A chi non ha il coraggio di firmarsi ma non si vergogna di offendere anche a chi non (?) lo merita.

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venerdì 7 marzo 2025

A San Fili (CS) mai piantare una noce con le proprie mani... potrebbe nascere e crescere un maestoso albero delle noci.

A sinistra: San Fili (CS) l’albero delle noci (in una rielaborazione grafica by Pietro Perri) immortalato nella omonima canzone del mitico Dario Brunori. Canzone classificatasi al terzo posto al Festival Della Canzone Italiana di Sanremo edizione 2025.

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E così l’aria magica che si respira a San Fili (CS) grazie a Dario Brunori ed alla sua stupenda opera musicale “L’albero delle noci” trova una sua giusta collocazione (con un meritatissimo terzo posto) anche sul palco dell’olimpo della musica italiana: il palco del Festival di Sanremo edizione 2025.

L’albero delle noci di Dario Brunori.

In tanti nell’ultimo mese (febbraio 2025) mi hanno chiesto, sia tramite il mio profilo Facebook che sul luogo di lavoro che nell’incontrarmi per strada, ma… esiste veramente l’albero delle noci cui fa riferimento Dario Brunori nella sua stupenda canzone? Dario Brunori è di San Fili? Dario Brunori abita a San Fili? Conosci Dario Brunori? Mi saluti e mi fai i complimenti a Dario Brunori? Ma perché Dario Brunori si chiama Brunori Sas? …

Che fortuna per voi sanfilesi avere un concittadino come Dario Brunori!

Saltando parte delle domande e la successiva affermazione/esclamazione in quanto toglierei un bel po’ di spazio a ciò che vorrei raccontarvi in questo breve scritto ossia rifacendomi solo alla risposta relativa alla domanda sull’esistenza reale dell’albero delle noci di Dario Brunori non posso che dire: fortunatamente, per non dire “miracolosamente” in quanto più volte nell’ultimo cinquantennio ha rischiato d’essere tagliato (non sappiamo se per far posto a qualche ecomostriciattolo urbano o a qualcosa di non meglio decifrabile) esiste davvero.

E sotto quell’albero di noci seppur non ci sono nato comunque, in alcuni periodi della mia spensierata fanciullezza, ci sono cresciuto: c’ho giocato a pallone (molti finiti nelle mani assassine – di palloni supersantos - di Rafel’a guardia), c’ho giocato a nascondino (ara ‘mucciareddra), c’ho raccolto qualche noce e, messa in tasca e nascosto agli occhi dei più, me la sono gustata in santa pace.

Dopotutto casa dei miei genitori dista non più di 150/200 metri dall’albero delle noci di Dario Brunori.

Quindi è un albero che, seppur non l’avevo considerato più di tanto nella quota di mia vita passata nel rione in cui vegeta l’ormai tanto famoso quanto miracoloso albero, esiste davvero che esisteva prima che io venissi al mondo e che sicuramente ora, grazie a Dario Brunori, esisterà anche quando io al mondo non ci sarò più… spero. Dopotutto è risaputo che un albero di noci può anche vivere 150 o 200 anni. O diventare eterno grazie ad una canzone giunta ad un encomiabile terzo posto al Festival della Canzone Italiana di Sanremo edizione 2025.

In un post su Facebook che ho pubblicato non appena ho ascoltato la canzone “l’albero delle noci” di Dario Brunori mi ero ripromesso, preannunciando tale mia idea su tale post, di parlarvi, con un apposito scritto sul mio blog (il San Fili By Pietro Perri Blog) di alcune leggende/superstizioni (?) che aleggiano intorno agli alberi delle noci a San Fili.

Leggende/superstizioni che mi sono state date in consegna (con passaggio orale) da mia madre Teresina Letizia Rende (1921/2019) che da tempo mi ero ripromesso di mettere nero su bianco e che, grazie all’amico (difficile non dichiararsi suo amico anche se c’hai avuto a che fare pochi attimi come lo scrivente con un mito come lui) e compaesano Dario Brunori ed al suo exploit sanremese, finalmente mi sono deciso a fare.

Ed allora… “Sono cresciute veloci le foglie sull’albero delle noci / E nei tuoi occhi di mamma adesso splende una piccola fiamma”.

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Tutti, o quasi, abbiamo sentito almeno una volta nella nostra vita dell’albero delle noci di Benevento… tutti, almeno a San Fili (CS).

Perché noi di San Fili, seppur non abbiamo nulla a che dividere con gli amici connazionali (in quanto entrambi apparteniamo al Regno di Napoli prima ed al Regno delle Due Sicilie poi) di Benevento, comunque viviamo in una terra magica dove le leggende (e le leggende quasi sempre prendono vita da un fatto reale il cui ricordo si perde magari nella notte dei tempi… ma che fa parte del nostro DNA) hanno trovato il loro habitat naturale: San Fili, stupendo borgo e stupendo territorio già appartenuto al Regno Delle Due Sicilie, alle varie dominazioni straniere succedutesi nei secoli (arabe, spagnole, turche e chi più ne ha più ne metta) e già ricadente nella mitica area denominata, oltre mille anni addietro, Magna Grecia… ovvero Grande Grecia.

Alla colonizzazione (non… occupazione, si guardi bene) dei nostri padri greci dobbiamo, ad esempio, la nascita e l’evoluzione di credenze come la Fantastica e sempre ai nostri padri greci dobbiamo1, quasi certamente, la conoscenza del prezioso uso delle ebre a scopo curativo. E furono le… magare di San Fili.

