A chi non ha il coraggio di firmarsi ma non si vergogna di offendere anche a chi non (?) lo merita.

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domenica 8 giugno 2025

Il GOLEM - by Pietro Perri.

Nella foto a sinistra (ripresa dal web) il Golem nel film "Der Golem, wie er in die Welt kam" (1921, Germania) di Carl Boese e Paul Wegener.

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Chissà, forse un altro rabbino - nella lontana Praga - è stato tanto stupido da dare vita ad un nuovo Golem o forse è semplicemente riuscito a ricostruire e riportare in vita il Golem del rabbino Löw.

E forte Praga non è solo la capitale della Repubblica Ceca ma è una qualsiasi capitale delle tante capitali sparse per il mondo.

Un simbolo.

Una capitale dove il senso (la percezione) della religione è molto forte.

Fatto sta che un Golem è fuoriuscito dal ghetto di Praga e sta disastrosamente aggirandosi lungo tutte le vie del mondo e ovunque posa i suoi mostruosi arti inferiori semina distruzione e morte.

Non per colpa sua: lui non vede, lui non capisce, lui ha paura... anche di sé stesso.

Chissà, forse questa volta a dare vita ad un nuovo Golem non è stato neanche un rabbino né un discendente del rabbino Löw ma un semplice uomo come quell'uomo che gli uomini non hanno mai considerato un ebreo ma solamente il figlio d'un falegname... il Figlio di Dio.

Fatto sta che il nuovo giocattolo magico - l'ennesima sfida al Grande Architetto Dell'Universo (dopotutto il rabbino Löw si era sostituito a Dio dando la vita al suo posto) - e scappato al controllo del suo indegno creatore.

Tremate, genti, perché l'atroce peccato sarà lavato col sangue dalla polvere con cui fu plasmato il Golem... l'Adamo, l'uomo primordiale.

Tremate, genti, perché la Seconda Guerra Mondiale altro non era se non il  prologo alla Terza. E la Terza Guerra Mondiale sarà l'ultima guerra che vedrà coprotagonista l'essere umano.

Tremate, genti, perché il Golem è uscito per l'ennesima volta fuori dal ghetto di Praga e si aggira forte di tutta la sua potenza distruttiva per le strade del mondo.

Tremate e se ne avete ancora tempo... pregate per la mia e per la vostra anima ricordando sempre che il Golem non ha nessuna anima. E se ce l'ha, non essendo le stata darà da Dio, è ancora nello stato fetale.

Che noi, forse, non abbiamo un'anima e se l'abbiamo è ancora in uno stato fetale.

Proprio come l'Essere Umano in questo periodo. Proprio come te e me: nuovi rabbini Löw e nuovi Golem indegni abitanti del pianeta Terra ed indegne logiche conseguenze dell'imperfetta opera di Dio: l'essere umano.

Eppure nel Golem anche se di polvere... batte, in modo quasi impercettibile, un cuore. Un cuore che non possono scalfire miliardi di uomini ma può scalfire la semplice lacrima di una bambina indifesa.

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Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.

... /pace ma... “si vis pacem para bellum”!

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Da alcuni post pubblicati su Facebook... by Pietro Perri.

(18 SETTEMBRE 2018)

Chi dà vita al Golem sa di sfidare Dio.Chi dà vita al Golem sa di non essere Dio.

Dio creò l'uomo... Golem.

L'uomo non è Dio.

Il Golem muore soffocando il proprio alito vitale nella polvere con cui è stato plasmato.

By Pietro Perri.

N. B.: Il GOLEM è (nella tradizione ebraica) un gigante di creta realizzato da un rabbino per dare un po' di giustizia al popolo perseguitato.

Grazie ad una parola magica trovata nelle sacre scritture il rabbino diede vita alla sua creatura di creta (sostituendosi quindi a Dio Creatore).

(2 SETTEMBRE 3020)

Chi - volutamente o involontariamente - dà vita ad un Golem deve avere il coraggio di assumersi la responsabilità dei propri malefici atti.

I golem muoiono stupidi per colpa dell'incapacità/limitatezza creativa dei loro creatori.

By Pietro Perri.

