A chi non ha il coraggio di firmarsi ma non si vergogna di offendere anche a chi non (?) lo merita.

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martedì 29 maggio 2012

La domenica a San Fili… negli anni ‘50. (da Anonimo Grafomane).


A sinistra: Caricatura realizzata da Ruggero Crispini (Rucri').

Sempre a sinistra, nell’immagine, Salvatore Ruffolo (mitico barbiere di San Fili).

Archivio Pietro Perri.

Non sono abituato a pubblicare roba non firmata, ma in questo caso, tenuto conto dell’importanza storica del materiale e del fatto che non è offensivo per nessuno, ho voluto fare un’eccezione… sicuro che non dispiacerà a nessuno (a partire dall’autore dello scritto che ringrazio vivamente).

E poi, diciamo la verità, io conosco (e lo ritengo anche un grande amico) benissimo il caro "Anonimo Grafomane" (così come lo stesso pretende di firmarsi.

Cordialmente… Pietro Perri.

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Esimio Pietro,

il tuo recente articolo su San Fili “in vendita” letto su internet (n.d.r.: post del 19 marzo 2012 - articolo pubblicato anche sul “Notiziario Sanfilese” del mese di Marzo 2012), con molta tristezza mi ha riportato indietro nel tempo quando il nostro paese era una realtà ben definita e non ormai una sempre più anonima periferia di Cosenza. In questo forse Rende ha contribuito fagocitando tutte le risorse pubbliche e private, e attirando e trattenendo quanto più possibile a sé, per via del potere politico ed economico, che specie nel recente passato, ha potuto esprimere.

Non mi considero una penna, per cui quanto qui di seguito costituisce un mio ricordo traslato su carta, passalo al tuo esperto vaglio e, se lo ritieni opportuno, farlo rinascere sul tuo foglio. Grazie e auguri.

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Quando eravamo poveri, negli anni ’50, di domenica San Fili si vestiva a festa. Molti uomini indossavano il “costume” di velluto nero con all’occhiello un garofano e le donne, rigorosamente con la testa coperta, facevano la loro fuggevole comparsa per recarsi a Messa “al Carmine” o alla “Chiesta Madre”. Per tutta la mattinata il sesso maschile ciondolava fra San Giuvanni e “Mienzu ‘u Puontu” incontrando e salutando amici e conoscenti. I numerosi barbieri, Oscarinu Cosenza prima e Martino poi, mastro Salvatore Ruffolo, Noè, Giuvanne Parrinello, Cicciu ‘u barese, lavoravano a pieno ritmo per radere barbe a volte incolte da una settimana. La rasatura si concludeva con la passata di pietra di allume, liscia, levigata ed astringente; non c’era ancora il dopobarba. I diversi macellai, Tuture e Vittorio ‘e Mecu (Calomeni), Folinu, Franciscu ’e Gaddruzzu (Bruno), aperti anche di domenica, prima dell’avvento delle celle frigorifere vendevano principalmente carne “minuta” (ovini e caprini) e d’inverno anche qualche maiale, lasciando quasi sempre la carne bovina alla “bassa macelleria”, ossia alla macellazione forzata in caso d’infortunio dell’animale.

Mienzu ‘u Puontu” si vendevano frutta e ortalizie locali nelle classiche sporte intrecciate a mano, mentre nei primi mesi dell’anno comparivano mucchi di cipolline da trapiantare, legate in grossi mazzi con giunco, mentre quelle più sviluppate, formate a mazzetti più piccoli, erano da consumare con le prime insalate di lattuga. L’odore tipico delle cipolline allora dava il segnale olfattivo dell’arrivo della primavera. In un angolo era sempre presente il carretto delle “nuciddre americane” (arachidi) di Bucita, cotte nel forno di donna Laura Vercillo, e in una scatola di latta a strati, intervallati dalla carta oleata, vi erano i famosi “pezzetti”, ossia torroncini di arachidi e miele di fichi, già tagliati, con i diavoletti sopra (pallini di zucchero colorato). Nel suo negozio, “Genoveffa” (Rossiello), sempre presente, mercanteggiava, con le donne venute dalle campagne, quegli scampoli di stoffe che nelle sue mani s’impreziosivano, mentre “Santuzzu” suo marito con arte prendeva le prenotazioni per coprire di stoffa i bottoni dei vestiti delle ragazze.

Nella prima mattinata molti uomini si affrettavano a portare a casa il “fagotto” con la carne appena acquistata riconoscibile dalla carta gialla spessa ed assorbente, usata solo dai macellai. Analoga cosa avveniva sporadicamente per il pesce, in quel caso c’era “U Summichele cu ra trumma a jettare u bannu” (il banditore) per informare dell’eccezionalità il paese.

Un saluto era di prammatica al “compagno” di tessera, ma “liberale” nella vita, Annibale Nigro, che con bei modi attirava i passanti davanti alla sua esposizione di scarpe Borri Piuma e di stivali in gomma Superga. Aveva avuto l’arguzia, per assicurarsi la clientela, di costituirsi “compare” con tutti i sanfilesi. A “San Giuvanni” c’era invece il calzolaio “Filibertu 'u surdu” (Cesario) che mostrava le scarpe da lavoro da lui fatte con suole di gomma ricavata da copertoni d’auto, ma cucite rigorosamente a mano. Chi saprebbe ora farle?

I bar “du Bagnaruotu o Roncia” (Blasi), di Saveriu ‘e Viscigliune” (Sammarco), di Miliuzzu “u Malatu” (Noto), erano pieni di soli uomini che consumavano più che altro caffè, o che seduti ai tavoli facevano un tressette “matinée”, in una nuvola di fumo di sigarette, queste nel migliore dei casi marcate Nazionali Esportazione.

“U barune Vincenzo Cangemi” con la pipa in bocca aspettava i clienti per la sua unica nel paese doccia pubblica, fornita di scaldacqua elettrico da 80 litri, per allora una rarità, mentre i fratelli Speziale, d’estate, distribuivano inviti stampati su cartoncini bianchi de “Il Riccio”, primo locale notturno forse della Calabria.

Si approfittava del giorno festivo anche per far “ferrare” asini, muli e cavalli dal “Bersagliere” che prendeva le misure degli zoccoli a “caldo” liberando nell’aria la puzza dell’unghia bruciata.

Si santificava la festa con il riposo e con il contatto con i paesani, ancor più fra le 11,30 e le ore 12, ossia fra l’uscita della Messa e l’ora canonica del pranzo, quando nell’aria cominciavano a spargersi gli odori provenienti dalle diverse cucine.

A mezzogiorno puntuali tutti a casa per il pranzo, come d’incanto le vie del paese si svuotavano, di tanto in tanto passava un ritardatario, quasi sempre con una bottiglia di vino in mano, ¾ di vino e una gassosa, proveniente dalle cantine di “Giuvann’e Mecu” (Calomeni) a Chiarieddru, di “Ntonapa” (Peppino Cesario) o di Ramaglio.

Come sembrano o sono lontani quei tempi, come il tempo scorreva a ritmi diversi, quante cose sono cambiate e non sono più recuperabili... (di certo gli anni trascorsi) e non ci resta per alcuni che la memoria.

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Caramente... un tuo debitore anche morale.

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Inutile dire che, da parte mia, ringrazio di cuore l’amico anonimo non solo per le belle parole rivolte verso il sottoscritto e verso l’opera (puro e semplice hobby) del sottoscritto ma anche e soprattutto per il contributo che da tale scritto al recupero della memoria storica della nostra comunità, la stupenda… Comunità Sanfilese.

Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.

… /pace!

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