Il rimbombo mediatico che ha fatto la bellissima canzone “L’albero delle noci” del concittadino Dario Brunori mi ha riportato indietro di qualche decennio… di più di un decennio… dell’oltre mezzo secolo di vita che mi sono lasciato alle spalle. Ovvero a quegli spensierati giorni del “godi fanciullo” quando mia madre (magara come tutte le donne che si rispettino a San Fili) non so se per farmi paura o perché anche lei era stata a sua volta vittima di tali dicerie quando la stessa era bambina mi svelò che non bisogna mai piantare una noce. E mi svelò tale prezioso mistero dopo, purtroppo, che io ne avevo piantato una in un terreno che in quegli anni, primi anni settata del XX secolo, mio padre coltivava, più per hobby che per necessità, poco al di sotto del tratto di strada che noi sanfilesi d’altri tempi continuiamo a chiamare “scisa d’u Canalicchiu”. Un terreno poco al disotto dell’ex galleria ferroviaria che passa al di sotto del centro abitato… uscita lato Cosenza.

E la cosa peggiore era stato il rendermi conto che quella noce che aveva piantato si era già magicamente tramutata in una simpatica… bella piantina.

Perché non avrei mai dovuto piantare una noce con le mie mani? Perché non dovrete mai piantare una noce con le vostre mani?

Ok, non dimenticate mai che San Fili (CS) continua ad essere terra delle magare, terre dei magari e terre dei magaruni: terra magica e terra di magia. E forse come tale l’ha voluta proprio il Grande Architetto Dell’Universo.

Detto questo… detto il resto: non appena il tronco dell’albero nato dalla noce che avete incautamente piantato con le vostre mani, sfidando la sorte ed il destino, raggiunge la circonferenza del vostro collo… salutate amici parenti ed affini in quanto pochi, se non già passati, sono i giorni che vi restano da vivere. L’albero delle noci tanto caro a più di un Dio greco, a partire dallo stesso Giove, sembra rispetti, secondo tale leggenda, l’equazione “una vita uguale una vita”.

Quale fu il prezzo che pagai per questa nuova drammatica scoperta: per oltre quindici/venti anni passando a pochi metri da dove cresceva sempre più rigoglioso non l’albero delle noci di Dario Brunori ma il mio albero felle noci controllavo la circonferenza del mio collo, e seppure da una certa distanza, cercavo di vedere se la circonferenza dell’albero avesse raggiunto quella del mio collo.

A questo punto due domande potrebbero sorgervi spontanee:

1) come mai non estirpai subito l’albero delle noci appena nato?

2) come mai sono ancora vivo?

E queste due intelligenti domande meritano altrettante intelligenti risposte.

Non estirpai la pianticina di noce perché amo la natura… e poi di anni prima che la circonferenza del tronco dell’albero delle noci raggiungesse la circonferenza del mio collo sarebbero comunque passati vari anni… e purtroppo passavano… e purtroppo sono passati.

Per quanto riguarda la risposta alla seconda domanda… siete proprio sicuri che io sia ancora vivo?!?

Un altro consiglio, sempre legato all’albero delle noci, che vi voglio dare (così come mi fu dato a me sempre in quei magici anni del “godi fanciullo”) è… non riposatevi o quantomeno non dormite mai sotto un albero delle noci.

Il motivo?

Sotto l’albero delle noci non c’è vegetazione e se non c’è vegetazione un motivo ci sarà.

L’albero delle noci, almeno in Calabria, continua ad essere un albero caro agli dei delle più disparate religioni del passato… e magari anche di qualcuna del presente.

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Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.

... /pace.


domenica 2 febbraio 2025

Giangurgolo e le altre maschere calabresi.

A sinistra: Giangurgolo, la più importante maschera calabrese, in una immagine ripresa dal web.

Articolo pubblicato sul Notiziario Sanfilese die lese di marzo del 2007.

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Arlecchino, Colombina, Pantalone, Brighella, Balanzone, Pulcinella e chi più ne ha più ne metta.

Ammettiamolo: tutte le maschere famose, è quasi il caso di dirlo, non si fermarono ad Eboli (parafrasando il titolo del capolavoro letterario di Carlo Levi) ma si fermarono a Napoli!

Ma... c’é stata qualche maschera di cui possiamo andare più o meno fieri anche noi Calabresi?

In effetti qualcuna c’é stata. Una in particolare ed un paio in tono minore.

La maschera principale, rappresentativa (si fa per dire) della Calabria, è quella di Giangurgolo. Maschera seguita a ruota da Pacchesicche e Coviello.

Pacchesicche è la maschera calabrese (in quanto “tipo”) più vicina ai giorni nostri. E’ questi uno studente o un abate a Napoli, che non è così ricco da ricevere da casa caciocavalli, salumi e sostentamenti vari e come tale deve accontentarsi di frutta secca.

Sembra uscito, di fatti, da un film di Toto’. Non guasterebbe, come personaggio infatti, una sua apparizione in “Miseria e Nobiltà”.

In un celebre mimo dialogato a quattro personaggi, la Canzone di Zeza, dove quest'ultima (Lucrezia) è la moglie di Pulcinella ormai vecchio e Tolla è la loro figliuola civetta, Pacchesicche è lo studente calabrese che fa la parte dell'innamorato.

Giusto il genero di Pulcinella poteva fare un calabrese nella commedia dell’arte.

Coviello, al contrario di Pacchesicche, riveste diversi ruoli: il servo astuto, il capitano, il ruffiano, il suonatore di mandola; è sempre pronto ad allietare la compagnia e a cantare dolci serenate sotto le finestre di belle fanciulle innamorate.

Il personaggio di Coviello lo ritroviamo anche in una famosa commedia di Molière, il Borghese Gentiluomo, dove ricopre il ruolo del servo astuto.

La maschera più famosa è rappresentativa della Calabria però è stata certamente quella di Giangurgolo.