Il problema è che la gestione del Golem si presentò difficile fin da subito e se costo sangue e dolore a quanti perseguitavano il popolo ebraico altrettanto sangue e dolore costò al popolo ebraico.

Il concetto morale (che troviamo anche nella mitologia greca) è che... non si può pensare di sostituirsi a Dio o agli dei rivoluzionando il progetto divino.

Famoso è il Golem del rabbino di Praga.

Comunque è un mito affascinante.

(26 SETTEMBRE 2020)

LETTURE AL TEMPO DEL COVID-19: IL GOLEM di GUSTAV MEYRINK

La lettera ebraica Aleph (l'Alfa) costruita a somiglianza dell'uomo accenna con una mano il cielo e con l'altra la terra: come è in alto così è in basso.

Nel Golem l'IO.

mercoledì 16 aprile 2025

L’ultima cena… nella tradizione popolare sanfilese.

Nell’immagine a sinistra, trovata sul web, una rappresentazione dell’ultima cena ripresa dal celebre affresco di Leonardo da Vinci.

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Sappiamo benissimo tutti che la famosa ultima cena a cui ha presenziato circa 2000 anni addietro Gesù di Nazareth portò tremendamente sfiga a più di un soggetto.

Tanto che l’ultima cena, almeno per due soggetti, si rivelò fatale: per qualcuno di questi due, se non per entrambi, l’ultima cena si trasformò veramente… nell’ultima cena.

I due soggetti furono, ovviamente, lo stesso Gesù di Nazareth ed il suo discepolo Giuda Iscariota.

Entrambi, nel giro di poche ore finirono malamente: il primo crocifisso ed il secondo suicida.

Entrambi, secondo i vangeli non solo canonici ma anche apocrifi (vedasi il caso del vangelo di Giuda), predestinati ad un destino di salvazione: senza l’uno, dopotutto, non si sarebbe compiuto quanto era stato scritto dell’altro.

Ma ritorniamo ai nostri tempi ed a ciò che ritroviamo nel folclore e quindi nella tradizione (decisamente superstiziosa?) sanfilese.

Inutile dire che, così come ci dicono ed impongono da tempo immemore i vangeli canonici, a San Fili (CS) così come in tutto il mondo cristiano-cattolico il giovedì santo si ripete il rito dell’ultima cena.

Nel corso della celebrazione assistiamo al lavaggio dei piedi da parte del sacerdote celebrante ai dodici concittadini che impersonano gli apostoli, alla funzione religiosa (messa solenne) propriamente detta, alla benedizione dei “pani/tortani” (uno per ogni apostolo) e relativa distribuzione, previo spezzettamento, sempre ad opera dei figuranti apostoli, di tali “pani/tortani”, ai fedeli presenti.

Sempre in altri tempi, ma forse anche adesso, si attribuiva al “pane/tortano” benedetto nel corso della messa dedicata al ricordo dell’ultima cena del Cristo poteri a dir poco miracolosi… o quanto meno si sperava in ciò.

E’ giusto ricordare che più volte mi sono espresso sull’argomento miracolo in modo inequivocabile: se c’è una speranza nessuno ha il diritto di uccidere la speranza se non la speranza stessa.

Ok, dicevo che per almeno due persone (o almeno per una delle due) quella tenutasi a Gerusalemme circa 2000 anni fa con, a presenziare la stessa, il Figlio di Dio, fu sicuramente l’ultima cena della sua vita terrena.

E tra i due quello che sicuramente non ebbe il tempo di vivere altre cene in compagnia fu il discepolo Giuda Iscariota.

Il Cristo, lo sappiamo bene, dopo tre giorni riprese la sua forma mortale e per un seppur breve tempo, sconfiggendo la morte, continuò a cenare con il rimanente dei suoi discepoli.

Ecco, a San Fili (CS) in altri tempi, almeno fino alla prima metà degli anni settanta del secolo scorso, si era più che convinti che almeno uno dei partecipanti, nel ruolo di figuranti apostoli, al rito dell’ultima cena… nel corso dei successivi dodici mesi sarebbe passato a miglior vita.

Per questo nostro compaesano, quasi un novello Giuda Iscariota, non ci sarebbe stata un’ultima cena, con tanto di rito religioso, in un futuro giovedì santo.

