A chi non ha il coraggio di firmarsi ma non si vergogna di offendere anche a chi non (?) lo merita.

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martedì 21 agosto 2018

U pont’e Saraca ovvero... “amara cronaca di una tragedia annunciata”?


Articoli pubblicato sul Notiziario Sanfilese del mese di agosto 2018... by Pietro Perri.
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U pont’e Saraca ovvero... “amara cronaca di una tragedia annunciata”?

Il 14 agosto 2018 alle ore 12 l’Italia apprendeva dell’ennesima tragedia, decisamente annunciata, che colpiva la città di Genova.
Un tratto del ponte Morandi (ovvero una parte del tracciato dell’autostrada A10) è crollato ponendo fine, tra l’altro, alla vita di oltre una quarantina di persone. Molte di queste erano decisamente giovani, alcuni poco più che ragazzine, ed in alcuni casi si trattava di interi nuclei familiari.
Una vera tragedia e purtroppo una tragedia più volte annunciata sia da segnalazioni di singoli cittadini che persino di interrogazioni parlamentari.
Purtroppo in Italia, e forse non solo in Italia, non basta annunciare le tragedie per accorgerci della crudele realtà delle stesse e per prendere eventuali provvedimenti al fine di prevenirle. A volte è necessario che prima si verifichino... e possibilmente che scorra sangue innocente.
Una volta che si è verificata la tragedia si cercano le responsabilità... di chi doveva intervenire e non è intervenuto, di chi doveva controllare e non ha controllato, di chi doveva relazionare ed ha relazionato con un classico “tutto a posto” (un po’ come a dire, parafrasando una celebre gag del principe Antonio De Curtis “L’operazione è riuscita ma il malato è morto”).
Oltretutto anche se trovassimo un colpevole questi tra processi controprocessi rinvii e via dicendo... alla fine sarà prosciolto con una bella prescrizione ed una lauta buonuscita.
Questa, dopotutto, continua ad essere l’Italia.
Restano i morti e gli inconsolabili familiari degli stessi.
Il crollo del ponte Morandi di Genova ha risvegliato, seppure per i soliti pochi giorni previsti dal protocollo, l’attenzione sulla situazione di tutti gli altri ponti a rischio presenti in tutt’Italia.
E nel novero di questi ponti, o viadotti, a rischio crollo è giusto ricordare che c’è anche il nostro caro “viadotto Emoli I” ovvero de ‘u pont’e Saraca (qualcuno dice sia nelle stesse condizioni anche il “viadotto Emoli II” ovvero quello al di sotto della villetta degli emigranti).
La domanda, che rivolgo con tutto il cuore agli amministratori locali (passati, presenti e futuri), è: “Vogliamo parlarne seriamente prima che sia troppo tardi”?
Se non è già troppo tardi.
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Una strana casualità?

Avevo non più di sei o sette anni quando furono inaugurati (ovvero aperto al traffico automobilistico) i ponti “viadotto Emoli I” e “viadotto Emoli II”.
Era il 1966 o al massimo il 1967. Era, difatti, una inaugurazione quasi in contemporanea  all’inaugurazione del ponte Morandi a Genova.
Da allora sono passati oltre 50 anni.
Tanti... per una struttura in cemento più o meno armato (in alcuni casi del tutto disarmato).
Il cemento, infatti, ormai l’abbiamo capito tutti che è un materiale eterno come l’eternit: zero, confrontato ad altri materiali scoperti ed utilizzati nel passato da noi esseri umani per realizzare ponti, case, strade e chi più ne ha più ne metta.
La realizzazione della nuova SS (Strada Statale) 107 per San Fili e non solo per San Fili all’inizio fu una fortuna. Una fortuna che comunque gli amministratori locali che hanno vissuto in quel periodo e molti di quanti sono loro succeduti agli stessi non hanno saputo minimamente tesorizzare.
Come al solito dalle nostre parti si è pensato al presente, ai soldi facili e subito (sempre per pochi e sempre per i soliti) a discapito del futuro dell’intera Comunità.
In quel periodo la mia famiglia abitava, da piccoli coloni, in una casetta in contrada Volette di proprietà della famiglia dell’ingegnere Giuseppe Blasi.
Io nascevo “immediatamente ospite di quella casetta” nel lontano 1961.
Al primo piano c’era la stanza da letto ed una finestra guardava proprio nella zona del costruendo ponte di Saraca ovvero del “viadotto Emoli I”.
I miei occhi erano affascinati dalle luci delle prime macchine che oltrepassavano quel ponte.
Qualcuno mi disse d’iniziare a contarle ed io iniziai a contarle e ad annotarne il numero.
Ero un bambino.
Era una magia unica.
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... un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.
... /pace ma... “si vis pacem para bellum”!

