolare che ormai, sempre sulla destra (strano a dirsi ma non si era spostato), mi ero lasciato alle spalle (povere le mie spalle: quante cose nella vita mi ci sono lasciato senza pensarci su due volte) c’era il noce nato da una noce che avevo piantato io quando avevo appena una decina d’anni.

Nella mia vita ho piantato almeno due alberi di noce: ero piccolo, sono cresciuto… ed ancora sono vivo.

Dico questo perché nella tradizione popolare è sconsigliato piantare alberi di noce. Si dice, infatti, che quando il tronco del noce raggiunge la circonferenza del collo di chi l’ha piantato… quest’ultimo ha compiuto il suo percorso naturale in questa vita… in questo mondo spesso, ma non sempre, fatto di lacrime.

Altri cinque minuti ed eccomi finalmente giunto sul piano della strada che, come detto, collega contrada Profico (in parte in territorio di Rende ed in parte in territorio di San Fili) e piazza Rinacchio. Eccomi giunto… ai piedi de ‘a scisa du Canalicchiu.

Mi trovo adesso poco al di qua dell’imbocco della galleria ferroviaria ed esattamente davanti al foro dov’è sepolto il magico recipiente pieno d’oro tanto caro alle passate generazioni di nostri compaesani: a quadara chjina d’oru di santufilisi.

(continua).

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… un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.

… /pace!


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