Quella di quell’anno, almeno per uno dei dodici prescelti, sarebbe stata veramente l’ultima cena.

E nelle case dei partecipanti, in prossimità del sacro appuntamento, con i propri familiari e/o amici presenti si cercava di fare mente locale su chi furono ad indossare la veste di apostolo l’anno precedente e chi, a pochi giorni appunto al succitato sacro appuntamento, non sarebbe stato presente per… impegni precedentemente presi con nostra “Sorella Morte Corporale”.

C’è da crederci in questa mia nuova rivelazione?

Sui racconti dei nostri anziani… sicuramente.

Dopotutto io difficilmente ho scritto qualcosa di mio.

Quasi sempre mi sono limitato, come in questo caso, a riportare nero su bianco il mondo più o meno immaginario dei nostri genitori, dei nostri nonni o dei nostri bisnonni.

Racconti che comunque, seppur fantasiosamente ben romanzati e resi fantasticamente affascinanti, partivano comunque da un dato di fatto, da una realtà, da una registrazione memorica di fatti reali: un morto, tra i dodici figuranti apostoli, nel corso dell’anno c’era sempre o quasi sempre stato e quasi sempre avrebbe continuato per tantissimi anni a venire… ad esserci.

Il motivo?

In quei tempi ad indossare gli abiti di figuranti apostoli a San Fili (CS) erano quasi sempre gli anziani del paese e, lo sappiamo benissimo, negli anziani la possibilità di passare a miglior vita è decisamente alta. Ed uno su dodici era comunque una bella percentuale.

Dopotutto… era pur giusto che Giuda Iscariota lasciasse il posto libero ad un altro Giuda Iscariota.

Oggi?

Non saprei dirvi se nella rievocazione del sacro rito dell’ultima cena sia confermato quanto accadeva nel mondo dei nostri cari avi.

Dopotutto sono passati vari decenni dal momento in cui anch’io feci da figurante apostolo (indossando i relativi indumenti) in un’ultima cena tenutasi nella Chiesa Madre di San Fili.

Eravamo verso la fine del primo lustro degli anni settanta del secolo scorso ed officiava la funzione l’indimenticato sacerdote don Luigi Magnelli.

In quell’occasione ero poco più di un ragazzino. Forse non superavo i quattordici o quindici anni.

Fu per uno strano caso del destino se io, in quell’occasione, mi ritrovai a vestire quegli abiti decisamente grandi per uno della mia non eccessiva altezza ma sicuramente eccessiva magrezza.

Lo strano caso era dovuto… all’annuale assente per impegni precedentemente presi con nostra “Sorella Morte Corporale”. 

Non c’era tempo per trovare un sostituto e… trovarono me.

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Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.

… /pace!

 

venerdì 7 marzo 2025

A San Fili (CS) mai piantare una noce con le proprie mani... potrebbe nascere e crescere un maestoso albero delle noci.

A sinistra: San Fili (CS) l’albero delle noci (in una rielaborazione grafica by Pietro Perri) immortalato nella omonima canzone del mitico Dario Brunori. Canzone classificatasi al terzo posto al Festival Della Canzone Italiana di Sanremo edizione 2025.

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E così l’aria magica che si respira a San Fili (CS) grazie a Dario Brunori ed alla sua stupenda opera musicale “L’albero delle noci” trova una sua giusta collocazione (con un meritatissimo terzo posto) anche sul palco dell’olimpo della musica italiana: il palco del Festival di Sanremo edizione 2025.

L’albero delle noci di Dario Brunori.

In tanti nell’ultimo mese (febbraio 2025) mi hanno chiesto, sia tramite il mio profilo Facebook che sul luogo di lavoro che nell’incontrarmi per strada, ma… esiste veramente l’albero delle noci cui fa riferimento Dario Brunori nella sua stupenda canzone? Dario Brunori è di San Fili? Dario Brunori abita a San Fili? Conosci Dario Brunori? Mi saluti e mi fai i complimenti a Dario Brunori? Ma perché Dario Brunori si chiama Brunori Sas? …

Che fortuna per voi sanfilesi avere un concittadino come Dario Brunori!