Maschera, a dire il vero, anch’essa secondaria nell’ambito della commedia dell’arte italiana in quanto, diciamoci la verità, la Calabria aveva ben poco a che spartire con il resto dell’Italia e dell’Europa... almeno fino al 1799.

Giangurgolo deve il suo nome, secondo alcuni, a Giovanni Golapiena, per via del suo insaziabile appetito.

E’ disposto a tutto pur di arraffare qualcosa con cui saziarsi, anche a costo di rubare, se gli capita l'occasione di non essere scorto da nessuno.

Poi é pronto a giurare di non aver visto o sentito niente, perché Giangurgolo oltre che bugiardo si rifiuta di affrontare qualsiasi responsabilità: tanta la fame, ma tantissima la paura.

Questi era la caricatura del nobile siciliano, divenuta popolare in Calabria dopo il 1713, ossia dopo che, ceduta la Sicilia ai Savoia, molti blasonati che parteggiavano per la Spagna lasciarono l'Isola.

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Personalmente mi imbattei la prima volta nella maschera di Giangurgolo alla fine dell'anno scolastico 1977/1978. Frequentavo il primo anno dell'Istituto Tecnico Commerciale "G. Pezzullo" di Cosenza. 

Fu quello un anno, il 1978, tanto tremendo quanto formativo per noi giovani studenti italiani dell'epoca. Fu l'anno in cui si verifico anche l'omicidio di Aldo Moro e della sua scorta e qualche insegnante aveva e persino paura che non avremmo potuto terminare quell'anno scolastico: poteva succedere tutto (tipo un colpo di stato) ma fortunatamente, com'è nella regola (l'eccezione da noi è sempre più rara e sempre più catastrofica) del popolo del Bel Paese... non successe niente.

L'insegnante di lingua italiana dell'epoca (la professoressa Silvana Raffaeli), decisamente una delle poche insegnanti che ricordo con piacere per ciò che ha lasciato alla mia formazione, a fine anno ci diede una lista di libri da leggere... ne avremmo dovuto scegliere, e leggere durante le vacanze estive, almeno tre.

Tra i tre che scelsi io ce n'era uno dal titolo: Il Teatro Calabrese di Coriolano Martirano. Era un saggio ed io, abituato ai romanzi ed alle novelle, neanche sapevo, fino a quel momento, cosa fosse un saggio.

Quel libro mi aprì, mentalmente parlando, un nuovo mondo.

Il mondo, appunto, delle maschere calabresi. 

Maschere che, malgrado gli spagnoli abbiano da oltre un secolo e mezzo lasciato la guida della nostra regione (la Regione Calabria) ancora governano, i loro discendenti (mentalmente parlando), senza interruzione dal 1861, le nostre terre e le nostre teste.

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Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.
... /pace ma... “si vis pacem para bellum”!



martedì 31 dicembre 2024

Il 2025 secondo l'oracolo della Mano di Fatima... by Pietro Perri.

Non essendo bisestile come il 2024... abbiamo qualche speranza in più sul fatto che nel 2025 un asteroide non colpisca la Terra.

L'importante è sopravvivere fino a capodanno.

(Ore 23:45 del 31 dicembre del 2024)

Comunque secondo l'oracolo della Mano di Fatima (legato alla numerologia) il tutto cambia di poco: il 4 (audacia, saggezza, potere) con il 5 (felicità, ricchezza, matrimonio)  finale.

Ovviamente le definizioni tra parentesi, dei numeri 4 e 5, sono da interpretare.

Però se proviamo a decifrare il quattro nelle sue audacia/potere" anche le guerre ci stanno. Ciò che non ci sta è la saggezza dei leaders mondiali. Il cinque finale (del 2025) parla comunque di "felicità, ricchezza e matrimonio" il che a livello mondiale potrebbe comunque essere sinonimo di pace e ripresa economica.

Resta purtroppo il 2000 che significa "divorzio/divisione" (cosa che purtroppo, secondo la lettura dell'oracolo segnerà l'intero millennio), lo zero all'interno dei quattro numeri (segno di mancanza di qualcosa e quindi follia), il venticinque (Intelligenza e fertilità) ed il venti (tristezza è rigidità).

Il venticinque dovrebbe caratterizzare la prima parte dell'anno mentre il venti la seconda parte con il cinque di chiusura.

Quindi gli unici periodi legati a veri e propri disagi (economici o di semplice magari immotivata preoccupazione) dovrebbero essere tra i mesi di agosto e novembre. Con un mese di dicembre destinato come al solito alla chiusura del bilancio di fine anno. 

Un bilancio che, a confronto di questo che ci stiamo lasciando alle spalle, non dovrebbe essere, a livello internazionale, poi tanto brutto... anzi.

Sicuramente molto meno brutto del 2024.

Buon 2025 a tutti... by Pietro Perri.


(post work in progress) 

martedì 24 dicembre 2024

Auguri di Buon Natale a tutti gli amici (e non solo) affezionati lettori di questo blog.

A sinistra vediamo la scannerizzazione d'una stupenda cartolina augurale realizzata a mano (e su esemplare unico) da Franco Fato… un caro amico d'Oltreoceano (originario comunque di San Fili - CS) passato prematuramente a miglior vita qualche anno addietro.

Quindi non una semplice cartolina augurale ma un vero regalo dato con tutto il cuore. Un regalo con un dono che va oltre l’umano concepibile: il proprio tempo. Ed il proprio tempo si può regalare solo alle persone cui si tiene, per un motivo o per un altro, veramente.

Non ti ho ringraziato quando ne avevo il tempo ma lo faccio oggi con tutto il cuore: ovunque tu sia, Franco, grazie.

By Pietro Perri.