domenica 12 agosto 2018

‘a ‘mpigliolata. (1/6)



Nella foto a sinistra (ripresa dal web): Patate 'mpacchiuse... ara santufilise. ‘E patate ‘mpacchiuse (piatto povero ma decisamente gustoso) sono uno dei piatti tipici santufilisi assieme a pochissime altre pietanze o dolci quali ‘a ‘mpigliolata oggetto di quest’articolo. Foto dal web.

Articolo pubblicato sul Notiziario Sanfilese del mese febbraio del 2018... by Pietro Perri.

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Non raramente sento chiedermi da gente non sanfilese quali siano i piatti tipici della cucina del nostro stupendo... amato/odiato borgo.

Credetemi, non è facile dare una risposta a tale domanda. O almeno non lo è per lo scrivente (non ho mai messo in dubbio, infatti, né ho intenzione di farlo d’ora in poi, la cultura a dir poco superiore - confrontata alla mia - di tanti miei compaesani).

Certo se dovessi riferirmi ad un dolce tipico non potrei fare a meno di nominare la nostra stupenda chjina (tipico dolce sanfilese del periodo di carnevale, per chi non lo conoscesse o ne avesse perso il ricordo) ma troverei grosse difficolta ad indicare un primo piatto, un buon secondo o un contorno.

Intendiamoci: a San Fili, ovviamente escludendo singoli casi e/o singoli periodi storici, così come in buona parte del Meridione d’Italia (grazie anche e soprattutto alla nostra arte d’arrangiarci col nulla) non siamo mai morti di fame riuscendo non raramente a far diventare, in cucina, oro colato del semplice piombo.

Però... come rispondere al mio interlocutore col classico “lagana e ceci” o, per i più sofisticati, “lagana e cicerchie” o, per restare nel classico, dei fusilli (‘nchionchiari) conditi con sugo d’agnello o lardo e costine di maiale? ... troppo banale, troppo scontato, troppo... calabrese.

Diciamo la verità: a San Fili non siamo stati in grado finora di “istituzionalizzare” una cucina tradizionale.

Ognuno di noi ne inventa, a giusta richiesta di conoscenti “non sanfilesi”, di volta in volta una propria e spesso una nuova che tutto ha tranne che di sapore e profumo... tradizionale (tipico ed unico) sanfilese.

Qualcuna di tanto in tanto provo ad inventarla anche io. E lo faccio ovviamente rifacendomi ai ricordi che sopravvivono in me dai tempi in cui la mia famiglia abitava ancora in campagna in contrada Volette, ovvero fino al 1968, o ai primi anni in cui, con la stessa, mi sono trovato catapultato nella vita, decisamente meno bucolica di quella della campagna, del paese.

La cucina della mia famiglia era, ed in parte lo è tutt’ora, una cucina definibile “povera”. Ed ovviamente con “povera” intendo una cucina in cui c’era, e c’è, poco da mangiare.