Saltando parte delle domande e la successiva affermazione/esclamazione in quanto toglierei un bel po’ di spazio a ciò che vorrei raccontarvi in questo breve scritto ossia rifacendomi solo alla risposta relativa alla domanda sull’esistenza reale dell’albero delle noci di Dario Brunori non posso che dire: fortunatamente, per non dire “miracolosamente” in quanto più volte nell’ultimo cinquantennio ha rischiato d’essere tagliato (non sappiamo se per far posto a qualche ecomostriciattolo urbano o a qualcosa di non meglio decifrabile) esiste davvero.

E sotto quell’albero di noci seppur non ci sono nato comunque, in alcuni periodi della mia spensierata fanciullezza, ci sono cresciuto: c’ho giocato a pallone (molti finiti nelle mani assassine – di palloni supersantos - di Rafel’a guardia), c’ho giocato a nascondino (ara ‘mucciareddra), c’ho raccolto qualche noce e, messa in tasca e nascosto agli occhi dei più, me la sono gustata in santa pace.

Dopotutto casa dei miei genitori dista non più di 150/200 metri dall’albero delle noci di Dario Brunori.

Quindi è un albero che, seppur non l’avevo considerato più di tanto nella quota di mia vita passata nel rione in cui vegeta l’ormai tanto famoso quanto miracoloso albero, esiste davvero che esisteva prima che io venissi al mondo e che sicuramente ora, grazie a Dario Brunori, esisterà anche quando io al mondo non ci sarò più… spero. Dopotutto è risaputo che un albero di noci può anche vivere 150 o 200 anni. O diventare eterno grazie ad una canzone giunta ad un encomiabile terzo posto al Festival della Canzone Italiana di Sanremo edizione 2025.

In un post su Facebook che ho pubblicato non appena ho ascoltato la canzone “l’albero delle noci” di Dario Brunori mi ero ripromesso, preannunciando tale mia idea su tale post, di parlarvi, con un apposito scritto sul mio blog (il San Fili By Pietro Perri Blog) di alcune leggende/superstizioni (?) che aleggiano intorno agli alberi delle noci a San Fili.

Leggende/superstizioni che mi sono state date in consegna (con passaggio orale) da mia madre Teresina Letizia Rende (1921/2019) che da tempo mi ero ripromesso di mettere nero su bianco e che, grazie all’amico (difficile non dichiararsi suo amico anche se c’hai avuto a che fare pochi attimi come lo scrivente con un mito come lui) e compaesano Dario Brunori ed al suo exploit sanremese, finalmente mi sono deciso a fare.

Ed allora… “Sono cresciute veloci le foglie sull’albero delle noci / E nei tuoi occhi di mamma adesso splende una piccola fiamma”.

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Tutti, o quasi, abbiamo sentito almeno una volta nella nostra vita dell’albero delle noci di Benevento… tutti, almeno a San Fili (CS).

Perché noi di San Fili, seppur non abbiamo nulla a che dividere con gli amici connazionali (in quanto entrambi apparteniamo al Regno di Napoli prima ed al Regno delle Due Sicilie poi) di Benevento, comunque viviamo in una terra magica dove le leggende (e le leggende quasi sempre prendono vita da un fatto reale il cui ricordo si perde magari nella notte dei tempi… ma che fa parte del nostro DNA) hanno trovato il loro habitat naturale: San Fili, stupendo borgo e stupendo territorio già appartenuto al Regno Delle Due Sicilie, alle varie dominazioni straniere succedutesi nei secoli (arabe, spagnole, turche e chi più ne ha più ne metta) e già ricadente nella mitica area denominata, oltre mille anni addietro, Magna Grecia… ovvero Grande Grecia.

Alla colonizzazione (non… occupazione, si guardi bene) dei nostri padri greci dobbiamo, ad esempio, la nascita e l’evoluzione di credenze come la Fantastica e sempre ai nostri padri greci dobbiamo1, quasi certamente, la conoscenza del prezioso uso delle ebre a scopo curativo. E furono le… magare di San Fili.