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Gesù di Nazareth Maria e Giuseppe.

Mi è sempre più difficile credere nella natura divina di Gesù figlio di Giuseppe e di Maria ma non metterò mai in dubbio (da uomo del dubbio) la sua vita terrena e ciò che hanno rappresentato lui e la sua famiglia per l’Umanità.

Gesù figlio di Giuseppe e di Maria è sinonimo di famiglia e non c’è nel mondo niente di più bello della propria famiglia. Un “bene prezioso” questo che sovente viene calpestato (neanche fossero “perle date ai porci” per rifarci ad una parabola dei Vangeli) sia a causa di stupide incomprensioni che perché vittime di una malsana società moderna che cerca di isolare gli individui forse per gestirli meglio.

Fuori dalla famiglia ed isolati non siamo niente: difendete così come l’ha difeso Maria di Nazareth questo enorme tesoro. Difendetelo anche a costo della vostra stessa vita. Difendetelo anche se i vostri stessi familiari non vi capiscono né vi capiranno mai.

L'ammetto: non credo in Cristo Figlio di Dio ma semplicemente in Gesù figlio dell'uomo, di Giuseppe e di Maria. E se devo dire quale sia la miglior famiglia mai vissuta sulla Terra... non posso non dire che quella è la famiglia composta da Giuseppe, Maria e Gesù. Una famiglia, questa, che si dimostra il tutto ed il contrario di tutto... ma sempre e comunque una famiglia che ha fatto della sua unità il punto di maggior forza: nella gioia e ancor più che nella gioia... nel dolore.

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Elogio a Maria di Nazareth... protettrice della famiglia.

(Da un mio post su Facebook).

Sarà che sono un uomo e sarà che non sono neanche padre (?) a differenza di Giuseppe "il carpentiere" che di figli ne aveva anche non suoi ma, credetemi, più passa il tempo e meno riesco a capire la psicologia femminile mossa d'amore materno.

Le madri, quest'universo magico... misterioso... strano: non sono tanto felici dei figli che sono loro amorevolmente e riconoscenti vicini nel momento del reale bisogno (si contentano di un semplice sguardo, un bacio, un sorriso, un abbraccio, una parola di conforto...) quanto soffrono per la mancanza del figlio ingiustificatamente assente.

E dei padri? ... meglio non parlarne: chi non ricorda infatti la "parabola del figliol fesso e del figliol prodigo"?

E poi? ... il capolavoro di Maria di Nazareth.

Maria di Nazareth? ... eccola lì spinta da amore materno intenta a consigliare al frutto "scapestrato" del suo ventre un po' di attenzione in più nel suo dire, nel suo fare e nello sfidare senza paura il potere costituito.

E lui? ... la scaccia in malo modo dalla sua presenza. Scaccia lei ed i suoi fratelli. Perché il destino scritto si compia.

Basterebbe ciò per convincere una persona sensata a prendere una strada diversa anche da ciò che considera la sua stessa carne. Un uomo, un padre potrebbe anche farlo.... ma una madre?

Ed eccola, Maria, ai piedi della croce non impegnata a rinfacciare al proprio frutto "scapestrato" del suo ventre le mille ed una colpa addebitantegli ma... Eccola, Maria, impegnata a piangere ai piedi del figlio che in quel drammatico momento le viene umanamente tolto.

Lo rivedrà in futuro? ... c'è chi le dice di sì. Lei intanto piange. Malgrado abbia ancora tanti altri figli suoi e tanti figli non suoi cui pensare.

Lei intanto piange... il figlio che non c'è e che forse non c'è mai stato se non nel suo cuore di madre.

Strani esseri le madri.

Ma forse ancor più strani (o gli unici esseri strani in questo stupendo non duplicabile rapporto/cordone ombelicale) siamo solo noi figli degeneri.

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Dio? ... prenditi una vacanza: evita che almeno a Natale qualcuno uccida nel tuo Santo Nome.

(Da un mio post su Facebook).

Il nemico dell'umanità non è l'islamismo ma è la religione.

Pensate che una volta la religione islamista si chiamava ebraismo. Poi si è chiamata cristianesimo ed infine - oggi - si chiama islamismo.

Nel corso dei secoli comunque ha avuto un solo nome: religione.

Ed il sangue versato è stato sempre lo stesso: quello della gente di strada. Solo poche volte quello di chi gestisce il potere e/o la finanza.

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E Dio incontrò Mose.

(Da un mio post su Facebook).

La prima cosa che - sembra - disse Dio a Mosè nell'incontro illuminato e riscaldato da un roveto ardente fu: "Togliti i calzari, sei su un luogo sacro!"

E noi dovremmo ricordarci di tale ordine ogni qualvolta, la mattina svegliandoci e scendendo dal letto, mettiamo i piedi per terra.

La terra (con rispetto per gli ospiti) è e resta un luogo sacro.

A proposito, qualche anno addietro sono stato al monastero di santa Caterina ai piedi del monte Sinai ed ho toccato il roveto che secondo la tradizione è quello da cui Dio ha parlato a Mosè.

Effetti strani (tipo incontri ravvicinati del terzo tipo)? ... nessuno.

Poi sono salito sul monte Sinai nel punto in cui secondo la tradizione è salito qualche migliaio di anni addietro anche Mosè e... ho visto Dio.

L'ho visto guardando - negli occhi - oltre il confine dell'infinito la bellezza del suo Creato.

Un abbraccio e tantissimi auguri a tutti di un Buon Natale ed un felicissimo anno nuovo.

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Un caro abbraccio (ed ovviamente auguri di Buon Natale) a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.

... /pace ma... “si vis pacem para bellum”!