La cucina della mia famiglia era caratterizzata da pasta fatta in casa, almeno la domenica, con ottimi “fusilli realizzati col ferro” (‘nchionchiari... prima o poi troverò l’esatta trascrizione di tale termine), gnocchetti senza patate (strangugliaprieviti - strangola preti) o gnocchi con patate, uova cucinate in vari modi (tipo ‘mpurgatoriu o ‘mprigatoriu) e via dicendo. Per secondo, essendo noi gente di campagna (tengo a sottolineare che in quegli anni non era la campagna ad essere periferia del centro urbano di San Fili ma esattamente il contrario), si mangiava quello che la campagna stessa ci metteva a disposizione: carne da animali da allevamento, latte, uova ecc. ecc.

Oltretutto per quanto riguarda i piatti che si ricavava dall’uccisione e dalla lavorazione degli animali di allevamento anche in questo caso qualcosa, qualche sapore di quei tempi - il progresso ce lo impone - l’abbiamo perso. Qualcuno di voi infatti ricorda ancora per caso il sangue del pollo bollito e fritto? ... o ‘e cuorduliddre (interiora pulite ed intorcinate su rametti di prezzemolo e quindi cotte magari in un po’ di sugo di pomodoro)? ... lasciatemi dubitare.

E per contorno? ... patate e verdure. Queste ultime non sempre frutto di coltivazione ma frutto di raccolte di erbe spontanee quali i gustosissimi cardi (carduni) e cicorie selvatiche, germogli di aneto (finuocchi ‘e timpa) e germogli di vitalba (vitarve). Verdure queste, ma non solo queste, cui spesso ci si limitava a sbollentarle e passarle successivamente in un tegamino dove si era messo a friggere un aglio in un po’ d’olio o strutto (grasso di maiale).

I germogli di vitalba (qualcuno a San Fili li raccoglie ancora... a volte anche io) dopo sbollentati non raramente li si impastava con l’uovo sbattuto e vi si ricavava una gustosissima frittata. Una frittata che poteva far concorrenza alla frittata con asparagi... ovviamente selvatici ed altrettanto ovviamente delle nostre parti.

Persino le patate dalle nostre parti negli anni precedenti gli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso avevano uno spazio non indifferente nella nostra “cucina tipica sanfilese”... sempre con riferimento alla mia famiglia.

Un esempio ne erano le cosiddette “patate ‘mpacchiuse” (patate tagliate a fette tonde e relativamente spesse e messe a friggere - all’inizio con il coperchio - con qualche foglia di lauro e con qualche spicchio d’aglio a più strati in una capiente padella o... frissura). Tale pietanza è una delle poche che, stranamente, ha trovato un piccolo spazio nella cucina dei ristoranti locali. All’interno della padella per diversificare il sapore delle “patate ‘mpacchiuse” si poteva arricchire la cottura aggiungendo alle stesse altri ingredienti quali punte di asparagi, broccoli neri, cime di rapa, funghi porcini (siddri), cipolle e chi più ne ha più ne metta.

Ottime, a quei tempi, erano anche le patate cotte nella cenere.

Nel fare tra me e me quest’excursus della cucina tipica locale in ogni caso non potevo non pensare a determinate pietanze (piatti?) tipiche di quei tempi ma che oggi sembra siano quasi del tutto dimenticate o comunque destinate all’eterno oblio.

In tale mio excursus gastronomico, inutile dirlo, non parlerò della lavorazione della carne del maiale e dei suoi derivati.

Un esempio? ... i taralli sanfilesi (quelli realizzati immettendo nell’impasto il sempre più raro... saporitissimo anice nero o aranzo che dir si voglia), la majatica (in alcune zone del cosentino la chiamano ‘nchiambara... ma non è altro che un gustosissimo fritto di farina relativamente liquida anch’esso diversamente condito all’interno) o la (squillino le trombe)... ‘mpigliolata santufilise.

Ma di questa deliziosa e quasi dimenticata pietanza che ai nostri nonni al solo pensiero veniva l’acquolina in bocca... ne parleremo quanto prima (...).

(continua).

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Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.

... /pace ma... “si vis pacem para bellum”!