Il rimbombo mediatico che ha fatto la bellissima canzone “L’albero delle noci” del concittadino Dario Brunori mi ha riportato indietro di qualche decennio… di più di un decennio… dell’oltre mezzo secolo di vita che mi sono lasciato alle spalle. Ovvero a quegli spensierati giorni del “godi fanciullo” quando mia madre (magara come tutte le donne che si rispettino a San Fili) non so se per farmi paura o perché anche lei era stata a sua volta vittima di tali dicerie quando la stessa era bambina mi svelò che non bisogna mai piantare una noce. E mi svelò tale prezioso mistero dopo, purtroppo, che io ne avevo piantato una in un terreno che in quegli anni, primi anni settata del XX secolo, mio padre coltivava, più per hobby che per necessità, poco al di sotto del tratto di strada che noi sanfilesi d’altri tempi continuiamo a chiamare “scisa d’u Canalicchiu”. Un terreno poco al disotto dell’ex galleria ferroviaria che passa al di sotto del centro abitato… uscita lato Cosenza.

E la cosa peggiore era stato il rendermi conto che quella noce che aveva piantato si era già magicamente tramutata in una simpatica… bella piantina.

Perché non avrei mai dovuto piantare una noce con le mie mani? Perché non dovrete mai piantare una noce con le vostre mani?

Ok, non dimenticate mai che San Fili (CS) continua ad essere terra delle magare, terre dei magari e terre dei magaruni: terra magica e terra di magia. E forse come tale l’ha voluta proprio il Grande Architetto Dell’Universo.

Detto questo… detto il resto: non appena il tronco dell’albero nato dalla noce che avete incautamente piantato con le vostre mani, sfidando la sorte ed il destino, raggiunge la circonferenza del vostro collo… salutate amici parenti ed affini in quanto pochi, se non già passati, sono i giorni che vi restano da vivere. L’albero delle noci tanto caro a più di un Dio greco, a partire dallo stesso Giove, sembra rispetti, secondo tale leggenda, l’equazione “una vita uguale una vita”.

Quale fu il prezzo che pagai per questa nuova drammatica scoperta: per oltre quindici/venti anni passando a pochi metri da dove cresceva sempre più rigoglioso non l’albero delle noci di Dario Brunori ma il mio albero felle noci controllavo la circonferenza del mio collo, e seppure da una certa distanza, cercavo di vedere se la circonferenza dell’albero avesse raggiunto quella del mio collo.

A questo punto due domande potrebbero sorgervi spontanee:

1) come mai non estirpai subito l’albero delle noci appena nato?

2) come mai sono ancora vivo?

E queste due intelligenti domande meritano altrettante intelligenti risposte.

Non estirpai la pianticina di noce perché amo la natura… e poi di anni prima che la circonferenza del tronco dell’albero delle noci raggiungesse la circonferenza del mio collo sarebbero comunque passati vari anni… e purtroppo passavano… e purtroppo sono passati.

Per quanto riguarda la risposta alla seconda domanda… siete proprio sicuri che io sia ancora vivo?!?

Un altro consiglio, sempre legato all’albero delle noci, che vi voglio dare (così come mi fu dato a me sempre in quei magici anni del “godi fanciullo”) è… non riposatevi o quantomeno non dormite mai sotto un albero delle noci.

Il motivo?

Sotto l’albero delle noci non c’è vegetazione e se non c’è vegetazione un motivo ci sarà.

L’albero delle noci, almeno in Calabria, continua ad essere un albero caro agli dei delle più disparate religioni del passato… e magari anche di qualcuna del presente.

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Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.

... /pace.


domenica 2 febbraio 2025

Giangurgolo e le altre maschere calabresi.

A sinistra: Giangurgolo, la più importante maschera calabrese, in una immagine ripresa dal web.

Articolo pubblicato sul Notiziario Sanfilese die lese di marzo del 2007.

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Arlecchino, Colombina, Pantalone, Brighella, Balanzone, Pulcinella e chi più ne ha più ne metta.

Ammettiamolo: tutte le maschere famose, è quasi il caso di dirlo, non si fermarono ad Eboli (parafrasando il titolo del capolavoro letterario di Carlo Levi) ma si fermarono a Napoli!

Ma... c’é stata qualche maschera di cui possiamo andare più o meno fieri anche noi Calabresi?

In effetti qualcuna c’é stata. Una in particolare ed un paio in tono minore.

La maschera principale, rappresentativa (si fa per dire) della Calabria, è quella di Giangurgolo. Maschera seguita a ruota da Pacchesicche e Coviello.