(Da un post originale del 25 dicembre 2017)

mercoledì 11 dicembre 2024

C'era una volta piazza XV Marzo - forse - a Cosenza.

La foto a sinistra, ripresa da “Google maps” (tramite screenshot debitamente tagliato), ci mostra, ripresa dall'alto, una famosissima piazza di Cosenza.

Una piazza tanto famosa che ho paura persino di scriverne il nome non volendo fare una figura di (beep!) sbagliando di scrivere lo stesso.

Mi spiego: fino ai primissimi anni di questo secolo/millennio (che poi combaciando di fatto sono la stessa cosa) ero sicuro che tale piazza fosse piazza Prefettura (in virtù del fatto del "Palazzo del Governo" che vi si affaccia sulla sinistra nella foto) o piazza Alfonso Rendano (in virtù dell'omonimo Teatro che vi si affaccia sulla destra nella foto) ma poi...

E comunque ancora oggi se chiedete a tanti cosentini doc come si chiama tale piazza vi risponderanno, senza ombra di dubbio, che si chiama appunto "Piazza Prefettura" anzi no "Piazza Rendano". O è "Piazza Bilotti"... visto che all'ex sindaca di Cosenza Eva Catizone nel corso del suo mandato era venuta in testa la bella Idea di cambiare il nome di tale piazza da "Boh!" (mi si permetta la perdita di memoria) in, appunto, il nome del locale mecenate tra l'altro, all'epoca neanche passato a miglior vita.

Cosa che sembra abbia fatto poco dopo il nascere di tale idea.

Fortunatamente al caro Domenico Bilotti sarà intitolata un'altra stupenda Piazza di Cosenza ma non senza prima aver cacciato, con un bel calcio in c*lo, il precedente occupante col suo cognome che tanti dubbi aveva fatto venire in testa in altri tempi a chi si soffermasse solo sul cognome: da Piazza (Luigi?) Fera a piazza Bilotti il percorso burocratico fu decisamente breve. Dopotutto " Piazza Fera" altro non era se un vecchio sito periferico in cui anticamente si teneva un'importante fiera agricola... secondo certi dotti cosentini della domenica.

Il tutto alla faccia del povero Luigi Fera: medico professore e politico di caratura nazionale.

Ma forse ho deviato un po' troppo dal filo conduttore ovvero dal rispondere alla domanda... ma come (beep!) si chiama la piazza che si trova a Cosenza vecchia e sui cui lati si affacciano il palazzo che ospita l'Ente Provincia (non credo più la Prefettura), il Teatro Alfonso Telesio, la Biblioteca Civica ecc. ecc. ecc.?

Secondo me, cosa che scoprii, così come dissi all'inizio del post, nei primi anni di questo secolo/millennio, dovrebbe, o quantomeno potrebbe, chiamarsi Piazza XV Marzo.

Una data, quella del 15 marzo 1844, che ci riporta all'unica pagina storica accreditata ai cosentini a livello nazionale con riferimento, oltretutto, al nostro Risorgimento.

Una pagina storica, quella della sommossa cosentina del 1844, che persino i cosentini, forse orche realmente assenti in tale occasione, stentano a riconoscere come loro.

Dopotutto nella futura piazza XV Marzo c'erano tante teste calde i paesi vicini alla città capoluogo tranne che gente brucia (o se ce n'era qualcuno... sicuramente vi era in nome proprio e per proprio conto).

Ed all'epoca, nel 1844, quella era "Piazza dell'Intendenza".

Ma oggi, ripeto, "Piazza dell'Intendenza" poi "Piazza XV Marzo" poi (solo per i cosentini veraci) "Piazza Prefettura" o "Piazza Rendano" poi mancata "Piazza Bilotti" poi forse nuovamente "Piazza XV Marzo" poi... come (beep!) si chiama questa (beep?) di piazza?

Fortunatamente a risolvere il problema, negandoci ogni sorta di dubbio, ci viene in aiuto il motore di ricerca Google con la sua app collegata "Google maps": la piazza incriminata per volontà della "rete" si chiama, forse... a me qualche dubbio resta, "Piazza Coriolano Martirano" (bravissima persona che ho avuto oltre piacere di conoscere).

Una piccola domanda comunque permettetemi di pormela: secondo voi alla Prefettura, all'ente Provincia di Cosenza, alla Biblioteca Civica, al Teatro Alfonso Rendano, al Comune di Cosenza... qualcuno lo sa ancora come si chiamerà fino a domani mattina questa stupenda storica piazza?

Una piazza cui siamo forse affezionati più noi residenti nei borghi alla periferia della Città dei Bruzi che i cosentini stessi?

By Pietro Perri.

mercoledì 30 ottobre 2024

ATENA/MEDUSA NELLA GIORNATA DEDICATA ALLA DONNA by PIETRO PERRI.

Immagine a sinistra (ripresa dal web): scudo con testa di Medusa opera del grande Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. 

Di seguito riporto due post pubblicati dallo scrivente sul social network Facebook. Tali post parlano del mito di Medusa e della dea Atena in una mia libera interpretazione collegata tra l'altro ad uno dei tanti drammi cui la donna è da sempre succube: la violenza. 


ANCHE NEL MITO DI MEDUSA È LA DONNA STESSA LA PEGGIOR NEMICA DELLA DONNA.

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Il mito di Medusa ricalca in pieno il dramma delle donne che subiscono violenza.

Medusa, infatti, sacerdotessa "prediletta" (?) del tempio della dea Atena viene violentata dal Poseidone, dio del mare.

E chi dovrebbe prendere la sue parti nella brutta storia, la dea Atena in persona (o in divinità che dir di voglia), è la prima a condannarla e scacciarla dal suo tempio e dalla sua luce.

Medusa, dopotutto, è solo una donna, seppur bellissima, di misera estrazione sociale.

