Sempre
a sinistra, nell’immagine, Salvatore Ruffolo (mitico barbiere di San Fili).
Archivio
Pietro Perri.
Non
sono abituato a pubblicare roba non firmata, ma in questo caso, tenuto conto
dell’importanza storica del materiale e del fatto che non è offensivo per
nessuno, ho voluto fare un’eccezione… sicuro che non dispiacerà a nessuno (a
partire dall’autore dello scritto che ringrazio vivamente).
E
poi, diciamo la verità, io conosco (e lo ritengo anche un grande amico)
benissimo il caro "Anonimo Grafomane" (così come lo stesso pretende
di firmarsi.
Cordialmente…
Pietro Perri.
* * *
Esimio
Pietro,
il
tuo recente articolo su San Fili “in vendita” letto su internet (n.d.r.:
post del 19 marzo 2012 - articolo pubblicato anche sul “Notiziario Sanfilese”
del mese di Marzo 2012), con molta tristezza mi ha riportato indietro nel
tempo quando il nostro paese era una realtà ben definita e non ormai una sempre
più anonima periferia di Cosenza. In questo forse Rende ha contribuito
fagocitando tutte le risorse pubbliche e private, e attirando e trattenendo
quanto più possibile a sé, per via del potere politico ed economico, che specie
nel recente passato, ha potuto esprimere.
Non
mi considero una penna, per cui quanto qui di seguito costituisce un mio
ricordo traslato su carta, passalo al tuo esperto vaglio e, se lo ritieni
opportuno, farlo rinascere sul tuo foglio. Grazie e auguri.
* * *
Quando
eravamo poveri, negli anni ’50, di domenica San Fili si vestiva a festa. Molti
uomini indossavano il “costume” di velluto nero con all’occhiello un garofano e
le donne, rigorosamente con la testa coperta, facevano la loro fuggevole
comparsa per recarsi a Messa “al Carmine” o alla “Chiesta Madre”. Per tutta la
mattinata il sesso maschile ciondolava fra San Giuvanni e “Mienzu ‘u
Puontu” incontrando e salutando amici e conoscenti. I numerosi barbieri, Oscarinu
Cosenza prima e Martino poi, mastro Salvatore Ruffolo, Noè, Giuvanne
Parrinello, Cicciu ‘u barese, lavoravano a pieno ritmo per radere barbe
a volte incolte da una settimana. La rasatura si concludeva con la
passata di pietra di allume, liscia, levigata ed astringente; non c’era ancora
il dopobarba. I diversi macellai, Tuture e Vittorio ‘e Mecu
(Calomeni), Folinu, Franciscu ’e Gaddruzzu (Bruno), aperti anche
di domenica, prima dell’avvento delle celle frigorifere vendevano
principalmente carne “minuta” (ovini e caprini) e d’inverno anche qualche
maiale, lasciando quasi sempre la carne bovina alla “bassa macelleria”, ossia
alla macellazione forzata in caso d’infortunio dell’animale.
“Mienzu
‘u Puontu” si vendevano frutta e ortalizie locali nelle classiche sporte
intrecciate a mano, mentre nei primi mesi dell’anno comparivano mucchi di
cipolline da trapiantare, legate in grossi mazzi con giunco, mentre quelle più
sviluppate, formate a mazzetti più piccoli, erano da consumare con le prime
insalate di lattuga. L’odore tipico delle cipolline allora dava il segnale
olfattivo dell’arrivo della primavera. In un angolo era sempre presente il
carretto delle “nuciddre americane” (arachidi) di Bucita, cotte nel
forno di donna Laura Vercillo, e in una scatola di latta a strati, intervallati
dalla carta oleata, vi erano i famosi “pezzetti”, ossia torroncini di arachidi
e miele di fichi, già tagliati, con i diavoletti sopra (pallini di zucchero
colorato). Nel suo negozio, “Genoveffa” (Rossiello), sempre presente,
mercanteggiava, con le donne venute dalle campagne, quegli scampoli di stoffe
che nelle sue mani s’impreziosivano, mentre “Santuzzu” suo marito con
arte prendeva le prenotazioni per coprire di stoffa i bottoni dei vestiti delle
ragazze.
Nella
prima mattinata molti uomini si affrettavano a portare a casa il “fagotto” con
la carne appena acquistata riconoscibile dalla carta gialla spessa ed
assorbente, usata solo dai macellai. Analoga cosa avveniva sporadicamente per
il pesce, in quel caso c’era “U Summichele cu ra trumma a jettare u bannu”
(il banditore) per informare dell’eccezionalità il paese.
Un
saluto era di prammatica al “compagno” di tessera, ma “liberale” nella vita,
Annibale Nigro, che con bei modi attirava i passanti davanti alla sua
esposizione di scarpe Borri Piuma e di stivali in gomma Superga. Aveva avuto
l’arguzia, per assicurarsi la clientela, di costituirsi “compare” con tutti i
sanfilesi. A “San Giuvanni” c’era invece il calzolaio “Filibertu 'u
surdu” (Cesario) che mostrava le scarpe da lavoro da lui fatte con suole di
gomma ricavata da copertoni d’auto, ma cucite rigorosamente a mano. Chi
saprebbe ora farle?
I
bar “du Bagnaruotu o Roncia” (Blasi), di Saveriu ‘e Viscigliune”
(Sammarco), di Miliuzzu “u Malatu” (Noto), erano pieni di soli uomini
che consumavano più che altro caffè, o che seduti ai tavoli facevano un
tressette “matinée”, in una nuvola di fumo di sigarette, queste nel migliore
dei casi marcate Nazionali Esportazione.
“U
barune Vincenzo Cangemi” con la pipa in bocca aspettava i clienti per la
sua unica nel paese doccia pubblica, fornita di scaldacqua elettrico da 80
litri, per allora una rarità, mentre i fratelli Speziale, d’estate,
distribuivano inviti stampati su cartoncini bianchi de “Il Riccio”, primo
locale notturno forse della Calabria.
Si
approfittava del giorno festivo anche per far “ferrare” asini, muli e cavalli
dal “Bersagliere” che prendeva le misure degli zoccoli a “caldo” liberando
nell’aria la puzza dell’unghia bruciata.
Si
santificava la festa con il riposo e con il contatto con i paesani, ancor più
fra le 11,30 e le ore 12, ossia fra l’uscita della Messa e l’ora canonica del
pranzo, quando nell’aria cominciavano a spargersi gli odori provenienti dalle
diverse cucine.
A
mezzogiorno puntuali tutti a casa per il pranzo, come d’incanto le vie del
paese si svuotavano, di tanto in tanto passava un ritardatario, quasi sempre
con una bottiglia di vino in mano, ¾ di vino e una gassosa, proveniente dalle
cantine di “Giuvann’e Mecu” (Calomeni) a Chiarieddru, di “Ntonapa”
(Peppino Cesario) o di Ramaglio.
Come
sembrano o sono lontani quei tempi, come il tempo scorreva a ritmi diversi,
quante cose sono cambiate e non sono più recuperabili... (di certo gli anni
trascorsi) e non ci resta per alcuni che la memoria.
* * *
Caramente...
un tuo debitore anche morale.
* * *
Inutile
dire che, da parte mia, ringrazio di cuore l’amico anonimo non solo per le
belle parole rivolte verso il sottoscritto e verso l’opera (puro e semplice
hobby) del sottoscritto ma anche e soprattutto per il contributo che da tale
scritto al recupero della memoria storica della nostra comunità, la stupenda…
Comunità Sanfilese.
Un
caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.
…
/pace!
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