SAN FILI BY PIETRO PERRI BLOG: marzo 2020

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martedì 3 marzo 2020

C’erano una volta i trappiti a San Fili.

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C’erano una volta i trappiti a San Fili,

Breve nota di Pietro Perri

Tra le tante attività che venivano svolte, ovviamente con una certa rilevanza, in agricoltura, nell’industriosa San Fili, almeno fino alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso vi era anche la raccolta e la lavorazione delle olive. Una lavorazione che prevedeva sia la conservazione ad uso alimentare delle stesse (alive ammaccate e via dicendo) che quella della produzione dell’olio.

Per quanto riguarda la lavorazione delle olive al fine della produzione dell’olio a San Fili c’erano, parlo ovviamente di ricordi che vanno via via offuscandosi nella mia sempre più vecchia e stanca memoria, diversi trappiti (frantoi).

Si parla, infatti, di almeno tre frantoi presenti all’interno del centro storico di San Fili: uno appartenente alla famiglia dei baroni Miceli (nella parte inferiore del palazzo di donna Vienna Gentile), uno appartenente alla famiglia dell’indimenticabile don Cesare Gentile (sempre mmienz’u puontu sotto la casa della famiglia Assise, all’inizio della scalinata che da piazza ex municipio conduce dritta dritta davanti all’edificio delle scuole materne del paese) ed uno (alquanto recente ma già posto fuori attività agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso) si trovava nella parte inferiore (adiacente alla cosiddetta “strata nova”) del palazzo di donna Giuliana Gentili. E sembra che donn’Oscaru Gentili gestisse anche un altro frantoio nei pressi della chiesa di sant’Antonio abate.

Un altro frantoio si trovava sui Cozzi in un’ala laterale del palazzo di don Peppino Blasi.

Tale frantoio, se non erro, era gestito da don Gaetano Blasi.

L’ultimo frantoio in ordine di apparizione nel centro urbano di San Fili sembra sia stato quello di Emilio Noto. Tale frantoio, situato nella zona denominata Piano Ghiande (poco più avanti del bivio per la frazione Bucita, ovviamente proseguendo in direzione Paola).

Credo sia giusto sottolineare che i più antichi trappiti di San Fili, parliamo a memoria d’uomo, sono i succitati appartenuti alle famiglie Gentile e Miceli, ovvero quelli situati nelle adiacenze della zona denominata mmienz’u puontu. Mentre i più recenti sono quelli gestiti da donn’Oscaru Gentili ed Emilio Noto.

Considerato il limitato, per estensione, territorio di San Fili la presenza di tali e tanti frantoi all’interno del nostro Comune è giustificata da un uso quasi a livello familiare.

Nulla toglie comunque che parte delle olive da cui si estraeva l’olio nei frantoi di San Fili venissero portate nel paese, sfruttando la forza motrice di somari e muli, dalle vicine contrade quale Cucchiano, le Volette e la Profico o zone ricadenti nel territorio della confinante cittadina di San Vincenzo la Costa.

Comunque non sarebbe sbagliato, in un prossimo futuro, ritornare a parlare, magari in modo più dettagliato e con qualche foto scattata nei locali in cui erano ubicati, dei trappiti di San Fili.

Ringrazio comunque l’Anonimo Sanfilese che mi ha mandato lo scritto che riporto di seguito per aver aperto questa stupenda pagina di... ricordi sanfilesi.

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C’erano una volta i trappiti a San Fili.

Di un caro Grafomane Sanfilese.


Nella foto a sinistra: Il pianerottolo (abbaddraturu?) sotto il portico della casa della famiglia Assisa. A sinistra di questa seconda foto il portone cui si accedeva al frantoio della famiglia Gentile.

Foto by Pietro Perri.

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Uccidere il maiale, fare il vino e fare l’olio erano i sacri riti familiari, ora i primi due stanno entrando nell’oblio, mentre per il terzo vige ancora la sacralità della raccolta delle ulive in proprio o facendo a metà con chi le raccoglie.

Il lavoro però non finisce all’imbrunire delle giornate autunnali e invernali, vi è poi la sosta al frantoio o meglio detto trappito, forse perché i cunei delle presse meccaniche che comprimevano i fiscoli, ad ogni aumento di pressione con la loro caduta emettevano un suono simile ad un trap-trap.