Atena, donna, è la prima a giudicare ed a condannare una donna, Medusa, forse perché colpevole di essere bella e casta... da invidiare.

Le donne, in questo mito, non fanno squadra... così come le donne del mondo reale. 

Ed è proprio per questo, purtroppo, malgrado quanto dalla stessa subìto, che Medusa pagherà la sua "vergogna" col taglio della testa.

Eppure a far breccia ancora nella cuore degli uomini (o quantomeno  nel subconscio simbolico di questi) dopo 3 o 4 mila anni non è la dea Atena, delegata a pura leggenda mitologica, ma è proprio Medusa.

Grande la sua interpretazione dell'altrettanto grande Caravaggio.

By Pietro Perri.


E SE IL MITO DI MEDUSA FOSSE L'ALTRO VOLTO DELLA DEA ATENA?

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Atena oltre ad essere dea della sapienza, delle arti e della strategia in battaglia è, cosa da non sottovalutare nel mito di Medusa, anche dea... vergine. 

Ma, siamo proprio sicuri che sia stata veramente una dea vergine o c'è qualcosa su cui, rileggendo più approfonditamente il mito della povera Medusa (sacerdotessa prediletta da Atena, violentata nel tempio consacrato alla sua amata e per questo disconosciuta dalla stessa) dovremmo soffermarsi con un po' di più attenzione?

Siamo sicuri che nel tempio di Atena ad essere stata violentata non fu una seppur grande sacerdotessa ma la dea stessa che, rimasta scioccata da tale atto, non trova metodo migliore del disconoscere lo stesso se non scindere/rinnegare dalla sua vita il momento è viverlo come se non fosse accaduto a sé?

Atena nel mito della povera Medusa sembra rinnegare la sua sacerdotessa (cosa strana per una dea che tra l'altro viene riconosciuta come dea della saggezza). Eppure ritroviamo, dopo l'increscioso episodio ed ovviamente in alcune iconografia classiche, la dea Atena con uno scudo in mano, a difesa della propria persona, su cui fa bella vista di sé proprio la testa della sua Medusa.

Possibile che la dea Atena in un primo momento rinneghi la sua sacerdotessa come se si vergognasse della stessa, di ciò che aveva subito la stessa, e poi ne faccia argomento di forza e quindi di vanto? Quasi che la vergine, violentata selvaggiamente ed ignobilmente nel modo e nel luogo dalla stessa considerato più sacro, ritrovasse successivamente maggior forza (vita/consapevolezza di sé/nuova verginità... purezza verso sé stessa ed il resto del mondo) e nuova natura.

È come se Atena/Medusa dicesse alle donne che hanno subito violenza di non vergognarsi (perché non sono loro a doversi vergognare) ma di rinascere a nuova vita più forti di prima ed affrontare a testa alta il nuovo futuro riappropriandosi di ciò che è loro: la sacralità del proprio tempio.

Adoro la mitologia greca.

By Pietro Perri.

sabato 26 ottobre 2024

NATUZZA EVOLO... L'ULTIMA SPERANZA - By Pietro Perri.

20 ottobre 2024... visita al santuario (?) di Paravati (in provincia di Vibo Valentia). Un luogo di culto dove riposano tra l'altro le spoglie mortali della mistica Natuzza Evolo.

Cosa mi ha lasciato di particolare quella stupenda giornata sulla via della ricerca di una luce smarrita due o tre decenni addietro e mai più ritrovata? La luce della fede in un Essere Superiore?

Da miscredente uomo del dubbio potrei anche rispondere, prendendo in giro me stesso, "un bel tartufo nero mangiato sulla via del ritorno alla gelateria Dante nella stupenda piazzetta a Pizzo calabro".

Ma questa è una certezza ed un uomo del dubbio come me non può avere certezze... sarebbe la sua condanna a morte.

Ed allora la mia mente ritorna indietro di qualche passo (e magari qualche chilometro percorso in pullman) e mi riporta nel luogo in cui riposano le spoglie mortali della mistica di Paravati (VV)... mamma Natuzza Evolo.

Mi riportano in quello stanzino appartato in cui la fa da padrone una tomba in marmo rosa. Una tomba in cui a volte si fa la fila solo per poggiarci sopra una mano o entrambe le mani al fine di congiungersi, di aprire un filo diretto con ciò che continuo a definire... l'ultima speranza.

Fortunatamente un'ultima speranza che non è ancora mia... che spero non sarà mai mia.

E davanti a quel freddo simulacro, quel freddo marmo che al solo toccarlo dà l'impressione di un caldo accogliente senso materno... i miei dubbi sembra cerchino di sopravvivere inutilmente a se stessi.

Ma quell'attimo, questa sensazione, quel giorno non era per me.

Quell'attimo, quella sensazione quel giorno, quell'attimo era solo per una giovane donna inginocchiata ai piedi di quella tomba, della tomba della cara madre... mamma Natuzza, con le mani e la fronte incollate al freddo/caldo sensibile marmo, con gli occhi pieni di lacrime... con un pianto continuo che spezzava i cuori dei presenti e che costringeva i presenti a piangere e pregare insieme a lei e per lei.

Nessuno di noi sapeva il perché della dolorosa e straziante preghiera ma tutti eravamo certi che quel giorno le orecchie di mamma Natuzza Evolo erano solo per la povera ragazza.

Personalmente continuo a restare un uomo del dubbio ed a sopravvivere, a volte con grande sforzo fisico e psicologico, nel mio dubbio.

Ma la domanda, il mio dubbio diventato certezza nella sua stessa esistenza, mi assale ed annienta: "Chi sono io per negare a quella povera ragazza... il diritto Alla SUA ultima speranza?" 