Pacchesicche è la maschera calabrese (in quanto “tipo”) più vicina ai giorni nostri. E’ questi uno studente o un abate a Napoli, che non è così ricco da ricevere da casa caciocavalli, salumi e sostentamenti vari e come tale deve accontentarsi di frutta secca.

Sembra uscito, di fatti, da un film di Toto’. Non guasterebbe, come personaggio infatti, una sua apparizione in “Miseria e Nobiltà”.

In un celebre mimo dialogato a quattro personaggi, la Canzone di Zeza, dove quest'ultima (Lucrezia) è la moglie di Pulcinella ormai vecchio e Tolla è la loro figliuola civetta, Pacchesicche è lo studente calabrese che fa la parte dell'innamorato.

Giusto il genero di Pulcinella poteva fare un calabrese nella commedia dell’arte.

Coviello, al contrario di Pacchesicche, riveste diversi ruoli: il servo astuto, il capitano, il ruffiano, il suonatore di mandola; è sempre pronto ad allietare la compagnia e a cantare dolci serenate sotto le finestre di belle fanciulle innamorate.

Il personaggio di Coviello lo ritroviamo anche in una famosa commedia di Molière, il Borghese Gentiluomo, dove ricopre il ruolo del servo astuto.

La maschera più famosa è rappresentativa della Calabria però è stata certamente quella di Giangurgolo.

Maschera, a dire il vero, anch’essa secondaria nell’ambito della commedia dell’arte italiana in quanto, diciamoci la verità, la Calabria aveva ben poco a che spartire con il resto dell’Italia e dell’Europa... almeno fino al 1799.

Giangurgolo deve il suo nome, secondo alcuni, a Giovanni Golapiena, per via del suo insaziabile appetito.

E’ disposto a tutto pur di arraffare qualcosa con cui saziarsi, anche a costo di rubare, se gli capita l'occasione di non essere scorto da nessuno.

Poi é pronto a giurare di non aver visto o sentito niente, perché Giangurgolo oltre che bugiardo si rifiuta di affrontare qualsiasi responsabilità: tanta la fame, ma tantissima la paura.

Questi era la caricatura del nobile siciliano, divenuta popolare in Calabria dopo il 1713, ossia dopo che, ceduta la Sicilia ai Savoia, molti blasonati che parteggiavano per la Spagna lasciarono l'Isola.

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Personalmente mi imbattei la prima volta nella maschera di Giangurgolo alla fine dell'anno scolastico 1977/1978. Frequentavo il primo anno dell'Istituto Tecnico Commerciale "G. Pezzullo" di Cosenza. 

Fu quello un anno, il 1978, tanto tremendo quanto formativo per noi giovani studenti italiani dell'epoca. Fu l'anno in cui si verifico anche l'omicidio di Aldo Moro e della sua scorta e qualche insegnante aveva e persino paura che non avremmo potuto terminare quell'anno scolastico: poteva succedere tutto (tipo un colpo di stato) ma fortunatamente, com'è nella regola (l'eccezione da noi è sempre più rara e sempre più catastrofica) del popolo del Bel Paese... non successe niente.

L'insegnante di lingua italiana dell'epoca (la professoressa Silvana Raffaeli), decisamente una delle poche insegnanti che ricordo con piacere per ciò che ha lasciato alla mia formazione, a fine anno ci diede una lista di libri da leggere... ne avremmo dovuto scegliere, e leggere durante le vacanze estive, almeno tre.

Tra i tre che scelsi io ce n'era uno dal titolo: Il Teatro Calabrese di Coriolano Martirano. Era un saggio ed io, abituato ai romanzi ed alle novelle, neanche sapevo, fino a quel momento, cosa fosse un saggio.

Quel libro mi aprì, mentalmente parlando, un nuovo mondo.

Il mondo, appunto, delle maschere calabresi. 

Maschere che, malgrado gli spagnoli abbiano da oltre un secolo e mezzo lasciato la guida della nostra regione (la Regione Calabria) ancora governano, i loro discendenti (mentalmente parlando), senza interruzione dal 1861, le nostre terre e le nostre teste.

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Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.
... /pace ma... “si vis pacem para bellum”!