Nel trappito arrivavano i sacchi neri ed untuosi, ora in parte sostituiti dalle cassette di plastica multicolore, ed il rappresentante di ogni partita rimane a vigilare sulle drupe e sui recipienti destinati al trasporto dell’olio.

In un angolo del trappito vi è sempre un caminetto, spesso alimentato con la stessa sansa delle ulive, con l’immancabile recipiente dell’acqua calda coadiuvante alla pulizia delle mani o dei recipienti.

Non mancano le borse con le arance, il mezzo fiasco di vino, del pane e del companatico per lenire i morsi della fame che a fine giornata si fanno sentire, portati dai vari clienti all’atto dell’ingresso e poi lasciati nella disponibilità di tutti.

Il fuoco del caminetto ristora i presenti e nel contempo asciuga la parte bassa dei pantaloni dei raccoglitori.

Il pavimento è reso viscido dall’olio che per forza di cose scola dai fiscoli nel riempirli, dalle presse, dalla macina o dai soffioni violenti che talvolta fuoriescono dalla pila di dischi e fiscoli sotto pressione.

Tutto questo avviene in un ambiente pregno di un odore pungente di olio fresco che sgorga dalla macchina separatrice dell’olio dall’acqua di vegetazione come da una fontanella di acqua di montagna. Forse il piacere che si avverte vedendo sgorgare l’olio in inverno è simile a quello della vista di un getto di acqua fresca, fra ombrosità e muschi, in una tarda mattina della calda estate.

L’attesa è lunga, ma si è sempre in compagnia di persone da sempre conosciute, per cui gli argomenti di conversazione non mancano, ma di tanto in tanto lo sguardo vola ai propri sacchi ed al controllo visivo degli stessi. La buccia di un’arancia buttata fra i carboni accesi per qualche minuto profuma l’aria in modo diverso, mentre procura soddisfazione una nuova caduta di olive nella vasca della macina, indice che il tempo di attesa si accorcia.

In un angolo vi è un vecchio tavolino simile a quelli usati in cantina sul quale vi è un blocco di carta bianca riciclata, una penna legata con filo, e messo in verticale, un fil di ferro appuntito sul quale il frantoiano annota la partita, le quantità molite, la resa in olio e il pagamento se in natura o in contanti.

La lampadina, ad inizio stagione trasparente e pulita, è ora opaca e anch’essa untuosa, mentre tutti i clienti odiano quello scaldino elettrico con la sua sfacciata spia rossa, posto in alto ed in angolo, che fornisce l’acqua per pulire esternamente le presse, a spremitura avvenuta, perché convinti che anche quella poca acqua calda possa nuocere al nascente olio. Allo stesso modo tutti, in solitario, cercano di scoprire, in quel dedalo di tubazioni, quella destinata a fare la cresta sul loro olio direttamente in fase di produzione, a monte del separatore; da sempre il frantoiano, nella convinzione generale, è persona che lucra sull’olio che produce, in aggiunta al corrispettivo per il suo servizio.

Il frantoiano si avvicina ai sacchi della nuova partita: il cliente interessato salta in piedi lasciando il fuoco, le discussioni ed anche il bicchiere di vino a metà, per accertarsi che tutti i suoi sacchi vengano lavorati e lieto perché fra poco vedrà concretizzarsi il risultato del suo lavoro. Ora è più tranquillo, finisce il suo bicchiere di vino, parla più disteso con gli amici, offre un eventuale suo aiuto al frantoiano, ma prepara con cura delle fette di pane da leggermente arrostire al fuoco per poi innaffiarle dell’olio che per primo uscirà dal separatore. Quando ciò avverrà il frantoiano metterà il suo dito sotto il rivolo, quindi lo metterà in bocca oleandola tutta, quindi aspirerà con forza dell’aria e a quel punto, con un buon grado di approssimazione, stabilirà, dall’alto della sua esperienza, il grado di acidità.

Il cliente in quel momento è soddisfatto, raccoglie i suoi recipienti, ora pieni fino all’orlo, ed una volta a casa pensa che anche se nei giorni seguenti pioverà lui ormai le ulive le ha raccolte e l’olio per quest’anno è nella giara.

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Un caro abbraccio a tutti dal sempre vostro affezionato Pietro Perri.

... /pace ma... “si vis pacem para bellum”!