By Pietro Perri.

mercoledì 16 ottobre 2024

La predicazione di Gioacchino da Fiore sui monti di Rende/San Fili. Di Salvatore Turuccio Mazzulla.

Nella foto a sinistra: veduta laterale della Chiesa di santa Lucia nella frazione Bucita di San Fili (CS). Nell’area in cui ricade quest’antico edificio di culto secondo la tradizione vi ha tenuto delle prediche il quasi beato (santo per Dante Alighieri che lo colloca nel suo Paradiso) Gioacchino da Fiore.

Foto ovviamente… by Pietro Perri.

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Salvatore "Turuccio" Mazzulla e l'abate Gioacchino da Fiore.

(Breve nota di Pietro Perri)

Tra le persone che hanno dato tanto a San Fili, pur costantemente costrette da problemi personali e da una società di "dubbia moralità" che nel suo piccolo non perdona neanche il fatto d’essere nati in una famiglia anziché in un’altra (San Fili come tanti piccoli borghi calabresi è anche e soprattutto questo) o di sottomettersi alle decisioni non appellabili di gruppi settati, ottenendone il cambio solo un briciolo di damnatio memoriae, vi è sicuramente il caro indimenticato (?) Salvatore “Turuccio” Mazzulla.

Per anni Salvatore "Turuccio" Mazzulla ha cercato invano di recuperare un po’ di memoria storica della Comunità Sanfilese.

Spesso lavorando, purtroppo e forse anche stupidamente, nel fare da cassa di risonanza agli altri invece di lavorare per fare da cassa di risonanza a se stesso.

Ottima voce interpretativa (nel recitare versi suoi, in quanto autore di bellissime e toccanti poesie, o d’altri aveva un dono naturale) non disdegnava di dividere il palco con chi "in quel determinato momento" gli camminava affianco.

Oggi di Salvatore “Turuccio” Mazzulla riporto in questo mio spazio web un breve scritto (spunto per una ricerca) pubblicata sul Notiziario Sanfilese del mese di agosto del 2008.

In questo scritto il nostro compaesano ci parla del beato (con qualche legittimo dubbio) Gioacchino da Fiore. Ovvero dell'eretico calabrese (come lo definiscono alcuni studiosi della sua enorme ed illuminante opera religiosa, filosofica e letteraria) citato tra l'altro persino in un versetto della Comedia di Dante Alighieri.

Una citazione, quella di Dante Alighieri (quasi contemporaneo all'abate Gioacchino da Fiore), che ci dimostra l'importanza ("visione profetica"), già nei suoi tempi, dell'illustre calabrese. Un'importanza decisamente malvista persino oggi dalla Chiesa di Roma.

Nei versi 139-141 del XII canto del Paradiso il sommo poeta infatti ci segnala:

Rabano è qui, e lucemi dallato

il calavrese abate Giovacchino,

di spirito profetico dotato.

La nota di Salvatore "Turuccio" Mazzulla ci immerge in un breve ricordo dei luoghi dell’abate Gioacchino da Fiore ed in particolare sul suo, quasi certo, passaggio per San Fili (per la frazione Bucita del comune di San Fili, per essere più precisi).

Tale paginetta, scritta da Salvatore "Turuccio" Mazzulla, prematuramente e drammaticamente scomparso nel 2012, riporta come titolo:

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Nei luoghi dell’abate (spunti di ricerca).

La predicazione di Gioacchino da Fiore sui monti di Rende.

Di Salvatore Mazzulla

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Domenico Martire in “Calabria Sacra e Profana” parla di Bucita come uno dei luoghi della predicazione di Gioacchino ma la associa al fiume Surdo, chiaramente nel territorio di Rende (che comprendeva comunque il territorio di San Fili), questo “errore” di Martire (anche se dimostreremo in seguito che non è un suo errore) ha fatto considerare dubbia l’ipotesi della sua permanenza anche a Bucita oltre che a Rende sul fiume Surdo.

Padre Francesco Russo al I Congresso internazionale di studi gioacchimiti nel 1979 per quanto riguarda La figura storica di Gioacchino da Fiore afferma:

«negli anni 1152-53 si recò alla Sambucina di Luzzi e circa un anno dopo, non essendo ancora sacerdote* si recò a Bucita in territorio di San Fili a predicarvi la parola di Dio con quel fervore mistico che sarà la sua caratteristica». Altre fonti citano chiaramente Bucita ma saranno esaminate in seguito. Partendo dall’ipotesi che sia stato sia a Bucita che sul Surdo, si tratta ora di individuare i luoghi.

Nel corso di un convegno tenutosi nel teatro comunale di San Fili nel mese di novembre 2003 sul recupero del patrimonio linguistico, chiesi al Prof. John Trumper se un toponimo potesse avere valore di documento storico ed egli mi rispose di sì.

Forte di questa affermazione insieme ad Antonio Asta ed a Pietro Perri iniziammo questo tipo di ricerca ed abbiamo scoperto tre toponimi significativi: lauri, aira di corazzo e grangu. Per quanto riguarda il primo mi era stato già indicato dallo storico Amedeo Miceli di Serra di Leo la cui famiglia risulta proprietaria di un vasto territorio sopra Bucita.

In località Lauri secondo gli intervistati (cacciatori, boscaioli ed anziani) dovevano esserci i ruderi di uno scarazzu (casolare di montagna) si trattava ora di fare un sopralluogo, insieme ad Antonio Asta ci siamo recati nel luogo che ci avevano indicato ed effettivamente vi erano dei ruderi che ad una prima impressione sembravano molto antichi e il tipo di costruzione sembrava risalire ad un’epoca molto lontana.

