Nella foto a sinistra
(ripresa dall’archivio Francesco Ciccio Cirillo): San Fili 1930 – Filannola
alle Coste. Nella stessa compaiono mastro Giuseppe Sangermano ed i suoi
discepoli.
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Ricordo, con questo
scritto dell’amico Luigi “Gigino” Iantorno pubblicato sul Notiziario Sanfilese
del mese di Aprile 2017, una bellissima pagina di ricordi (spunti per una
ricerca)... della nostra stupenda amata/odiata Comunità: l’allevamento del baco
da seta.
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A San Fili fino a qualche decennio
addietro, ovvero agli anni precedenti il 1970, alcune famiglie si dedicavano all’allevamento
de “u siricu” ovvero del baco da seta.
Io, da bambino, a volte seguivo mia madre,
anche lei impiegata in tale occupazione, nei punti in cui si allevavano i bachi
da seta e si procedeva alle varie fasi relative all’estrazione dai bossoli
della preziosa fibra.
Uno dei punti in cui si produceva la seta
a San Fili si trovava nella zona della “Gghiazza” (rione Spirito Santo)
ed il tutto si svolgeva in un magazzino di proprietà della famiglia Lio. Tale
laboratorio fu in un secondo tempo trasferito in “via rampa” dove si trovava
l’abitazione di tale famiglia. Nasceva in tale zona la famosa ditta della
famiglia Lio con i fratelli Giuseppe e Francesco.
Ricordo che, in quel magazzino, c’erano
delle “cannizzole” (ripiani realizzati con intrecci di canne
opportunamente tagliate, spaccate ed intrecciate). Su tali “cannizzole”
venivano disposte una moltitudine di tenere foglie di gelso bianco (dette
comunemente pampine quando attaccate al ramoscello). I bachi da seta
erano ghiottissimi di tali foglie.
Sulle foglie si aggiravano indisturbati ed
intenti a rimpinzarsi a più non posso degli strani vermi tozzi e color cenere.
I bachi da seta, appunto.
Mia madre mi diceva che per ottenere tali
animaletti era necessario versare sulle foglie il relativo seme (ovvero uova
che dischiudendosi avrebbero poi dato vita ai bachi).
Dopo qualche giorno dal momento in cui si
erano dischiuse le uova ed i bachi avevano iniziato a prendere una giusta
consistenza si procedeva a cambiare loro il cibo sostituendo le foglie del
gelso bianco con foglie di gelso nero (piante di cui a quei tempi era ricco il
nostro territorio). Le foglie (pampine) del gelso nero sembra fossero
più ricche di sostanze nutritive.
Piano piano per i bachi si avvicinava il
tempo di procedere alla metamorfosi che li avrebbe tramutati in farfalle.
Metamorfosi che nel caso dei bachi da seta, ovviamente, si sarebbe verificata
in pochissimi casi... visto che la quasi totalità degli stessi non sarebbe mai
uscita fuori viva dal loro bozzolo.
Sulle “cannizzole” venivano, a mano
a mano che si avvicinava il tempo della metamorfosi, anche posti dei rami
ancora con le foglie attaccate. Era su tali ramoscelli cui si attaccavano i
bachi che gli stessi, grazie alla “filatura bavale”, realizzavano un
bozzolo nel quale, con infinita pazienza e sicuramente enorme lavoro, si
chiudevano all’interno.
La maggioranza di tali bachi, dicevamo,
non si tramutavano in farfalla poiché la lavorazione della seta imponeva che i
bozzoli stessi subissero una fase di bollizione che ne uccideva gli ospiti
garantendo comunque la integrità del bozzolo e quindi della preziosa materia
tessile.
I bozzoli così ottenuti venivano poi
commercializzati in varie parti dell’Italia dove, in appositi stabilimenti, si
procedeva alla dipanatura degli stessi e quindi alla realizzazione dei filati
ormai pronti per la fase della tessitura.
Luigi Iantorno.
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Un caro abbraccio a
tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.
... /pace ma... “si vis pacem para bellum”!