Chiaramente questa costruzione antica che sorge in un luogo che si chiama lauri sotto la quale scorre un ruscello che si chiama grangu e al di sopra un piano che si chiama aira di Corazzo mi ha fatto subito pensare ad una piccola grangia dove prima c’era una laura, ma questo chiaramente spetta agli esperti stabilirlo,** se la mia ipotesi dovesse risultare vera potrei affermare che quel rudere è la grangia che ha ospitato Gioacchino.

Il terzo toponimo mi richiamava alla mente l’Abbazia di S. Maria di Corazzo, ci doveva essere per forza un legame con Bucita ed infatti avevo ragione: in un atto del 1225 Bucita risulta tra le terre dell’Abbazia di Corazzo.

…….. et tenimentum Bucchitae cum canonibus castanetis suis in territorio Montis Alti, cuius tenimenti fines sunt isti: ab oriente est via publica, ab occidente locus qui dicitur Deo Gratias et Petra Cruciata; ab uno latere flumen Bucchitae, et ab alio flumen Lorici, et concluditur…

 

I toponimi deo gratias e petra cruciata ci sono ancora mentre quello dei fiumi è cambiato ma senza ombra di dubbio è la nostra Bucita.

 

* Il Tocco pensa che questo fatto abbia provocato la reazione dell’Arcivescovo di Cosenza, il quale gli avrebbe interdetto la predicazione (L’eresia nel medioevo - Firenze 1884 - pp. 269-270).

** Negli anni seguenti il Miceli ha fatto visitare i ruderi dall’Arch. Terzi che li ha collocati in un’epoca successiva.

 

Salvatore Mazzulla. 

sabato 14 settembre 2024

La storica Grotta Azzurra di Giovanni Calomeni a San Fili.



Nella foto a sinistra: l’entrata della cantina “Grotta Azzurra” di Giovanni Calomeni. La stessa si trova a San Fili nel mezzo della scalinata in pietra di fiume che collega corso XX Settembre (all’altezza dei palazzi della famiglia Gentile e della famiglia Miceli (mmienzu u puontu) con via Guglielmo Marconi (all’altezza dell’edificio che ospita le scuole elementari del borgo. La scesa, via Roma o Chiarieddru che dir si voglia, è caratterizza dalla presenza di una scalinata realizzata per buona parte a secco in pietra di fiume.

L’articolo e la foto sono entrambi a firma Pietro Perri. L’articolo è stato proposto una prima volta, verso la fine degli anni novanta, sul quindicinale a tiratura locale “l’occhio” e successivamente, nel mese di novembre del 2009, sul Notiziario Sanfilese.

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La cantina dei Miceli, situata ara scisa di via Roma (Chiarieddru, per i sanfilesi d.o.c.!), una delle poche stupende ed impareggiabili scalinate realizzate in pietra di fiume ed ancora non completamente distrutte dai nostri laboriosi ed insostituibili amministratori trentennali (per la serie: "come hanno distrutto loro, non distruggono neanche i bombardamenti degli americani"!), conosciuta nell'ambiente degli intenditori per diversi decenni come "la Grotta", fu gestita dagli inizi del 1900 e fino al 1930 circa da un certo Ferdinando "Cacavineddra" .

Ferdinando "Cacavineddra" vendeva il vino dei Miceli ottenendone in cambio una percentuale sul guadagno. Dal 1930 in poi (esattamente fino al 1977) "la Grotta" sarà gestita da Salvatore Calomeni cui subentrerà successivamente il figlio Giovanni. Giovanni Calomeni non solo gestirà (seppure per un breve periodo, tenuto conto che il mondo iniziava tragicamente a cambiare) detta cantina ma finirà per acquistarne dai Miceli gli stessi locali.

Giovanni Calomeni inoltre affiancherà al nome di "Grotta" il qualificativo di "azzurra", dipingendone tra l'altro con tale colore l'accesso alla stessa.

Il nostro compaesano Giovanni Calomeni (persona affabile che noi ricordiamo anche per la sua ultradecennale macelleria 'mmianzu u puontu) tra l'altro volendo rompere la secolare tradizione d'acquistare il vino (o quantomeno il mosto) da vendere a San Fili nei paesi a ridosso di Cosenza (Zumpano, Donnici ecc.) così com'era sempre stato fatto dai gestori delle nostre cantine, ebbe la felice idea d'organizzare nei pressi di piazza Rinacchio (nei magazzini sottostanti dell'abitazione dei Palermo) un locale per la trasformazione, su larga scala, dell'uva in mosto (nu parmiantu). Uva che il Calomeni acquistava direttamente in Puglia. Tale parmientu fu operativo negli anni compresi tra il 1965 e il 1980.

Personalmente ancora ricordo (anche perché per un certo periodo tra queste vi furono i miei genitori) le numerose persone (donne e uomini) che vi lavoravano nel periodo della vendemmia.

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Gli uomini erano impegnati nel far funzionare le macchine, per niente automatiche o quantomeno semiautomatiche (se non per il torchio a pressione, presenti nel locale/parmientu che si trovava al piano seminterrato dell’abitazione della famiglia Palermo nei pressi di piazza Rinacchio (attuale piazza Adolfo Mauro). Le donne che portavano sulla testa dal piano strada al piano locale/parmientu le cassette piene d’uva in quanto il camion non era in grado di avvicinarsi ulteriormente nel punto in cui avrebbe dovuto mettere a disposizione dei lavoranti la propria preziosa mercanzia. Le donne erano pagate un tot a cassetta d’uva trasportata.

(n.d’a: aggiunta successiva alla pubblicazione dell’articolo)

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Era anche questo un modo come un altro per aiutare l'economia non sempre rosea di alcune famiglie della nostra comunità.

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Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.

... /pace.